Paola Caridi - Hamas. Dalla resistenza al regime


Nel giugno 2023 la striscia di Gaza aveva un'ampiezza di trecentosessantacinque chilometri quadrati e due milioni e duecentotrentamila abitanti poveri per il sessanta per cento. Tra questi, un milione e settecentomila erano registrati come profughi. Un milione e trecentomila le "persone in stato di necessità". Il libro di Paola Caridi è la riedizione di un testo pubblicato nel 2009 dopo la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi del 2006 e il boicottaggio dello sgradito risultato da parte dello stato sionista e dei paesi occidentali; nelle prime pagine la Caridi ne riassume la storia editoriale e ringrazia quanti hanno contribuito alla sua redazione.
In un prologo emotivo la Caridi scrive di intendere il libro come un tentativo di indagare i motivi dell'ascesa di Hamas al di là delle reazioni stizzite degli esportatori di democrazia, reazioni che avrebbero portato la comunità internazionale a cancellare nei fatti gli esiti sgraditi della consultazione elettorale di cui essa stessa aveva verificato democraticità e trasparenza. L'A. cita Tom Segev di Haaretz, che all'inizio dell'aggressione sionista chiamata Piombo Fuso scriveva che "Hamas non è un’organizzazione terroristica che tiene i residenti di Gaza come ostaggi: è un movimento nazionalista religioso, e la maggioranza dei residenti di Gaza crede in questa linea". Una definizione che non tiene conto -sorprendentemente, data la fonte- delle cinquecento e più vittime degli attentati suicidi compiuti dai gruppi armati palestinesi negli anni fra il 2000 e il 2005, attentati di cui la Caridi si sarebbe spesso trovata a scrivere. La vulgata diffusa dall'occidentalame attribuisce per intero alle mirabolanti promesse oltremondane dell'Islam la risolutezza degli attentatori di Hamas; un approccio appena appena più serio consentirebbe di rilevare che alla stessa arma hanno fatto ricorso anche formazioni laiche come il Fronte Popolare e a considerarne gli aspetti politici. E dal punto di vista politico, sostiene l'A., Hamas non è solo resistenza o guerriglia e non è solo rete di servizi sociali; è anche un'organizzazione le cui risposte sulla stessa esistenza dei palestinesi e sulla loro sopravvivenza in un paese che possa diventare uno stato de jure verrebbero considerate per lo meno plausibili. Al punto che l'Islam politico palestinese non avrebbe ceduto alle pesanti iniziative militari tanto dello stato sionista quanto dell'Autorità Nazionale Palestinese. Il successo di Hamas nel 2006 sarebbe stato dovuto a un insieme di adesione alla realtà quotidiana della popolazione più debole, al rigore nei comportamenti individuali, alla denuncia della corruttela e del clientelismo dell'ANP e alla aperta contrarietà agli accordi di Oslo, che non avrebbero fatto che rafforzare la politica sionista dei "fatti sul terreno" in materia di insediamenti in Cisgiordania e di utilizzo delle risorse idriche ed economiche, riducendo in maniera drastica le possibilità di manovra della politica palestinese.
La Caridi descrive il clima in cui si sarebbero dovute svolgere le elezioni palestinesi del 2021: Gaza isolata, l'ANP alle strette in Cisgiordania per la presenza sempre più invasiva e aggressiva dei coloni sionisti, Gerusalemme praticamente staccata. Hamas avrebbe riassunto il proprio programma nello slogan "Gerusalemme è la nostra meta" anche per uscire dall'isolamento: quindici anni di amministrazione a Gaza sotto il totale controllo sionista e quattro guerre avrebbero logorato una strategia che nel 2006 aveva puntato su un dettagliato programma di riforme economiche e sociali. Il movimento sarebbe stato ormai costretto a negoziare con lo stato sionista non per la libertà, ma per ogni minima questione di sopravvivenza quotidiana dai permessi di pesca ai lasciapassare per motivi di studio o di salute. Le elezioni non si sarebbero tenute per decisione di Fatah, a rischio di una pesante sconfitta, dopo il peggiorare della situazione in una Gerusalemme "da anni vaso di Pandora di tensioni e ingiustizie" dei quali la Caridi fornisce una lunga serie di esempi. I palestinesi di Gerusalemme vengono ritratti come una realtà esplicitamente mal tollerata, soggetta all'ingegnosità repressiva di esecutivi sionisti che a Gerusalemme sono espressione della parte più destrorsa e conservatrice dell'elettorato e che assecondano il movimento dei coloni con sgomberi e sfratti. In concreto i palestinesi di Gerusalemme sarebbero stati esclusi dal voto dalla sapiente inerzia dello stato sionista, ma il discredito dell'ANP sarebbe stato ormai tale che gli interessati avrebbero incolpato della cosa Fatah e il suo capo Abu Mazen.
L'iconografia gerosolimitana, e segnatamente la cupola della moschea di Al Aqsa, verrebbe assurta a simbolo identitario di una "nazione virtuale" palestinese costruita nel corso dei decenni dalla diaspora: a Gaza e nei campi profughi Gerusalemme è "la nazione che non c'è più, la terra perduta, la storia spezzata". L'A. sottolinea come la Spianata delle Moschee sia un elemento fondamentale nel confronto politico interno palestinese in quanto unico elemento vincolante capace di mettere insieme tutti i frammenti in cui è divisa la popolazione. Hamas avrebbe per questo posto il contrasto alla ebraicizzazione della città molto in alto nella propria agenda, servendosi di una lettura panreligiosa della storia e della tradizione della Palestina. Col 2021 anche Gerusalemme sarebbe entrata nei conflitti tra Hamas e stato sionista perché quello che vi avviene è suscettibile di diventare motivo di escalation; con l'annullamento delle elezioni palestinesi, Hamas avrebbe abbracciato una causa nazionale di ampia portata anche per cercare di dimostrare che il movimento non si è impantanato e non è stato reso inefficace dall'impegno in una Gaza assediata. Nel 2023 l'arrivo al potere dell'estrema destra avrebbe eliminato gli ultimi infingimenti sulla situazione di Gerusalemme; nell'ottobre dello stesso anno le Brigate Izz al Din al Qassam e il braccio armato del Jihad islamico avrebbero rotto il blocco di Gaza, fatto strage nello stato sionista e portato a Gaza almeno duecentoquaranta ostaggi.
Tra welfare e resistenza si apre con una descrizione del valico di Erez, praticamente deserto "monumento funebre agli accordi di Oslo" e a quell'idea di sviluppo a senso unico cui i palestinesi avrebbero potuto contribuire come lavoratori pendolari a basso costo. Dal 2007 il gazzettaio "occidentalista" avrebbe usato spregiativamente il vocabolo Hamastan per indicare un territorio che ben prima della presa del potere da parte di Hamas avrebbe spiccato per indici negativi in campo economico e di qualità della vita. La Caridi ritrae la Gaza del 2007 e la sua normalità illusoria, da quinta teatrale fatta di falansteri, in cui il Movimento di Resistenza Islamico in acronimo Hamas aveva preso il potere dopo un violento scontro con le formazioni armate di Fatah. L'A. ricorda lo stravolgimento della realtà locale provocato dal massiccio afflusso di profughi fra il 1948 e il 1950 verso quella che era stata una importante città del mondo antico. Perso il retroterra, Gaza sarebbe diventata fino al 1967 estrema periferia egiziana e l'Egitto avrebbe continuato anche dopo l'occupazione sionista della striscia ad attrarre al Cairo quella generazione di studenti che avrebbe finito per costituire la spina dorsale della prima Hamas. Hamas che sarebbe nata dall'operato dei Fratelli Musulmani di Hassan al Banna, attivi nella Palestina mandataria fin dal 1935. Nella guerra del 1948 i Fratelli Musulmani egiziani avrebbero partecipato in numeri non rilevanti per le sorti del conflitto, ma sufficienti a far crescere fra i profughi il consenso verso l'Islam politico. I Fratelli Musulmani in una zona stravolta dalla frammentazione della società e dal massiccio afflusso dei profughi avrebbero fornito immediate risposte ai bisogni identitari e di coesione sociale, pur con qualche difficoltà dovuta ai cattivi rapporti tenuti col governo egiziano fino al 1952. La rivoluzione avrebbe consentito ai Fratelli Musulmani di consolidare e diffondere la propria presenza nei campi profughi fino al fallito attentato contro Nasser di due anni dopo, che avrebbe scatenato la repressione egiziana contro il movimento, che sarebbe stato costretto alla clandestinità. I Fratelli Musulmani in Cisgiordania invece sarebbero stati mossi fino al 1967 da un'ideologia conservatrice che avrebbe previsto l'accettazione dell'autorità hashemita, in cambio di una libertà di agire socialmente e politicamente che avrebbe trovato limiti solo nell'orientamento politico filooccidentale della Giordania. Dopo la guerra del 1967 a Gaza e in Cisgiordania il quadro politico sarebbe cambiato, con l'ascesa di nuove élite politiche di rifugiati e di giovani.
