Michel Foucault si recò in Iran per due volte nell'autunno del 1978, producendo una serie di articoli per il Corriere della Sera che vennero accolti da reazioni vivaci e contrastanti. Nel 2023 il volume Dossier Iran li ha raccolti e ripubblicati insieme ad altri materiali inediti riguardanti la polemica che seguì la pubblicazione originale.
La prefatrice Elettra Stimilli ritiene che Foucault sia stato in quelle circostanze indotto a riflettere su quella rivoluzione francese che ha segnato l’idea stessa di storia in Occidente e che, stando a quanto avrebbe sostenuto lo stesso Kant, sarebbe valsa a rappresentare la tendenza del genere umano al progresso. Dall'Iran Foucault guarda tanto la rivoluzione in atto quanto la sua cultura di provenienza, in cui gli effetti dell'Illuminismo e la funzione stessa della Ragione sarebbero stati intesi come segni di progresso portando all'assolutizzazione della razionalità. Kant avrebbe trovato nella storia la componente di universalità che spetta alla Ragione, e ritenuto integralmente storiche le manifestazioni di essa. Nella sua interpretazione di Kant, Foucault avrebbe considerato l'illuminismo come un'epoca consapevole di essere la prima in cui il pensiero ha assegnato a se stesso il compito di interpretare il presente interrogandosi quindi sulla possibilità di cambiarlo. La rivoluzione sarebbe quindi un attore storico sempre operativo al di là delle contingenze. Gli eventi iraniani avrebbero colto Foucault già alle prese con la revisione di questo assunto, che in pochi mesi lo avrebbe portato a interrogarsi sullo statuto politico delle "questioni quotidiane", delle "lotte decentrate" che avrebbero preso il posto delle lotte unificate e identificate con la rivoluzione. Dopo il venerdì nero dell'8 settembre 1978 e la strage di piazza Jaleh, Foucault avrebbe usato l'espressione "spiritualità politica" per definire quello che gli appariva come il cuore della rivolta, in un articolo che avrebbe acceso una polemica violenta. Incontrando l'ayatollah Shariatmadari e il rappresentante dell'ala laica del movimento rivoluzionario Mehdi Bazargan, Foucault si sarebbe convinto che le aspirazioni dei rivoluzionari non sarebbero state immediatamente riconducibili a mere condizioni materiali; l'Islam sciita non gli sarebbe apparso come il ritorno di un arcaismo ma come la componente essenziale di una rivolta spirituale contrapposta a una modernizzazione senza anima. Di lì a qualche decennio l'Islam politico avrebbe preso le caratteristiche di una delle più radicali forme di reazione alla fede nel mercato unico di matrice occidentale. Carl Schmitt avrebbe concepito la religione come astratto collante del potere; Foucault l'avrebbe invece vista all'opera come sua costante forma critica. Rifacendosi a Louis Massignon e a Henry Corbin prima e infine ad Ali Shariati, Foucault è propenso a credere che tra Islam sciita e critica al potere esista un nesso profondo. In Iran la religione intesa come modo di vivere -con ampie ripercussioni sulla fisicità del corpo- anziché come abito ideologico, avrebbe reso possibile l'apertura di alternative rispetto a un contesto che si presentava immodificabile. L'errore di Foucault secondo la prefatrice sarebbe stato il non dare alcun peso a chi gli faceva presente il senso molto letterale che un governo islamico avrebbe dato ai dettami coranici in materia di controllo dei corpi, con particolare riguardo a quelli femminili. Neppure nei propri studi successivi Foucault avrebbe affrontato direttamente la questione, rendendosi criticabile da parte di chi avrebbe sostenuto che la sua indulgenza verso la "spiritualità politica" gliene avrebbe fatto gravemente sottovalutare le implicazioni pratiche.
