Francesco Filippi - Prima gli italiani! (sì, ma quali?)
Da alcuni anni la propaganda politica insiste sull'assegnazione di un ruolo di precedenza -per l'assegnazione di diritti e l'erogazione di servizi, sembrerebbe- a quelli che nel suo caso sono gli aventi diritto di voto nelle consultazioni organizzate dallo stato che occupa la penisola italiana.
Il libretto di Francesco Filippi consente di fare chiarezza sulla categoria indicata nel titolo, e fin dalla prima pagina mette in chiaro che le definizioni identitarie sono solo tentativi molto approssimati di inquadrare una realtà vasta e complessa. Citando Benedict Anderson Filippi considera le definizioni identitarie come qualcosa che si rivolge a un aggregato di individui privi di rapporti tra loro, e che li fanno sentire accomunati dal senso di appartenenza a un gruppo definito che li distingue dagli altri. Queste "appartenenze identitarie" non sono irrilevanti perché solo per il caso in esame sono riuscite a convincere chi le ha fatte proprie a imbarcarsi in avventure demenziali e a fare scelte economiche opinabili, dalle guerre in cui si cambia fronte a metà conflitto alle compagnie aeree decotte tenute in aria per decenni con denaro pubblico. L'autore presenta un excursus che va da Dante a Netternich, da Cavour a Pascoli alla retorica fascista fino all'autocommiserante definizione di "brava gente" che fa da corollario ai ricordi dell’ultima guerra mondiale prima provocata e poi persa, fino ad arrivare al sovranismo c'a' pummarola 'n coppa di "padroni a casa propria" che non saprebbero indicare né le prerogative padronali né i muri della casa. Il contesto, in altre parole, è quello di un "non modello" in cui persino le feste che si vorrebbero "nazionali" -tra le quali non figura il giorno della "unificazione"- riescono a finire in rissa.
Nel primo capitolo Filippi inizia col notare che il sostantivo che identifica la penisola italiana è attestato da tre millenni e mezzo, tempo che per la massima parte è trascorso con la penisola divisa in entità territoriali, amministrazioni, culture, società ed economie distinte le une dalle altre e spessissimo in conflitto tra loro. Il nome stesso della penisola conosce periodi di disuso lunghi vari secoli: il territorio geografico che esso indica si amplia e si restringe, dai minimi storici degli inizi (una parte della Calabria) ai massimi dell'amministrazione romana con confini sul Danubio. In generale nessuno eccepisce alla mancata corrispondenza del nome con i confini peninsulari oggi considerati "storici". Solo la necessità di una nuova narrazione unificante renderà necessaria una piattaforma fisica -definita con criteri geografici che avranno almeno il merito della chiarezza- su cui poggiare rivendicazioni e valori della nuova compagine che va formandosi per conquista. La territorialità come base identitaria sarebbe una base poco solida, conclude l'A. passando a esaminare il fattore rappresentato dalla lingua. La lingua usata come elemento unificante è un prodotto accademico gravitante attorno alla Commedia dell'Alighieri: a partire dal XVI secolo il fiorentino dantesco risultava(1) già compreso da una comunità, si era (2) cristallizzato in opere a stampa ed era diventato (3) lingua di amministrazione in contesti in cui le lingue d'uso erano comunque rimasti i dialetti locali. Un'opera legittimata ex post con l'insegnamento scolastico. L'A. cita statistiche che indicano come a centosessant'anni dall'inizio dell'operazione la lingua insegnata nelle scuole fosse quella prevalente presso meno della metà degli abitanti, con il dieci per cento della popolazione che non lo aveva come lingua madre. In ogni caso, continua Filippi, dopo aver identificato un qualche criterio unificante per le terre conquistate le autorità della nuova compagine statale cercano di fare in modo che questa chiusura arbitraria prenda un po' di realismo, e lo fanno assimilando o escludendo dal racconto "nazionale" e poi dalla "nazione" stessa chiunque non si riesca a uniformare al presunto modello di riferimento. I criteri risentono della doppia spinta indicata dall'A. come determinante dopo il 1789: l'esigenza dei governanti di amalgamare la popolazione attorno a ideali comuni e quella dei governati di far parte di una comunità che dia loro identità e diritti. La "nazione" come viene intesa ancora oggi, che nel caso della penisola italiana si cerca con alterni e a volte nulli risultati di far coincidere con lo stato secondo il doppio criterio della lingua e dei confini geografici. Filippi nota che la continua tensione fra teoria e realtà viene risolta tollerando situazioni divergenti dal modello fintanto che restano tanto piccole geograficamente e numericamente da non minacciare lo schema generale, e ignorando quelle troppo grandi e dinamiche per essere arginate, come i milioni di persone che vivono nella penisola senza avere la cittadinanza prescritta. Il concetto di "nazione" e quello di "identità nazionale" in sintesi non sono eterni e immodificabili: hanno un'origine recente e sono stati faticosamente costruiti con continue e non sempre ben riuscite riscritture.