Il Movimento di Resistenza Islamico sarebbe nato nel dicembre 1987 mentre era in atto la prima intifada, dopo anni di preparazione da parte di circoli dei Fratelli Musulmani palestinesi lontani da Gaza e dalla Cisgiordania. Il nuovo movimento avrebbe costituito il braccio operativo di un'organizzazione fino ad allora lontana dalla lotta armata e anzi esponente di una generazione di islamisti che aveva limitato le proprie attività alla moschea, alla scuola e all'assistenza sociale nella convinzione che l'allontanamento dall'Islam fosse stato la causa principale della sconfitta contro lo stato sionista. Il programma politico avrebbe puntato alla ricostruzione di una identità solida tramite il ripristino delle basi etiche, del credo religioso, dei valori tradizionali e conservatori affrontando anche i temi della stabilità sociale. A differenza delle organizzazioni caritatevoli già esistenti, il Movimento di Resistenza Islamico avrebbe sviluppato anche una dimensione politica. Dopo la fondazione di un Centro Islamico a Gaza nel 1973, il gruppo raccoltosi attorno alla figura di Ahmed Yassin avrebbe potuto contare sullo imprimatur legale dello stato sionista, che fino al 1989 avrebbe tollerato e anche avallato la presenza di movimenti islamici in Cisgiordania e soprattutto a Gaza per contrastare l'attivismo laico palestinese vicino all'OLP. Nel 1982 l'occupazione del Libano avrebbe indebolito l'OLP; il contemporaneo rafforzarsi della destra religiosa nello stato sionista avrebbe lasciando agibilità politica a un movimento islamico di resistenza i cui fondatori e i cui quadri, originari delle fasce più emarginate della popolazione, si sarebbero formati nelle università del mondo arabo senza e se del caso contro le direttive dell'OLP e al tempo stesso lontano dalle fondazioni legate alle moschee. La Caridi ricorda come anche in quel contesto i movimenti di ispirazione islamica sarebbero stati in grossa misura avvantaggiati dalla repressione che colpiva quelli di sinistra. Dopo il 1980 le formazioni studentesche islamiche sarebbero diventate attori importanti nelle università palestinesi, nel frattempo finanziate dai paesi del Golfo; l'Università Islamica di Gaza sarebbe diventata il principale centro di sviluppo e irradiazione per il movimento di resistenza, al pari dell'ambiente della "piccola Palestina" degli esuli in Kuwait. L'A. ricorda come i Fratelli Musulmani avrebbero cominciato a essere più presenti nelle manifestazioni contro lo stato sionista già a partire dal 1983; Ahmed Yassin sarebbe stato arrestato per detenzione di armi l'anno successivo. Una volta tornato in libertà avrebbe organizzato il proprio movimento ripartendolo in due strutture, il Majd con compiti di controspionaggio, e i Mujahidun al Filastiniyum per la guerriglia. Yassin avrebbe puntato all'uso di tutti gli strumenti di resistenza dallo sciopero alla lotta armata; lo scoppio della prima intifada, movimento spontaneo indipendente dalle strutture dell'esilio come l'OLP, sarebbe coinciso con la nascita ufficiale di Hamas. L'A. sottolinea le caratteristiche dei sette fondatori: profughi per la quasi totalità, per la più parte professionisti, tutti con istruzione superiore. Nell'agenda di Hamas il diritto al ritorno avrebbe per questo sempre avuto un'importanza sostanziale e non sarebbe passato in secondo piano rispetto alla questione di Gerusalemme e a quella delle colonie sioniste in Cisgiordania. Secondo la Caridi la nascita di Hamas avvenne per un coup generazionale e sociale all'interno dei Fratelli Musulmani, che avrebbe messo da parte la vecchia dirigenza proveniente dalla classe mercantile. Il 14 dicembre 1987 Hamas avrebbe emesso il primo comunicato, definendo l'intifada appena esplosa come "un rigetto fragoroso dell’occupazione e delle sue pressioni, della confisca della terra e della creazione delle colonie, e della politica di soggiogamento da parte dei sionisti"; per tutta la sua storia Hamas avrebbe considerato indissolubile il rapporto fra nascita del movimento e rivolta popolare e avrebbe conservato forti legami con la popolazione e con la società civile. Fin dai primi anni Hamas avrebbe cercato di basare il proprio potere nella popolarità e nell'attento ascolto delle esigenze della popolazione, laddove Fatah poteva contare su risorse finanziarie e sul controllo delle istituzioni. In Istantanee dal mondo di Hamas la Caridi descrive la vita quotidiana a Gaza. Il funerale a Deir el Balah di giovani combattenti delle Kata'eb al Qassam -braccio armato del Movimento di Resistenza- serve per una digressione sulle attività sociali di Hamas e sulle principali organizzazioni che in un modo o nell'altro fanno capo al Movimento di Resistenza. Al Salah, ente di beneficenza nato nel 1979, autorizzato ad operare dallo stato sionista durante l'occupazione e indirizzato in prevalenza ai giovani rimasti orfani e ai più poveri in generale viene descritto nella sua base, per lo più volontaria e fortemente motivata dalla religione, nelle strutture (scuole, dispensari, ospedali) nel ruolo del personale retribuito e nella difficilissima sopravvivenza al ricorrente congelamento dei fondi. Lo stesso con la Jamia’a al Khairiyya al Islamiyya di Hebron, nata nel 1962 con l'avallo giordano e responsabile di orfanotrofi e scuole, oltre che soggetto alle periodiche e poco costruttive attenzioni delle autorità sioniste. Comune alle charities islamiche sarebbe l'atteggiamento non discriminatorio nei confronti di tutta l'utenza anche solo potenziale, e la funzione sussidiaria rispetto alle macroscopiche e frequenti manchevolezze degli attori statuali. Un fenomeno che caratterizzerebbe molti dei paesi arabi in cui le politiche di liberalizzazione hanno causato pesanti problemi sociali rimasti senza soluzione per decenni, ma che a Gaza e in Cisgiordania si inserirebbe in un'economia basata per intero sull'assistenzialismo e su quella che viene chiamata "industria internazionale degli aiuti". La moschea, sottolinea la Caridi, manterrebbe comunque un ruolo fondamentale come "luogo che funge da contenitore di altre dimensioni, dai circoli di lettura del Corano alle attività -come si direbbe in linguaggio cattolico- da oratorio", oltre che come centro di irradiazione ideologica frequentato da aimma spesso ignorati dalle cronache sino a quando la loro uccisione non fa luce sul ruolo da essi rivestito nelle comunità. L'A. riporta come esempio di quanto i militanti di Hamas siano incardinati nella società il caso di Majid Bargouthi, "imam di campagna" vicino a Ramallah reduce da cinque anni nelle carceri sioniste, arrestato dal Mukhabarat palestinese nel 2008 e morto durante un interrogatorio. il Movimento di Resistenza Islamico contraddirebbe inoltre lo stereotipo dell'islamista che rifugge dai mass media, dall'arte e dalla dimensione tecnologica dei messaggi artistici; Al Aqsa radio e tv sono nate nel 2005 ANP nonostante, e sono diventate dal giugno 2007 la voce del governo de facto di Gaza. Hamas intenderebbe provare al mondo l'esistenza di "un popolo sotto occupazione che resiste e lotta per ottenere i propri diritti" contrastando la visione di "un popolo terrorista ed egoista" generosamente diffusa dalle emittenti sioniste e occidentali. Già nel 1992 Hamas avrebbe dimostrato una buona competenza nella comunicazione efficace, organizzando la copertura mediatica delle vicende dei "quattrocentoquindici di Marj al Zuhur" -esponenti propri e del Jihad Islamico arrestati dallo stato sionista a Gaza e in Cisgiordania e deportati nel sud del Libano- in modo che la vicenda si trasformasse in un boomerang per la propaganda sionista.