Foucault poté assistere innanzitutto alla mobilitazione popolare per i soccorsi alla città di Tabas, duramente colpita da un terremoto negli stessi giorni del massacro di piazza Jaleh. Il primo articolo del dossier tratta anche dell'esercito iraniano sotto lo Shah e dei suoi evidenti punti deboli, dalla dipendenza dalle forniture statunitensi alla mancanza di un vero e proprio stato maggiore fino a una storia militare che si compendiava nel ruolo di guardiano coloniale delle concessioni straniere. Lo svilupparsi dei disordini avrebbe costretto il governo a farli reprimere da truppe "né preparate né portate" a questo compito, che faccia a faccia con i manifestanti avrebbero scoperto che le proteste non avrebbero avuto a che fare con lo spauracchio del comunismo internazionale, ma "con la strada, con i commercianti del bazar, con gli impiegati, con disoccupati come lo sono i loro fratelli o come lo sarebbero loro stessi se non fossero soldati". Foucault avanza il dubbio che l'enorme potenziale iraniano fosse destinato solo alla repressione -con tutte le conseguenze del caso- o a fare terra bruciata del paese in caso di invasione sovietica; solo il movimento popolare islamico avrebbe potuto trasformarlo in un organizzazione davvero capace di un intervento politico efficace.
Nel settembre 1978 Foucault sarebbe stato consapevole del fatto che dopo il regno di un sovrano "arrogante, maldestro e autoritario" sarebbe stato necessario qualcosa che riconciliasse l'Iran più profondo con la prospettiva della modernizzazione. A Tehran non avrebbe raccolto propositi concreti che non fossero generali e concordi attestazioni di insofferenza per i Pahlavi e avrebbe avuto modo di riflettere sulle storture e sull'effetto controproducente di provvedimenti imposti d'autorità che tutte le classi sociali avrebbero considerato tutt'uno col sovrano in carica. La modernizzazione viene considerata da Foucault come l'unica parte (malamente) perseguibile di un programma kemalista destinato al fallimento fin dal suo abbozzo; alla vigilia della Rivoluzione, in un Paese dove la corruzione sarebbe stata uno dei principali mezzi di esercizio del potere e un meccanismo fondamentale dell'economia, la modernizzazione non sarebbe stata altro che un peso morto.
Tehran si sarebbe presentata a Foucault gremita da una popolazione urbanizzatasi da poco -cacciata dall'agricoltura e dalle botteghe artigiane dalla modernizzazione dello Shah- cui avrebbero offerto appiglio e rifugio la moschea e la comunità religiosa. L'A. avrebbe visto il lutto per i morti di piazza Jaleh prendere nei cimiteri e nelle moschee la forma dell'iniziativa politica volta all'instaurazione di un governo islamico. Anziché oppio dei popoli, l'Islam sciita avrebbe visto gli 'aimma con il mitra fra le mani; l'attesa del Mahdi non sarebbe più stata incompatibile con la lotta per un buon governo e con la difesa dei credenti contro un cattivo potere. Foucault descrive il ruolo sociale del clero sciita, sollecitato dai credenti a denunciare le ingiustizie e a criticare i provvedimenti inaccettabili nonostante il proprio storico coinvolgimento con il potere, e sottolinea come nel corso dei secoli dall'Islam sciita sarebbero venuti tanto i quadri delle amministrazioni imperiali quanto i catalizzatori delle forze che possono opporsi proprio al potere dello Stato.
Foucault descrive come tra le possibili soluzioni prese in esame dagli ambienti governativi vi fosse una "liberalizzazione accelerata" su modello del postfranchismo, che in Iran però non avrebbe potuto contare su una base sociale adeguata. Una liberalizzazione rapida e senza interruzioni di potere avrebbe dovuto integrare o neutralizzare il movimento popolare, e soprattutto capire dove volesse arrivare; sarebbe stato il corso degli eventi a rendere irrealizzabile questa prospettiva e a concretizzare invece quella del governo islamico. Foucault nota come il movimento islamico avrebbe mirato a conferire un ruolo permanente nella vita politica alle strutture tradizionali della società islamica; l'essenza di un "governo islamico" avrebbe comportato la permanenza in vita delle migliaia di focolai politici accesi nelle moschee e nelle comunità religiose non solo per resistere ai Pahlavi, ma anche per affrontare emergenze impattanti sulla vita di comunità intere come i terremoti; avrebbe inoltre permesso di introdurre una dimensione spirituale nella vita politica. Foucault si sarebbe chiesto se all'epoca la volontà politica del movimento islamico sarebbe stata abbastanza forte da impedire soluzioni di compromesso e da diventare un dato strutturale della vita politica.