La lunga, dolorosa, inconcludente epopea nazionalista viene esposta nel secondo capitolo, a cominciare dal pessimo inizio con cui la casa regnante intese considerare le istituzioni come la continuazione e soprattutto la estensione territoriale di quelle preesistenti, ottenuta tramite campagne militari e plebisciti fulminei. La conquista incontra poca resistenza perché i sudditi cooptati consideravano luoghi "di casa" quelli della comunità autentica con cui interagivano, non con quella di una "nazione" immaginaria e moralmente obbligatoria, che diventa poco tollerabile solo quando entra in conflitto con la prima, con imposizioni come la leva obbligatoria. Imporre l'ideologia "nazionale" si rivela un lavoro lungo, che trova grossi ostacoli nella lunga tradizione amministrativa pregressa e nello scarso interesse della popolazione per i pretesi valori unificanti. Il modello imposto dai regnanti, che hanno avuto ragione di ogni contendente con la forza militare e con l'abilità e soprattutto la fortuna politica, non prevede la tutela o la sopravvivenza di esperienze amministrative di altro tipo; la penisola viene ridotta a province controllate dal potere centrale per mezzo dei prefetti: questo toglie alla popolazione peso nelle decisioni, tanto a livello "nazionale" quanto a livello locale. La propaganda presenta le scelte dei primi esecutivi come spesso dolorose, ma prese "nell'interesse della patria" e quindi contestabili solo dagli antipatriottici. La loro imposizione alle parti della penisola più lontane dal potere centrale richiede il massiccio ricorso alla forza. La resistenza violenta ai cambiamenti indica che la cosiddetta "unificazione nazionale" è servita solo ad élites che seguono un programma a misura delle proprie esigenze.
La legittimazione dell'espansionismo piemontese ha molti detrattori e anche veri e propri nemici, che si intende mettere a tacere mettendo le mani su una Roma che con la sua storia è il simbolo stesso del dominio a buon diritto. La distruzione del potere temporale dei pontefici nel 1870 vale nel racconto pubblico assai più di guerre di "indipendenza" come quella del 1866 in cui l'esercito e la flotta hanno dato prove disastrose. L'A. nota che la più o meno raggunta "unificazione" impone di trovare un nuovo scopo verso cui unire e incanalare le forze vive della penisola e che non è facile trovare un nuovo racconto pubblico buono per una "nazione" da venti milioni di abitanti che si pretende erede di imperi millenari. Ai confini ci sono un impero inaffrontabile e una potenza coloniale divenuta nemica: lo stato che occupa la penisola italiana si rivolge alla neonata Germania con cui stringe un'alleanza solida, e per motivi conseguenti la propaganda vira miracolosamente per trattare gli "irredenti" delle coste adriatiche come se non ci fossero. Al tempo stesso, in considerazione di come la "unificazione" è stata condotta, si opera in modo da conformare i sudditi all'immagine del paese -anziché fare il contrario- agendo in primo luogo sull'istruzione pubblica dove si fa ampio ricorso alla mitizzazione sia del remotissimo passato imperiale, sia delle figure (e dei figuri) protagoniste della "unificazione". Filippi illustra la costruzione e l'imposizione ai discenti e in generale all'attenzione collettiva della triade del "re padre", del "politico abile" e del "combattente senza paura" e del mondo culturale di contorno, e presenta una digressione sul vocabolo risorgimento, propagandato come missione secolare che pretende impegno e sacrificio da tutti e che si ammanta di ritualità e atmosfera religiosa nelle ricorrenze e nella monumentalità. Filippi sottolinea che molti intellettuali raccolsero la sfida di lavorare per un ideale della Francia rivoluzionaria, quello della realizzazione di una "comunità nazionale" intesa come consonanza tra popolo e stato all'interno di confini definiti. In chiusura dedica proprio qualche pagina ai temi ricorrenti in quello che ebbe maggiore e duraturo successo tra i prodotti editoriali ispirati a queste linee, prima di sintetizzare come il concetto di "nazione" sia cambiato in meno di un secolo: "se all’inizio dell’Ottocento l’ideale nazionale è un modo di vivere la propria libertà all’interno di determinati confini, alla fine del secolo la nazione diviene quell’elemento identitario per cui, alla bisogna, si deve morire".