La Caridi tratta della presenza femminile in Hamas, un dato di fatto dimostrato dalle manifestazioni di piazza e dalle rappresentative elette, in un contesto di per sé conservatore e tradizionalista come attesterebbe il ricorso a un abbigliamento modesto da parte di donne di ogni orientamento politico. L'interpretazione al femminile dei testi sacri avrebbe dato alle donne di Hamas una legittimità che altrimenti non avrebbero avuto e le avrebbe spinte a chiedere una vera parità politica.
Il terzo capitolo del saggio tratta de gli anni del consolidamento della realtà di Hamas. Il Movimento avrebbe intrapreso iniziative in proprio nel contesto dell'intifada nel febbraio del 1988, entrando presto in competizione con le forze laiche e con un OLP che intendeva presentarsi come unico interlocutore palestinese con la comunità internazionale. Il 18 agosto avrebbe pubblicato il Mithaq curato da Abdel Fattah al Dukhan, un leader della vecchia generazione dei Fratelli Musulmani a Gaza; questa carta costitutiva sarebbe comparsa proprio mentre che per Arafat si apriva la via che avrebbe portato a Oslo. E Hamas non si sarebbe dimostrato intenzionato a percorrerla. Nel lungo documento, scrive l'A., coesistono programmi politici, propaganda, messaggi pedagogici, citazioni poetiche e coraniche, stereotipi retrivi e lunghe spiegazioni didascaliche. La distruzione dello stato sionista è trattata nel preambolo, attraverso una citazione da Hassan al Banna risalente al 1948. Nell'articolo 11 la Palestina viene definita un waqf islamico, una terra non disponibile all'arbitrio degli uomini perché "terra islamica affidata alle generazioni di musulmani sino al giorno del giudizio" e dunque irrinunciabile nella sua interezza. L'eliminazione del sionismo in Palestina, sottolinea la Caridi, era presente nella carta nazionale palestinese del 1968; Hamas avrebbe mantenuto questo intento anche dopo la vittoria delle elezioni e il governo monocolore del 2006 perché la sua eliminazione dai documenti ufficiali avrebbe comportato il riconoscimento dello stato sionista senza averne in cambio un riconoscimento altrettanto formale. La dirigenza del Movimento avrebbe fatto tesoro dell'esperienza di Fatah e ribadito spesso come lo statuto fondativo sia stato di fatto accantonato nel corso degli anni e superato da documenti strategici più importanti. La Caridi sottolinea come il Mithaq, legato allo "hic et nunc" dell'intifada, sia stato spesso l'unico a essere citato e tradotto e abbia costituito il vero ostacolo a qualsiasi apertura diplomatica verso il Movimento. Questo dato di fatto sarebbe spesso riconosciuto dagli stessi alti livelli di Hamas da decenni. Gli stessi documenti fondativi rivoluzionari incensati in Occidente -rileva la dirigenza di Hamas- non andrebbero esenti da rilievi importanti: negli ambienti diplomatici nessuno nota che la dichiarazione di indipendenza degli USA non contempla il "diritto all'uguaglianza per settecentomila schiavi africani", il che significherebbe che la pretesa del ripudio del Mithaq da parte del Movimento altro non sarebbe che l'ennesima applicazione di un doppio standard nei suoi confronti. Dal 2006 Hamas avrebbe basato la propria politica sul programma della lista elettorale Riforma e cambiamento che lo rappresentava alle elezioni di quell'anno.
Al 1988 risalirebbero anche i primi abboccamenti con lo stato sionista Mithaq nonostante; Hamas non avrebbe mai cessato di mettere lo status di Gerusalemme al primo posto in ogni trattativa tenutasi in pochi mesi cui sarebbero seguiti venti anni di scontri senza esclusione di colpi. Lo stato sionista aveva guardato con benevolenza ai Fratelli Musulmani a Gaza e in Cisgiordania per il loro lavoro sociale e educativo; la nascita del Movimento di Resistenza Islamico avrebbe bruscamente cambiato la situazione; lo stato sionista avrebbe preso presto atto della profonda differenza che divideva lo establishment tradizionale dei Fratelli Musulmani dal loro braccio operativo. Una prima ondata di migliaia di arresti cui non sarebbero sfuggiti né il fondatore Ahmed Yassin né il leader di fatto Ismail Abu Shanab avrebbe costretto Hamas a ricostruire la propria rete ricorrendo ai propri quadri all'estero e procedendo in modo tale che per i venti anni successivi il Movimento sarebbe sopravvissuto a retate, campagne repressive, omicidi mirati e perdita anche repentina di fonti di finanziamento come nel caso della cacciata dei palestinesi dal Kuwait dopo la Guerra del Golfo del 1991. Il rapporto stretto con la popolazione avrebbe garantito il rinnovo dei militanti, la presenza di quadri fuori dalla Palestina il permanere di una dirigenza. A questo proposito Hamas avrebbe sempre evitato di inimicarsi il mondo arabo evitando di prendere posizione sugli affari politici interni ai singoli paesi. La capacità strategica dimostrata da Hamas nei momenti più difficili della sua storia avrebbe tratto vantaggio dall'impatto mediatico di vicende come quella di Marj al Zuhur, i cui protagonisti si sarebbero insediati in un accampamento nella zona cuscinetto in cui erano stati lasciati dall'esercito sionista costruendo una "società islamista" in miniatura anziché raggiungere il Libano per trasformarsi anch'essi in profughi come nel 1948. Nel 2005 l'abbandono di Gaza deciso da Sharon sarebbe stato ritratto come una vittoria sul campo. Hamas avrebbe boicottato politicamente l'ANP impegnata negli accordi di Oslo senza mai troncare del tutto i rapporti nemmeno nei molti casi in cui l'ANP avrebbe represso le manifestazioni e le iniziative del Movimento di Resistenza. Hamas non avrebbe mai abbandonato invece la gestione della vita quotidiana dei palestinesi, esercitando una influenza sempre più forte in campi come quello dei programmi scolastici. Nei rapporti con l'ANP, sottolinea la Caridi, Hamas avrebbe prodotto fin dall'inizio degli anni Novanta una serie di documenti e di iniziative molto distanti dalla retorica del Mithaq, segnatamente nella decisione di partecipare ad eventuali consultazioni legislative. A complicare i rapporti con l'ANP anche il ricorso di Hamas agli attentatori suicidi dopo il massacro di Nablus, che non avrebbe comunque impedito la partecipazione al comitato centrale dell'OLP del partito Al Khalas, primo esperimento di Hamas in questo campo. La Caridi cita testimoni che smentiscono l'esistenza di qualsiasi fatwa contraria alla partecipazione ai processi elettorali e che ribadiscono l'essenza politica di ogni decisione a riguardo, giunta peraltro dopo lunghe discussioni interne e dopo iniziative individuali eclatanti come la presentazione di candidature indipendenti -poi ritirate- da parte di Ismail Haniyeh e di altri esponenti di Hamas. Dopo l'uccisione di Rabin e un'ondata di attentati suicidi con cui Hamas avrebbe vendicato la morte di Yahya Ayyash l'esecutivo sionista sarebbe stato dominato dalla destra di Netanyahu, caratterizzata da una linea politica apertamente colonialista cui Hamas avrebbe reagito con altri attentati, ma anche offrendo tramite Hussein di Giordania una tregua trentennale nel 1997. Netanyahu avrebbe subito contattato Hussein... per cercare di far liberare gli operativi del Mossad che negli stessi giorni ad Amman avevano cercato di avvelenare Khaled Meshaal. L'A. scrive che lo stato sionista avrebbe pagato caro questo serissimo incidente diplomatico con uno dei pochi paesi arabi amici, e che parte del prezzo sarebbe stata la liberazione di Ahmed Yassin e di altri prigionieri palestinesi. Yassin sarebbe stato poi ucciso dallo stato sionista nel 2004.