Il movimento islamico, rifletteva Foucault, avrebbe potuto subire molte battute d'arresto: la repressione se si fosse intensificato, la dispersione se fosse diventato più ampio, l'assopimento se non avesse adottato un programma. L'A. avrebbe anche notato che dopo i primi massacri l'esercito avrebbe virtualmente cessato di intervenire; ad allontanare la prospettiva di una guerra civile sarebbe stata la sollevazione dell'intera società, senza dispersioni e senza conflitti nonostante i gruppi in grado di agire come forze centrifughe fossero molti e numerosi. Alla fine del 1978 l'atteggiamento generale sarebbe stato caratterizzato dal rifiuto di prolungare l'esistenza del sistema in atto e dal rifiuto di prestare il fianco a giochi politici; la fine dei Pahlavi non sarebbe stata messa seriamente in discussione da nessuno e il governo islamico prospettato da Khomeini -qualunque fosse il significato dell'espressione- sarebbe apparso ogni giorno di più come l'unica alternativa praticabile.
L'ayatollah Khomeini sarebbe riuscito a unire l'opposizione sull'illegittimità e l'illegalità della monarchia Pahlavi, la cui scomparsa dalla scena sarebbe stata la conditio sine qua non per qualsiasi ricostituzione della vita politica. Foucault si chiede quale sarebbe stato il motivo sostanziale della rivolta studentesca che avrebbe fatto precipitare la situazione, identificandolo nella sfida tra i gruppi rivoluzionari radicali e quelli rivoluzionari islamici, nessuno dei quali avrebbe voluto passare per conciliante. L'intervento dell'esercito a Tehran, nelle intenzioni, sarebbe servito allo Shah per spezzare in due l'opposizione e ritrovarsi in una posizione di forza al momento di negoziare con l'opposizione moderata. Un calcolo che non avrebbe considerato le capacità di una resistenza che avrebbe dato nuovamente prova di poter andare assai oltre gli scontri di piazza, e che avrebbe potuto produrre fratture nello stesso esercito.
La serie di reportage da Tehran avrebbero dovuto essere letti fin dalla loro prima pubblicazione come "reportage di idee" il cui intento sarebbe stato quello di rendere conto dei fermenti del mondo contemporaneo, con particolare attenzione a coloro che "fino a oggi la storia non ha quasi mai abituato a parlare o a farsi ascoltare". In Iran le idee e le parole d'ordine della rivoluzione avrebbero corso "sui nastri delle audiocassette" -su cui venivano registrati sermoni, parole d'ordine e proclami- anche e soprattutto dopo che il 5 novembre 1978 una piccola lobby di industriali e di generali avrebbe imposto -più che suggerito- allo Shah di ricorrere all'esercito per imporre la volontà dell'esecutivo in occasione dell'imminente mese di Moharram, in un Iran dove proteste e scioperi dilagavano. Muovendosi tra le varie realtà in sciopero, Foucault avrebbe ravvisato il fenomeno non come sciopero generale, ma come una galassia di movimenti sparsi -ciascuno dei quali si attribuiva una funzione nazionale- ispirati da organizzazioni clandestine e uniti dalla figura di Khomeini.
Alla fine del 1978 Foucault avrebbe tentato un bilancio della situazione in un Iran caratterizzato dall'assenza di un colonizzatore-occupante e da un esercito "sovraequipaggiato" grazie a entrate petrolifere che in tanti decenni non sarebbero riuscite (o servite) a creare nuove forze e nuovi ceti sociali. L'ascesa di Khomeini come riferimento e come catalizzatore delle proteste sarebbe stata dovuta a tre elementi apparentemente negativi: il suo non essere in Iran, il suo non parlare -altro che per dire "no" allo Shah- e il suo non essere un politico. A Foucault quella iraniana sarebbe sembrata "la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più moderna della rivolta e la più folle", e il suo principale artefice sarebbe stato un movimento "attraversato dal soffio di una religione che più dell'aldilà parla della trasformazione di questo mondo".
L'11 febbraio 1979 sarebbe apparso a Foucault molto più rassicurante: basta interrogarsi sul significato di celebrazioni e lutti e sui religiosi che invocano la rivolta e la preghiera, dal vivo o in audiocassetta. L'11 febbraio la rivoluzione avrebbe assunto il volto noto del fucile in spalla agli operai, dell'insurrezione popolare che avrebbe messo all'angolo l'esercito e quegli statunitensi che l'A. considerava speranzosi in una situazione alla cilena che acuisse i conflitti interni e che finisse per facilitare un loro intervento diretto. Foucault distinse con una certa chiarezza la portata e le potenzialità della rivoluzione islamica in Iran; ogni Stato musulmano avrebbe potuto essere rivoluzionato dall'interno. "Il Giordano non scorre più tanto lontano dall'Iran", chiudeva Foucault chiedendosi cosa sarebbe potuto succedere se il movimento islamico si fosse proposto l'obiettivo della liberazione della Palestina.
Dopo l'11 febbraio Foucault avrebbe scritto una lettera aperta a Mehdi Bazargan, capo del governo provvisorio con cui aveva già conferito di persona, in cui approvava la sua scelta di interrompere i processi sommari e le relative esecuzioni e approfondiva il concetto di "governo islamico" e le sue implicazioni.
L'ultimo scritto di Foucault pubblicato sul Corriere e raccolto nel volume è intitolato Sollevarsi è inutile? In queste pagine l'A. considera la sollevazione come un fenomeno che appartiene alla Storia e che al tempo stesso le sfugge, perché non esiste potere in grado di rederlo impossibile. Dopo il XVIII secolo la rivoluzione avrebbe accolto il concetto di sollevazione all'interno di una storia razionale e dominabile, distinguendone le forme buone e quelle cattive e fissando anche le modalità per portarla a compimento. La particolarità inedita del caso iraniano sarebbe stata data dal permanere dell'elemento religioso, dovuto al rapido successo del movimento islamico, alla saldezza delle sue istanze e alle posizioni strategiche che i suoi esponenti occupavano.
La sezione del libro che raccoglie i materiali a corredo si apre con la lettera che la cittadina iraniana residente a Parigi Atoussa H. avrebbe indirizzato al Corriere per sottolineare gli aspetti oppressivi di un governo islamico a suo dire idealizzato in modo incosciente da una "sinistra liberale d'Occidente" che le pare propensa a commenti senz'altro troppo bonari. Foucault le avrebbe risposto considerando proprio dovere chiedersi cosa avrebbe mosso chi si esponeva alla repressione invocando un governo islamico e precisando anche di non aver nascosto i limiti e gli elementi poco rassicuranti di quella prospettiva.
L'aver messo in evidenza la dimensione spirituale della rivoluzione islamica sarebbe costata a Foucault una severa e sarcastica critica da parte di Claudie e Jacques Broyelle, propensi a sottoporre le sue idee al banco di prova della realtà dei fatti.
Focault avrebbe risposto rifiutando un contraddittorio su basi di questo genere.
Il libro prosegue riportando alcune interviste di Foucault pubblicate sulla stampa francese nel 1979.