Nel quarto capitolo la Caridi esamina la biografia e l'operato di varie figure del Movimento di Resistenza Islamico, dallo sceicco-brigante agli uomini-bomba. Il primo riferimento è a Izz al Din al Qassam, imam siriano vicino alla popolazione più povera di Haifa ucciso in combattimento dai britannici nel 1935 e presto diventato una figura di riferimento per il nazionalismo palestinese. Hamas avrebbe apprezzato in particolare il suo rifiuto dei compromessi e la propensione per l'azione diretta senza (o anche contro) il benestare dei notabili. Lo stesso spirito che dopo la strage di Hebron -in cui erano stati colpiti civili a centinaia all'interno di un luogo sacro e nel corso di una funzione religiosa- avrebbe spinto Hamas a ricorrere agli attentati suicidi. Secondo la Caridi, che cita vari esponenti del Movimento, la strage di Hebron avrebbe rappresentato un punto di non ritorno e un momento di svolta nella scelta della strategia armata. Iniziati per rappresaglia, gli attentati suicidi avrebbero poi costituito parte di una "strategia della tensione" tesa a danneggiare l'assetto nato a Oslo e sempre più giustificata asserendo che la società sionista sarebbe una società militarizzata in cui tutti fanno il servizio militare e rimangono nella riserva fino a quarant'anni. L'A. riporta che al pari di quanto si verifica in situazioni analoghe in altri contesti non molto sarebbe dato di conoscere sui rapporti fra Hamas e le Brigate Izz al Din al Qassam che ne costituiscono il braccio armato; permarrebbe ua condizione di autonomia reciproca di azione, con l'accordo indiscusso per cui l'ala politica non sconfessa l'ala militare. Con la fine degli attentati suicidi nel 2005 le Brigate si sarebbero irreggimentate in una dimensione militare da guerriglia fino alla creazione di un corpo di sicurezza a servizio dell'esecutivo di Gaza.
La Caridi scrive dell'ingresso di Hamas nella seconda intifada, avvenuto dopo mesi di discussioni interne e con gli altri movimenti palestinesi secondo una condotta da linea dura che non avrebbe comunque mai minato l'intenzione di proporre allo stato sionista tregue temporanee e accordi su Gaza e Cisgiordania. Secondo gli esponenti di Hamas una tregua temporanea -una hudna- per quanto lunga non richiederebbe l'accettazione dell'occupazione sionista e l'usurpazione dei diritti dei palestinesi. Una hudna sarebbe stata offerta nel 2002 allo stato sionista; pace in cambio di terra, in una trattativa condotta dall'agente britannico Alastair Crooke. Ogni intesa sarebbe saltata a causa dell'uccisione di Salah Shehadeh -uno dei fondatori delle Brigate Izz al Din al Qassam- in un bombardamento sionista che avrebbe causato anche quattordici "vittime collaterali" e oltre cento feriti altrettanto collaterali. L'iniziativa sionista sarebbe stata considerata frutto della deliberata intenzione di sabotare ogni tentativo di accordo; Hamas ne avrebbe guadagnato in popolarità e avrebbe reagito con altri attentati suicidi ai più o meno riusciti tentativi dello stato sionista di uccidere i suoi esponenti, in questo imitato anche dall'iniziativa di individui isolati. Nel 2003 l'Unione Europea avrebbe inserito Hamas come tale in una propria lista delle organizzazioni terroristiche, bloccando ogni iniziativa diplomatica internazionale a cominciare da quelle di Crooke. La Caridi descrive la diplomazia interna alle fazioni palestinesi e al "convitato di pietra" sionista sempre presente per interposta persona, col quale nessuna intesa sembra possibile.
Il quinto capitolo intitolato la svolta di marzo si apre con la descrizione della morte di Ahmed Yassin -ucciso con altre sette "vittime collaterali" dall'esercito sionista per ordine di Ariel Sharon il 22 marzo 2004- e delle sue conseguenze a cominciare dalla morte del successore Abdel Aziz al Rantisi, ucciso dall'esercito sionista appena un mese dopo. L'A. riporta la convinzione diffusa in Hamas che Sharon avesse voluto privare il movimento di tutte le sue figure più carismatiche in previsione della morte di Arafat, ordinando la loro uccisione a Gaza, in Cisgiordania e anche a Damasco. Hamas avrebbe reagito facendo strage di civili nello stato sionista; contrariamente alle aspettative, decapitare il Movimento non gli avrebbe fatto perdere né consensi né capacità di iniziativa. La morte di Arafat avrebbe accelerato i tempi per la partecipazione di Hamas all'ANP e alle sue iniziative, un tema su cui il dibattito sarebbe stato in corso da anni. Dopo la nascita dell'ANP Fatah aveva fornito nel 1994 la maggior parte degli amministratori locali; nel 2004, in una Cisgiordania cantonalizzata e punteggiata dai check point sionisti, Hamas avrebbe partecipato alle consultazioni amministrative dimostrando di essere un attore politico di primo piano e rinforzando il proprio potere contrattuale attaccando coloni e militari sionisti nelle settimane precedenti. La Caridi tratta delle elezioni presidenziali del 9 gennaio 2005 tenutesi alla presenza di centinaia di osservatori internazionali e vinte da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) senza che Hamas partecipasse o desse indicazioni di voto: una astensione morbida prodromo di una partecipazione alle istituzioni. Abu Mazen si sarebbe presto accorto che Hamas, di cui pure aveva sostenuto l'accesso nelle istituzioni dell'ANP, era diventata un soggetto politico difficilmente governabile; Hamas avrebbe preso l'iniziativa di una tregua unilaterale con lo stato sionista e chiesto una riforma dell'OLP in modo da esservi adeguatamente rappresentato. Il 27 gennaio 2005 Hamas avrebbe vinto le amministrative a Gaza e avrebbe interpretato il risultato come un invito a procedere sulla strada della condivisione del potere con Fatah. Dal Cairo il 17 marzo dodici organizzazioni politiche palestinesi Hamas compreso avrebbero aderito a una tregua unilaterale di un anno, necessaria tra l'altro a mettere a punto una legge elettorale, indire elezioni legislative e ad agevolare senza contrasti non necessari il ritiro sionista da Gaza. La maggioranza delle colombe avrebbe ottenuto in Hamas i massimi consensi fra il 2004 e il 2007; il Movimento avrebbe così partecipato alla vita politica rappresentativa senza che questo significasse integrare vecchi reduci o smantellare il proprio braccio armato; sulla base della buona conoscenza dell'atteggiamento della popolazione secondo informazioni che arrivano da Gaza, Cisgiordania, carceri ed estero, Hamas avrebbe anche deciso di interrompere la serie degli attentati suicidi. Le stesse quattro componenti sarebbero state consultate prima di decidere se aderire al processo elettorale. Caridi sottolinea come il processo decisionale di Hamas non si sia mai basato su clientele o su accordi di potere ma sulla risposta a domande politiche precise. Seguendo queste linee di condotta Hamas avrebbe sottoposto ad ampio dibattito interno le modalità di partecipazione, decidendo di presentare più candidati possibile scelti fra i migliori, per compensare brogli dati per sicuri. Unico punto fermo, i candidati di Hamas non avrebbero dovuto aderire ad alcun impegno che riguardasse gli accordi di Oslo; su tutto il resto, dettagli della legge elettorale compresa, Hamas avrebbe lasciato campo libero alle altre organizzazioni senza obiettare neppure a quelle "quote rose" che avrebbero sorprendentemente contribuito alla sua vittoria. Le iniziative palestinesi avrebbero indicato come Oslo fosse ormai lettera morta, specie nel punto che avrebbe imposto l'inammissibilità delle formazioni armate al processo politico; lo stato sionista avrebbe dovuto constatare l'inutilità della campagna di omicidi mirati e Abu Mazen si sarebbe presentato sulla scena internazionale in vesti di mediatore costruttivo. Nello stesso periodo Ariel Sharon avrebbe preso atto degli alti costi delle poche colonie sioniste a Gaza, considerando meglio abbandonarle ed erigere un "cordone sanitario" attorno ai confini della Striscia. Il gesto avrebbe rafforzato ulteriormente Hamas, che non aveva mai avuto i cedimenti di Fatah in materia di resistenza armata e che avrebbe gestito il disimpegno sionista come una vittoria politica. Il cordone sanitario non avrebbe impedito un lancio di razzi cui lo stato sionista avrebbe reagito con le armi della operazione Prima Pioggia e con una campagna di arresti contro l'ala politica di Hamas in Cisgiordania. Alle elezioni legislative, fissate dopo vari rinvii per il gennaio 2006, Fatah sarebbe arrivato diviso, indebolito e screditato. Hamas avrebbe presentato la lista Riforma e Cambiamento con un programma molto diverso dal Mithaq del 1988 e caratterizzato da un orientamento pragmatico maturato con i mesi di esperienza amministrativa in cui si erano verificati anche contatti con le amministrazioni sioniste in caso di problemi di comune interesse. Dettagliata precisione nella definizione della linea politica, con la legge sacra come fonte principale (ma non assoluta) della legislazione e il fronte militare relegato sullo sfondo. Il tutto, con un vocabolario molto vicino a quello delle democrazie "occidentali": alternanza, separazione dei poteri, uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Hamas si sarebbe avvalso di una struttura organizzativa messa alla prova durante decenni di clandestinità, e avrebbe proposto candidati affidabili e rappresentativi scelti a livello locale; l'elettorato ne avrebbe riconosciute l'onestà e la credibilità.