Dialogando con lo scrittore iraniano Baqir Parham Foucault avrebbe sostenuto l'ineludibilità dell'impegno politico per gli intellettuali, ritenendo che in Occidente e in particolare nella Francia postrivoluzionaria l'intellettuale abbia avuto il dovere di occuparsi dei principi generali e universali dell'umanità. L'accresciuto ruolo sociale delle scienze e delle discipline nel mondo contemporaneo avrebbe comportato anche lo sviluppo dell'impegno in campi specifici, e l'attenzione per le ripercussioni della tecnica e della conoscenza. Paradossalmente, dalle elaborazioni degli intellettuali che aspiravano a una società riconciliata con se stessa, giusta ed equa in Occidente sarebbero invece nati il capitalismo industriale e una società più ingiusta ed oppressiva. Il paradosso, nota Foucault, riguarda tanto i filosofi e la società borghese quanto i pensatori rivoluzionari e gli stati socialisti; la situazione attuale sarebbe quella di un "grado zero" per il pensiero politico, in cui sarebbe necessario analizzare uno a uno tutti i principi che hanno portato a una realtà di oppressione e verificarne la validità. In Iran la religione si sarebbe dimostrata tutt'altro che un oppio dei popoli; secondo Parham il ruolo dell'Islam sciita nel risveglio e nel mantenimento della coscienza politica sarebbe stato storicamente innegabile, e anche in Occidente molti fenomeni di rivolta contro uno Stato oppressivo avrebbero preso innanzitutto la forma di movimenti religiosi come quello anabattista, di fatto relativizzando il pessimo concetto di Marx alle condizioni del suo tempo.
Con Claire Brière e Pierre Blanchet Foucault constata che la rivoluzione in Iran aveva suscitato reazioni che non avevano a che fare con una simpatia immediata e che avrebbero sconfinato nell'aperta irritazione: a Blanchet che gli fa presenti i fondati dubbi della sinistra francese, Foucault risponde che l'atteggiamento generale nei confronti dei fatti di Tehran sarebbe stato dovuto anche al fatto che in Iran non sarebbero state immediatamente individuabili le caratteristiche e i segni considerati espliciti per un movimento rivoluzionario; né le dinamiche della lotta di classe, né quelle per cui un elemento di punta o un'avanguardia si trascinerebbero dietro una nazione intera. La rivoluzione islamica sfiderebbe l'idea stessa di progresso, eppure in Iran la religione sarebbe veramente stata "il vocabolario, il cerimoniale, il dramma senza tempo all'interno del quale poter accogliere il dramma storico di un popolo che oppone la sua esistenza a quella del sovrano". Foucault si spinge a considerare quella vista a Tehran come la genuina espressione di una volontà collettiva, concentrata sull'obiettivo chiaro e concreto rappresentato dalla cacciata dello Shah, unita dal rifiuto di tutto ciò che da secoli aveva costituito il destino politico di un popolo intero. La fine dei Pahlavi, qualunque cosa sarebbe successa dopo, sarebbe stata dovuta a un fenomeno che aveva coinvolto tutti -anche le minoranze etniche- rendendo inadeguate le consuete griglie interpretative. Focault torna a sottolineare nel corso dell'intervista l'esistenza di una volontà collettiva politicamente molto decisa, capace di puntare a un radicale cambiamento nell'esistenza, una delle cui implicazioni sarebbe stata però il fondarsi anche su tradizioni e istituzioni nazionaliste e quindi escludenti.
Con Le Nouvel Observateur Foucault sarebbe tornato a deplorare l'ampio ricorso alla categoria del fanatismo con cui la stampa occidentale inquadrava la rivoluzione islamica, costringendo a giustificarsi chi cercava di cogliere quanto stava succedendo. Michel Foucault avrebbe rivendicato il ricorso all'espressione "spiritualità politica", anch'essa poco tollerata dalla stampa, per descrivere la resistenza senza armi a fronte di uno dei più grandi e meglio armati apparati repressivi del mondo, e sarebbe tornato a definire la modernizzazione rifiutata dagli iraniani come a una ormai invecchiata versione del kemalismo. Foucault definisce la spiritualità, di cui le religioni fornirebbero delle codificazioni, come una pratica in grado di trasformare l'uomo fino a farlo rinunciare alla sua individualità e alla sua posizione di soggetto inteso come sottoposto. Tornando a citare il movimento anabattista e i gruppi religiosi nell'Inghilterra del XVII secolo, Foucault ricorda ancora una volta che la spiritualità potrebbe essere considerata la radice di molti grandi rivolgimenti politici e culturali, nonostante l'impermeabilità di molti storici per qualsiasi cosa esuli dal marxismo e dall'economia politica classica; farebbe eccezione la rivoluzione francese, unico caso in cui lo sviluppo del movimento rivoluzionario non avrebbe ripreso nessuno dei riferimenti spirituali tradizionali. A fronte delle contestazioni sull'oscurantismo insito nei dettami di un governo islamico, Foucault avrebbe rilevato che difficilmente la situazione sarebbe migliorata limitandosi a gridare al fanatismo. L'aspetto costruttivo della rivoluzione in Iran gli sarebbe invece sembrato quello legato alla pratica della sollevazione e al rifiuto dell'assoggettamento.