I risultati delle elezioni del 2006 e le loro conseguenze sono trattati nel sesto capitolo, il doppiopetto di Abul Abed. La Caridi riassume l'andamento delle consultazioni per i sessantasei seggi assegnati col proporzionale e per gli altri sessantasei assegnati col maggioritario, cui avrebbe preso parte il 77% degli elettori sotto il controllo di centinaia di osservatori internazionali. La "strategia della cooptazione" di Abu Mazen, approvata e sostenuta dall'ONU e dai paesi "occidentali", avrebbe avuto una prima traduzione operazionale. La Caridi nota che nessuno fra gli ottocentoquarantadue osservatori, per una buona metà dalla UE e dagli USA, che avrebbero lodato la trasparenza e la correttezza delle procedure aveva comunicato ai palestinesi che il loro esercizio di democrazia diretta sarebbe stato soggetto al gradimento dei risultati. I quali risultati avrebbero lasciato sgomenti gli autonominati custodi della democrazia e stupiti gli attivisti di Hamas, cui sarebbero andati il 56% dei voti e settantaquattro seggi. Attori politici e commentatori in buona fede avrebbero attribuito il successo di Hamas al voto di protesta. Attori politici e commentatori che avrebbero gestito il boicottaggio di Hamas e la graduale chiusura al governo emerso dalle elezioni avrebbero addirittura riconsiderato la "esportazione di democrazia" verso il mondo arabo, dati i risultati che si sarebbero pretesi invece in linea con gli interessi "occidentali". Una considerazione più seria delle motivazioni che avevano guidato il voto palestinese avrebbe sottolineato l'importanza delle decisioni prese da Hamas negli ultimi anni, come quella della tregua unilaterale, e il suo porsi come argine alla corruzione, al clientelismo e all'inefficienza di Fatah, partito spesso confuso con l'ANP nella sua interezza. Fino al 2006 la partecipazione alla cosa pubblica in Palestina avrebbe seguito un doppio binario: dentro l'ANP, ovvero dentro un sistema di potere, oppure dentro la galassia delle organizzazioni della società civile.
La Caridi nota le difficoltà di ogni genere che gli eletti a Gaza avrebbero avuto per raggiungere la Cisgiordania e in particolare il parlamento alla Muqata di Ramallah, presagio dei problemi che avrebbe avuto un'assemblea divisa anche geograficamente oltre che ideologicamente. Lo stato sionista avrebbe posto ogni sorta di ostacolo al nuovo governo ancor prima del suo insediamento, cominciando con la mancata rimessa dei prelievi fiscali per conto dell'ANP cui sarebbe stato tenuto dagli accordi di Oslo e con il congelamento delle rimesse dei lavoratori di Gaza. Tanto lo stato sionista quanto gli USA avrebbero concordato sull'opportunità di rovesciare Hamas a prescindere dai risultati di quelle elezioni che gli stessi USA avevano fermamente voluto; di qui la decisione di strangolare economicamente l'ANP in modo da costringere Mahmoud Abbas a indire nuove elezioni. L'A. specifica che nel contesto dell'economia palestinese i cinquanta milioni di dollari rimessi ogni mese dallo stato sionista avrebbero costituito all'epoca un terzo delle entrate dell'ANP e il sostentamento diretto o indiretto di un quinto della popolazione. Abu Mazen avrebbe accondisceso alle richieste del "quartetto" (USA, UE, ONU e Russia) sottraendo rapidamente ad un futuro esecutivo Hamas poteri e prerogative a cominciare dal controllo sulle formazioni armate dell'ANP. Secondo l'inviato dell'ONU Alvaro de Soto la comunità internazionale e gli USA in particolare avrebbero operato in piena consapevolezza affinché Fatah e Hamas non potessero accordarsi per un esecutivo di coalizione. Ismail Haniyeh detto Abul Abed avrebbe ricevuto un mandato esplorativo che non avrebbe quindi portato ai risultati sperati, inducendo Hamas a varare un governo monocolore con ventiquattro ministri, per lo più laureati o addottorati in Occidente. Una compagine di professori in doppiopetto che avrebbe in ogni caso rifiutato di ottemperare alle condizioni postegli per evitare lo strangolamento: rinuncia alla violenza, riconoscimento formale dello stato sionista, rispetto di accordi e obblighi già in essere inclusa la road map del 2002. Caridi scrive che l'esecutivo Hamas si sarebbe insediato il 29 marzo 2006, quando l'isolamento -specie quello di Gaza- era realtà già da settimane. Caridi ricorda come lo stato sionista negli anni successivi avrebbe aperto o chiuso le frontiere di Gaza secondo criteri e variabili di volta in volta diversi. Hamas avrebbe pagato l'inadeguatezza della propria organizzazione al nuovo ruolo di partito di governo, soprattutto per la lentezza dei processi decisionali. La mancanza di aiuti e di denaro si sarebbe rivelata alla lunga un problema insormontabile, solo in parte tamponato dalla Repubblica Islamica dell'Iran e dalla Repubblica Araba di Siria. Hamas avrebbe trovato sostegno politico in Turchia e in Russia, ma nessuna risposta in Occidente e nello stato sionista. Il persistere di posizioni intransigenti anche negli ambienti più propriamente politici del Movimento in vista di un definitivo confronto con Fatah non avrebbe facilitato più di tanto l'adozione di una linea moderata che peraltro gli ambienti diplomatici "occidentali" non avrebbero avuto intenzione di riconoscere.
Le elezioni del 2006 aprirono un periodo di contrasti, lo Hamas versus Fatah trattato nel settimo capitolo, in cui la parola sarebbe passata alle armi. Sia Fatah che Hamas avrebbero serrato i ranghi e rinforzato -rispettivamente- la Guardia Presidenziale aggiungendovi un corpo armato per la sorveglianza delle frontiere, e la Forza di Sostegno includendovi gruppi armati formatisi durante la seconda intifada. A metà del 2006 un "documento per la riconciliazione nazionale" prodotto dai detenuti palestinesi nello stato sionista sarebbe intervenuto a cercare di calmare la situazione: Palestina nei confini del 1967 (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est), diritto al ritorno per i rifugiati, Hamas e Jihad Islamica nell'OLP, fine degli scontri tra fazioni, instaurazione di un clima di rispetto e fiducia fra presidenza dell’ANP (Abbas) e ufficio del Primo Ministro (Haniyeh). I prigionieri (primo tra tutti Marwan Barghouthi di Fatah) sarebbero così entrati al centro della scena politica in virtù del prestigio che gli era riconosciuto da tutti. Abu Mazen avrebbe reagito cerando di imporre in tempi brevissimi l'adozione di un programma di unità nazionale o, in alternativa, di un referendum di approvazione o meno del programma proposto dai prigionieri. Hamas avrebbe accettato di sottoscrivere il documento dopo due mesi di dure discussioni interne e in ogni caso senza prevedere cedimenti in materia di insediamenti rispetto ai confini del 1967 o di diritto al ritorno (con risarcimenti) per i profughi. A far saltare l'intesa con Fatah sarebbe stato il rapimento del militare sionista Gilad Shalit, come ritorsione per incursioni e omicidi mirati commessi dai militari sionisti nel giugno del 2006; la Caridi ritiene impossibile dire se e quanto l'ala militare di Hamas avesse avuto in questo l'approvazione di quella politica. Lo stato sionista avrebbe reagito distruggendo la centrale elettrica di Gaza e con una retata di ministri, parlamentari e dirigenti di Hamas; nel mezzo della rappresaglia si sarebbe aperta la guerra con Hezbollah. A settembre gli USA avrebbero iniziato a fare pressioni su Abu Mazen affinché sciogliesse il monocolore di Hamas senza che Abu Mazen si impegnasse in alcun modo, mentre Hamas avrebbe cercato di evitare di fornire alla presidenza il pretesto per dimissionare l'esecutivo. A novembre la mediazione di Mustafa Barghouthi in favore di un governo di unità nazionale, rivolta soprattutto all'ala pragmatica di Hamas, non avrebbe portato a nulla. Haniyeh avrebbe nello stesso periodo compiuto il proprio hajj; tornando in una Gaza in preda alle tensioni sarebbe stato accolto da un sanguinoso scontro a fuoco al valico di Rafah; all'accusa di aver cercato deliberatamente di farlo uccidere dalla Guardia Presidenziale, Abbas avrebbe reagito minacciando nuove elezioni. Forte di una influenza religiosa e finanziaria molto ragguardevole, l'Arabia Saudita sarebbe entrata nelle trattative per limitare l'influenza della Repubblica Islamica dell'Iran. L'imperio -più che la persuasione- saudita avrebbe costretto Hamas e Fatah a sottoscrivere un'intesa a La Mecca, in un clima di forte sospetto reciproco. Nel nuovo esecutivo Haniyeh Hamas avrebbe avuto otto ministri, Fatah sei, cinque sarebbero stati indipendenti e quattro ripartiti fra le altre formazioni. La Caridi nota che nel frattempo il flusso di denaro e la presenza crescente di funzionari statunitensi tra Gerico e Ramallah avrebbero reso evidente la predilezione "occidentale" per Abu Mazen e per le formazioni militari di Fatah. Secondo Mustafa Barghouthi, scrive la Caridi, le ali estreme di Fatah e Hamas avrebbero intrapreso un sistematico sabotaggio militare dell'esecutivo, destinato a cadere in meno di tre mesi anche per le fortissime pressioni sioniste e statunitensi. La Caridi descrive a questo punto condizioni ed eventi che avrebbero portato Hamas a prendere il controllo totale della Striscia di Gaza nel giugno del 2007. Hamas sarebbe venuto a conoscenza dei piani delle Forze di Sicurezza legate a Mohammed Dahlan (Fatah) per prendere il controllo delle istituzioni locali; l'assalto di Fatah agli edifici dell'Università Islamica di Gaza nel febbraio dello stesso anno sarebbe stato l'esordio di una serie di operazioni militari intraprese a questo scopo. Hamas avrebbe risposto nell'immediato facendo intendere che non avrebbe avuto problemi a impadronirsi della Striscia. Col sostegno statunitense, l'addestramento egiziano e l'aeronautica sionista a provvedere agli omicidi mirati (con relative "vittime collaterali") Fatah avrebbe rafforzato di propria iniziativa la presenza militare nella Striscia durante tutto il mese di maggio. L'addetto militare statunitense, fedele a una visione puramente militare della situazione palestinese, avrebbe operato per mettere Fatah in condizioni di avere il sopravvento adottando una condotta tale da indurre Alvaro de Soto a dimettersi sdegnato. Secondo gli interpellati dall'A. a giugno 2007 invece gli scontri avrebbero provocato una "reazione a catena, veloce e senza ritorno" da parte delle Brigate Izz al Din al Qassam e della Forza Esecutiva, senza che esistessero da parte di Hamas dei piani prestabiliti.
La cacciata di Fatah da Gaza, scrive la Caridi, avrebbe lasciato Hamas con due fronti aperti, quello con lo stato sionista e quello con l'ANP. Abu Mazen avrebbe destituito Haniyeh e insediato a Ramallah un nuovo esecutivo di emergenza, sancendo la rottura politica e geografica con Gaza. L'ANP avrebbe boicottato l'amministrazione di Gaza lasciandola senza personale e senza fondi; Hamas avrebbe risposto reclutando nuovo personale (neolaureati e giovani) a prezzi più bassi, raccogliendo imposte comunali, tasse di circolazione e una informale gabella sul contrabbando dall'Egitto. Gaza avrebbe continuato a funzionare pur senza merci fondamentali e con la scarsa energia fornita dallo stato sionista. La Forza Esecutiva avrebbe assunto compiti di polizia lasciando le Brigate Izz al Din al Qassam ai loro compiti militari. Hamas avrebbe gestito la vita quotidiana senza incidere più di tanto sull'instaurazione di un modello di potere preciso. Fatah avrebbe rinfacciato a Hamas di aver instaurato un clima intollerante all'insegna dell'arbitrio violento; Hamas avrebbe accusato Fatah di aver fatto altrettanto -se non peggio- collaborando con l'esercito dello stato sionista. Dall'estate del 2008 Hamas avrebbe avuto il riconoscimento de facto dello stato sionista.