Con Farès Sassine Foucault avrebbe spiegato che il suo interesse per le vicende iraniane sarebbe nato dalla lettura de Il principio speranza di Ernst Bloch, un testo sulla percezione collettiva della storia, sulla sua maggiore o minore ineluttabilità e sulla praticabilità o meno di una rivoluzione. Le vicende dell'Iran contemporaneo sarebbero apparse a Foucault consonanti ai temi affrontati da Bloch; a differenza della maggior parte del panorama intellettuale del tempo, Foucault non avrebbe considerato l'Islam un ripiego da usare per mobilitare le masse in mancanza di meglio. Foucault invece si ribadisce convinto di aver visto all'opera in Iran una volontà generale raramente riscontrabile sulla scena europea e che gli era sembrata mossa da fini addirittura escatologici. Sottolinea gli aspetti poco chiari e quelli pericolosi insiti in una formula tanto vaga quanto onnicomprensiva come quella di "governo islamico", pur ritendendo che con esso si dovesse intendere, almeno all'inizio, "una forma non politica di coesistenza [...] che non assomiglia in nessun modo a una forma, diciamo occidentale, di strutturazione politica". Accennando nuovamente alle reazioni suscitate in Francia dal suo ricorso al concetto di spiritualità politica, invocato solo per tentare di spiegare senza ostilità preconcette un fenomeno in atto e non per presentarlo come una aspirazione possibile o auspicabile per l'Occidente, Foucault cita tre diversi casi in cui -verosimilmente per islamofobia- sarebbero stati prodotti testi falsi per attribuirgli approvazione per l'esecuzione di ebrei e per l'azione dei tribunali islamici. Nel 1979, riflette divertito Michel Foucault, l'atteggiamento dei mass media occidentali sarebbe arrivato al punto di chiamare gli organi di vertice della Repubblica Islamica dell'Iran "governo Bazargan" nel caso di provvedimenti graditi e "regime dell'ayatollah Khomeini" in caso contrario. Contrariamente a Oriana Fallaci, che della propria "intervista" a Khomeini avrebbe fatto una specie di capo d'opera, il ben più composto e rispettabile Foucault non cercò mai di incontrare un Ruhullah Musavi che affidava quanto di fondamentale aveva da dire ai comunicati stampa, preferendo invece occuparsi delle persone che a quanto pareva "stavano facendo la rivoluzione per conto proprio". Sul fatto che l'Islam potsse costituire di per sé una garanzia contro il dispotismo l'A. si sarebbe detto decisamente scettico; a suo dire il problema -rilevato anche da Shariati- era quello di ricavare dall'Islam "qualcosa come una nuova forma politica". In Occidente invece la rivoluzione iraniana sarebbe stata mal tollerata per il suo sfuggire agli schemi interpretativi consueti e per aver mostrato una "drammaturgia del vissuto rivoluzionario" mai vista prima. Secondo Foucault, a fronte dei governanti e della pervasività anche in Occidente di un potere che è essenzialmente un sistema di relazioni asimmetriche, l'intellettuale avrebbe il compito fondamentale di far valere dei limiti generali quali garanzia del non eccesso senza prendere posizioni dogmatiche, profetiche e men che meno da legislatore.
Michel Foucault - Dossier Iran. A cura di Sajjad Lohi, introduzione di Elettra Stimilli. Neri Pozza, Vicenza 2023. 208 pp.
Michel Foucault - Dossier Iran
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