Il passaggio di Hamas dalla Resistenza al governo è trattato nel capitolo 8. La Caridi scrive che nonostante la tahdiyah, sospensione dei combattimenti contrattata con la mediazione egiziana, dopo la metà del 2008 Gaza sarebbe rimasta isolata da ogni lato e sarebbe sopravvissuta essenzialmente grazie alle merci entrate da centinaia di tunnel comunicanti con un Egitto intenzionato a non farsi coinvolgere in una crisi umanitaria da un milione e mezzo di persone. Lo stato sionista avrebbe rotto la tregua il 4 novembre 2008, Hamas avrebbe risposto con centinaia di razzi contro il territorio sionista. Il 27 dicembre lo stato sionista avrebbe iniziato la Piombo fuso, una breve campagna di attacchi devastanti dettagliatamente descritta dalla Caridi in cui lo stato sionista avrebbe commesso molte violazioni alla quarta convenzione di Ginevra, severamente sottolineate dal giurista dell'ONU Richard Goldstone. Impreparato a sostenere attacchi massicci, Hamas avrebbe adottato una "strategia militare conservativa" mandando pochi uomini sul terreno. Con il cessate il fuoco del 19 gennaio 2009 Hamas avrebbe fornito aiuto diretto alla popolazione e agevolato l'insostituibile e vitale operato delle organizzazioni non governative e dell'ONU, opponendosi però all'idea che l'ANP di Ramallah fosse incaricata di gestire aiuti e denaro, sospettando dell'atteggiamento tenuto da Ramalla durante le ostilità. Dopo la guerra la diffusione di documenti statunitensi per mano di WikiLeaks avrebbe confermato i sospetti di Hamas circa la consapevolezza di Ramallah e persino del Cairo sulle intenzioni dello stato sionista. L'A. descrive le difficoltà burocratiche, politiche e amministrative incontrate dalla comunità internazionale e dalle sue organizzazioni nel rapportarsi con l'entità politica Hamas, con cui nessuno ha rapporti ufficiali dal 2007. Con la Piombo Fuso lo stato sionista non solo non avrebbe sconfitto Hamas, ma lo avrebbe rafforzato mettendo al tempo stesso in piena luce il comportamento per lo meno ambiguo delle cancellerie "occidentali". Scatenata prima dell'insediamento di Barack Obama alla presidenza statunitense, l'offensiva sionista, efficace nel terrorizzare la popolazione di Gaza, non la avrebbe affatto distolta da Hamas; avrebbe attirato sullo stato sionista il biasimo della comunità internazionale e avrebbe pesato coi suoi strascichi deludenti anche sull'esecutivo di Tel Aviv, dal febbraio 2009 controllato da Netanyahu e da una destra monopolizzata dalla lobby dei coloni e dai settori ultraortodossi. Negli anni successivi il sostegno a Hamas si sarebbe se mai indebolito per il suo ricorso a un sistema clientelare percepito come simile a quello di Fatah, anche se diretto -più che a privilegiare i singoli- a rafforzare il Movimento di Resistenza a scapito delle altre organizzazioni. A cercare di rompere l'isolamento di Gaza, scrive la Caridi, sarebbero state più singole personalità che le diplomazie propriamente dette, interessate se mai a stabilire contatti con la leadership di Hamas all'estero per aggirare il bando generalizzato che aveva colpito anni prima tutta l'organizzazione. La presidenza di Obama non avrebbe proceduto ai mutamenti sostanziali che Hamas auspicava, anche perché Hamas non si sarebbe fatto dettare alcuna agenda in materia di politica estera e non avrebbe abbandonato la politica di non ingerenza negli affari di paesi terzi. La Caridi evidenzia il mutamento del clima politico comunque verificatosi: "non ci può essere pace senza Hamas" sarebbe stato l'assunto informale sottinteso all'atteggiamento statunitense. A complicare la situazione sarebbe intervenuta la vicenda della Freedom Flotilla, organizzata per rompere il blocco di Gaza da una Turchia intenta a rafforzare il proprio ruolo di attore regionale, e in cui Hamas vede un alleato diplomatico in grado di aprire un canale con l'"Occidente". La Turchia non sarebbe riuscita a insidiare il ruolo privilegiato dell'Egitto, i cui servizi di sicurezza avrebbero fatto da mediatori per una tregua con lo stato sionista, uno scambio di prigionieri e la riconciliazione con Fatah. La Caridi espone l'andamento dei negoziati, in cui l'"Occidente" avrebbe puntato sull'economista Fayyad del partito La Terza Via per costruire uno stato palestinese limitato alla sola Area A della Cisgiordania e nel corso dei quali sia Fatah che Hamas avrebbero "rafforzato le proprie posizioni allargando la frattura fra Gaza e Cisgiordania e abbandonando in sostanza Gerusalemme Est al suo destino". Nella sola Cisgiordania si sarebbe tenuto nell'estate del 2009 il sesto congresso di Fatah, da cui Abu Mazen sarebbe uscito rafforzato come successore di Arafat e come capo del partito. Caridi nota come i negoziati per una conciliazione con Hamas si sarebbero interrotti a causa del rapporto Goldstone sulle efferatezze commesse dall'esercito sionista durante la Piombo Fuso, accolto da Fatah con temporeggiamenti (su pressione statunitense) che avrebbero levato l'indignazione del Movimento di Resistenza. L'A. descrive anche il ritorno dello stato sionista alla pratica degli omicidi mirati e in particolare la disastrosa eliminazione di Mahmoud al Mabhouh, perpetrata dal Mossad a Dubai fornendo falsi documenti di paesi amici alle decine di infiltrati necessari. Solo la fine delle intromissioni statunitensi avrebbe consentito la ripresa del confronto tra Hamas e Fatah nel 2010; la chiusura di Gaza tuttavia avrebbe portato a una graduale radicalizzazione della popolazione, concretizzatasi in azioni violente delle Brigate al Qassam contro i coloni sionisti in Cisgiordania. La mediazione statunitense avrebbe in ogni caso portato a nuovi incontri a Damasco, dove Hamas si sarebbe mostrato propenso ad accettare la creazione di uno stato palestinese nei confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale e con la garanzia del diritto al ritorno per i rifugiati, secondo una concezione più volte presentata dal Movimento dal 2006 in poi. Nel corso degli anni i militanti di Hamas a Gaza avrebbero usato ogni strumento possibile per rafforzare il movimento, rivelandosi capaci di amministrare un territorio nonostante la "mancanza di tutto, letteralmente tutto" dalle risorse finanziarie a quelle produttive. La contropartita sottolineata dalla Caridi sarebbe stata costituita dalla progressiva islamizzazione della Striscia di Gaza, già nota per i costumi conservatori. L'occupazione e l'assedio sionista, a detta degli stessi attivisti di Hamas, avrebbero portato la società di Gaza su posizioni ancor più conservatrici di quelle del Movimento; internet inoltre avrebbe diffuso fra gli attivisti contenuti estremamente radicali senza possibilità di serie mediazioni. In questo clima la politica avrebbe perso attrattiva, superata dall'opzione militare tra giovani che non hanno alcuna fiducia nella comunità internazionale e che hanno constatato di persona che fine faccia la democrazia quando non porta ai risultati auspicati da chi ne controlla il funzionamento (magari per conto terzi) e il fallimento della via istituzionale perseguita dalla generazione precedente. La Caridi tratta quindi della diffusione del salafismo a Gaza e alla repressione armata di esso da parte di Hamas, accennando anche al fatto che l'isolamento totale di Gaza e il conseguente fallimento politico di Hamas non avrebbero certo contribuito a evitare la nascita e l'ingigantirsi di un problema visto con preoccupazione dai vertici del Movimento. Dopo il giorno della rabbia del 15 marzo 2011 i giovani attivisti di Gaza avrebbero invocato la fine delle divisioni politiche e proposto -per non dire imposto- una visione della Palestina comprensiva della popolazione araba nello stato sionista e non limitata ai confini del 1967 da anni accettati da Hamas. Nel pieno della "primavera araba" che avrebbe portato all'estromissione dei presidenti egiziano e tunisino, Hamas avrebbe reagito ascoltando le reazioni della piazza -una costante della sua pratica politica- e aprendo a compromessi e alla riconciliazione con Fatah, per arginare la disaffezione che avrebbe potuto portare a una nuova intifada contro lo stato sionista e a una rivolta contro le élite palestinesi. La Caridi rileva l'importanza dell'impegno del nuovo esecutivo egiziano nel raggiungimento dell'accordo del 27 aprile 2011, che avrebbe previsto nuove elezioni per il presidente, i parlamentari e il consiglio nazionale palestinese. Nei fatti la situazione sarebbe rimasta cristallizzata, con le principali formazioni politiche palestinesi a perseguire strategie proprie: Fatah al lavoro per una rappresentanza all'ONU, Hamas a cercare di far liberare più prigionieri possibili (il totale supererà i mille) in cambio di Shalit.
Il nono capitolo intitolato al potere, e al confino si apre con la descrizione dell'offensiva sionista del novembre 2012 iniziata con l'assassinio di Ahmed al Jabari, comandante delle Brigate al Qassam e ideatore del rapimento di Shalit che per cinque anni aveva tenuto testa ai servizi e all'esercito sionista pur essendo al tempo stesso la principale personalità in grado di far rispettare le tregue. Lo stato sionista avrebbe ripreso in questo modo una politica tesa a decapitare il Movimento di Resistenza su indicazione di Netanyahu, deciso a far dimenticare all'opinione pubblica l'alto prezzo pagato per Shalit soprattutto in vista delle elezioni previste per gennaio 2013. All'interno di Hamas il grosso successo dell'operazione Shalit avrebbe invece contribuito a modificare gli equilibri di potere tra ala politica e ala militare. Il mutato quadro mediorientale, sottolinea l'A., avrebbe preoccupato lo stato sionista anche per l'allentamento dell'assedio a Gaza con l'apertura a Hamas di Qatar e Emirati Arabi e il trasferimento proprio in Qatar della leadership del Movimento precedentemente ospitata a Damasco. La settimana di attacchi, nota Caridi, non avrebbe portato i risultati attesi: a fine novembre dieci ministri degli Esteri dei paesi arabi più importanti, in visita a Gaza, avrebbero ribadito che Hamas non sarebbe più stato isolato e ignorato. A fine novembre centotrenta stati dell'ONU avrebbero votato perché la Palestina diventasse stato osservatore. L'A. sottolinea anche e soprattutto la brevità di questo stato di cose: l'onda islamista che avrebbe dovuto prendere il potere in tutta la regione sarebbe defluita sotto colpi di stato e controrivoluzioni e soprattutto l'arrivo al potere di al Sissi in Egitto avrebbe determinato la sostanziale cancellazione dei Fratelli Musulmani come organizzazione in grado di agire, e fatto ripiombare Gaza e Hamas nell'isolamento e nella crisi finanziaria. Solo dieci anni dopo la situazione sarebbe parzialmente migliorata col distendersi dei rapporti tra sciiti e sunniti in tutta l'area: nell'immediato Hamas avrebbe dovuto lottare contro la totale ostilità dei paesi dell'area e contro l'ostracismo generalizzato verso i movimenti islamici. Avrebbe potuto solo continuare con i tentativi di riconciliazione con Fatah, che nel 2014 avrebbero portato ai criticatissimi accordi di Shati. Accordi che l'A. specifica destinati a restare privi di sviluppi a causa di una campagna di episodi violenti dovuti per lo più ad attori isolati, che nell'estate successiva colpisce Gerusalemme e la Cisgiordania prima che lo stato sionista decida di intervenire pesantemente con la Scudo protettivo del luglio 2014. Le estese distruzioni risultati avrebbero prostrato la popolazione costretta a vivere in "una situazione impossibile da sopportare dal punto di vista umano e umanitario" in cui disoccupazione, malnutrizione e povertà l'avrebbero fatta da padrone nonostante i miliardi di dollari di aiuti promessi dalla comunità internazionale. Citando la Banca Mondiale, Caridi nota che nel 2018 solo la metà dei fondi promessi risultava erogata e che a rispettare meno la parola data sarebbero stati soprattutto i donatori regionali. Nel 2017, dopo anni di elaborazione, Hamas avrebbe sostituito il Mithaq del 1988 con un nuovo, breve e pragmatico Documento di principi e politiche generali da cui sarebbe stato omesso con cura ogni rapporto coi Fratelli Musulmani e in cui la terminologia avrebbe rispecchiato la dimensione nazionale, terrritoriale e fisica dell'azione del Movimento di Resistenza. Caridi presenta i tratti essenziali del documento del 2017 notando che esso denuncia la natura colonialista del sionismo e considera illegittima anche la semplice istituzione di uno stato sionista; al tempo stesso tuttavia vi si considererebbe "la creazione di uno stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale secondo le linee del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati alle case da cui sono stati espulsi, come una composizione di consenso nazionale". Netanyahu avrebbe reagito all'iniziativa di Hamas inscenando la cestinatura del documento. Le condizioni di isolamento non vengono meno, continua l'A., e questo avrebbe continuato a rafforzare l'ala militare della Resistenza ma anche costretto Hamas a cercare una composizione con il Blocco democratico riformista fondato in esilio da Dahlan tramite contatti all'estero, allo scopo puro e semplice di alleviare le sofferenze della popolazione e, in prospettiva, di attentare al potere di un Mahmoud Abbas affatto disposto a transigere. Costretto a negoziare dall'ulteriore taglio di risorse operato da Fatah, Hamas avrebbe accettato ulteriori trattative con la mediazione egiziana; alla fine del 2017 l'unico risultato sarebbe stato un accordo per le elezioni del 22 maggio 2021, poi mai tenutesi. In questo contesto gli USA sotto la presidenza Trump avrebbero agito in modo da accelerare l'annessione de facto dei territori palestinesi da parte dello stato sionista: il trasferimento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme avrebbe costituito "una rottura simbolica e reale con il passato" e "la conferma che un punto di non ritorno è stato superato". Nel 2018, in contemporanea con il trasferimento dell'ambasciata, Hamas avrebbe patrocinato una enorme e pacifica manifestazione di massa ai confini con lo stato sionista cui l'esercito sionista avrebbe reagito sparando e facendo decine di vittime. Senza risultati.
Fino al 2023 Hamas a Gaza sarebbe stato "il governo, l’autorità, le norme da seguire, il potere militare e il fornitore di servizi sociali e amministrativi" in un territorio assediato e isolato, oltre che politicamente tutt'altro che allineato e da cui sarebbero cominciate a piovere le critiche per la repressione e per un atteggiamento conservatore e vessatorio dal punto di vista dei costumi culturali e sociali. La Caridi sottolinea le critiche rivolte alla dirigenza di Hamas -per lo più residente in Qatar e in Turchia e accusata di aver tagliato i legami con la gente comune e con le sue sofferenze- e la nascita in Cisgiordania di formazioni armate scollegate dalle vecchie formazioni politiche.
Caridi chiude il saggio con un epilogo intitolato dalla resistenza al regime, che presenta un excursus riassuntivo sulla storia di Hamas, passato dalla "formazione del buon palestinese musulmano" alla lotta armata fino alla partecipazione a una democrazia rappresentativa in via di consolidamento. L'attacco contro lo stato sionista sferrato il 7 ottobre 2023 dalle Brigate Izz al Din al Qassam vi viene definito "una frattura nella storia di Hamas" e "un tragico e irreversibile contrappunto sul pentagramma del Medio Oriente" che avrebbe rotto alcune delle certezze su cui lo stato sionista credeva di poter contare, prima fra tutte la capacità di prevenire pericoli imprevisti ipso facto percepiti come esistenziali. Le estesissime distruzioni a Gaza e le decine di migliaia di vittime avrebbero costituito la più evidente traduzione operativa dell'intento di cancellare l'ala militare e l'apparato politico di Hamas espresso dallo stato sionista. La Caridi sottolinea come lo stato sionista abbia consentito la crescita di Hamas in chiave antinazionalista (trovandosi poi fra le mani un movimento che del nazionalismo ha preso la bandiera) e come le cancellerie occidentali abbiano fattivamente contribuito a far precipitare la situazione in Palestina disconoscendo risultati elettorali e realtà sul terreno e facendo propria una concezione per cui Hamas altro non sarebbe che una formazione terroristica. L'A. nota anche la ben altra serietà la storiografia -anche sionista- avrebbe ritratto il Movimento di Resistenza nella sua molteplicità e nella sua prontezza ad adeguarsi e a reagire a una realtà mutevole. La Caridi nota che il passaggio dalla resistenza alla politica, tentato in almeno due occasioni, sarebbe rimasto incompleto anche per la crescente militarizzazione delle iniziative e delle direttive e l'importanza assunta dalle Brigate Izz al Din al Qassam come quinta constituency del Movimento accanto alle carceri, ai palestinesi all'estero e a quelli di Gaza e di Cisgiordania. A indebolire le prerogative delle personalità pragmatiche sarebbero stati anche "il muro contro muro, l’isolamento, l’embargo, l’emarginazione, la presenza di precondizioni per avviare qualsiasi contatto con la comunità internazionale" che avrebbe chiuso entrambi gli occhi sulle possibilità di mitigare le posizioni intransigenti e di mettere in minoranza i settori più radicali e armati. L'A. nota anche i limiti della pratica politica del Movimento, i cui detrattori affermerebbero da anni che anziché "servire il popolo" avrebbe iniziato da tempo a "servire se stesso", e l'ipocrisia della insistita "soluzione dei due stati" impraticabile da decenni per i fatti sul terreno imposti dai coloni e dal governo sionista. Uno stato di cose che con l'amministrazione Trump avrebbe portato alla sostanziale esclusione dei palestinesi dagli alti livelli della diplomazia internazionale e in pratica all'uscita della questione dall'agenda diplomatica occidentale.
Fino al brusco risveglio.


Paola Caridi - Hamas. Dalla resistenza al regime (nuova edizione). Milano, Feltrinelli 2023. 400 pp.