La disamina dell'argomento continua nel terzo capitolo, dedicato alle narrazioni postrisorgimentali. Nello stato che occupa la penisola italiana gli anni fra il 1878 e il 1900 sono quelli delle scelte impopolari, delle difficoltà economiche, di smacchi diplomatici e di cocenti sconfitte nelle appena abbozzate guerre coloniali. Le velleità di grande potenza si scontrano con le carenze strutturali e con l'isolamento internazionale. Filippi descrive un realistico quadro in cui burocrazia inefficiente e sottosviluppo economico -con conseguente massiccia emigrazione- indeboliscono molto il racconto pubblico sul culto della nazione; il potere centrale fa del suo meglio per metterci del proprio rispondendo con la repressione a qualsiasi istanza dotata di un minimo di consistenza, e dipingendone i portatori come reazionari e passatisti anche se il loro orientamento ideologico è palesemente quello opposto. La nuova missione comune verso cui incanalare le energie del paese è la guerra coloniale del 1911, intrapresa con un profluvio di mezzi da grande potenza e vista con favore da padroni e opinione pubblica sia pure con l'eccezione di settori importanti e numerosi. Lo scoppio relativamente improvviso del primo conflitto mondiale, prosegue Filippi, trova lo stato che occupa la penisola italiana in grosse difficoltà perché lo schieramento delle sue alleanze non corrisponde affatto con quello meglio in grado di tutelare i suoi interessi. Il problema è allora quello di raccontare all'opinione pubblica e al mondo come mai occorre cambiare barricata dopo trent'anni; dall'estate del 1914 a un gruppetto di agitatori viene affidato il compito di riscoprire e propagandare la dolorosa condizione degli irredenti dell'Adriatico, indicando quale sia la collocazione geopolitica di nemici secolari da sconfiggere una volta per tutte in nome di "rivendicazioni nazionali" di cui importa sinceramente qualcosa soltanto alle élite economiche e militari cui la monarchia fa riferimento. La propaganda sacralizza la guerra e presenta come guerra giusta e di difesa un conflitto in cui è stato deliberatamente attaccato un paese alleato fino a pochi mesi prima. Filippi nota che le località indicate come principale obiettivo della conquista redentrice -una città di montagna e un porto sull'Adriatico- non sono affatto familiari all'opinione pubblica che a sentirle invocare insieme pensa sulle prime che siano contigue... e magari unite da un ponte. La propaganda ha altrettante se non maggiori difficoltà a giustificare il conflitto con la Germania, economicamente svantaggioso e intollerabile dal punto di vista ideale in considerazione degli eventi del 1866. Occorre più di un anno per trovare un casus belli plausibile e per giunta -vista la situazione diplomatica- necessario solo per il fronte interno. Che inizia lo stesso a dare segni di cedimento e di aperta insofferenza. A ricompattarlo provvede uno spaventoso disastro militare che si dimostra più efficace della repressione. La rotta sul fronte orientale dopo che il fronte ha ceduto di schianto trasforma davvero la guerra in una guerra di difesa. Filippi esamina uno dei più noti esempi di produzione propagandistica, notando come in esso si sorvoli su chi abbia iniziato le ostilità e si scarichi sui soldati semplici e sulla loro propensione al tradimento le responsabilità di una sconfitta frutto invece dell'incompetenza più volte dimostrata dagli alti comandi.
Nella prima guerra mondiale uomini provenienti da tutta la penisola vengono mischiati in battaglioni al comando di ufficiali istruiti e imbevuti di concetti cari al nazionalismo; la memorialistica -conclude Filippi- evidenzia però che a guidare i soldati è essenzialmente la volontà di sopravvivere. La vittoria del 1918 impone costi altissimi a combattenti edotti sulla vera realtà di uno stato impreparato e inefficiente. Gli apparati governativi tengono a presentarla anche come una vittoria sul nemico interno, detto spregiativamente "disfattismo", ma si rendono conto della necessità di ricostruire ancora una volta una narrativa credibile. I venti anni seguenti segnano un'accelerazione brutale dell'identificazione tra stato e nazione, cui concorre il ricorso al concetto di razza, e all'identificazione tra appartenente alla razza e sostenitore del governo autoritario. "Il fascismo occupa fisicamente gli spazi retorici del mito nazionale, appropriandosene e intestandosi la paternità esclusiva" dell'appartenenza "nazionale" intanto che il mito della violenza come trionfo della volontà passa dalla trincea al confronto politico di piazza. Il fascismo è nemico dichiarato dello stato liberale, le cui strutture vengono cancellate o neutralizzate insieme alla libertà e alla sovranità dei sudditi. L'autore nota come il culmine parossistico di questo fenomeno di appropriazione della macchina statale e dei simboli identitari sia dato dalle leggi segregazioniste degli anni dopo il 1930, prima rivolte contro la popolazione coloniale e infine contro gli ebrei. La propaganda autoritaria è pervasiva e occhiuta fino alla saturazione, cosa che provoca come effetto collaterale la frattura dell'immagine della popolazione dato il numero e la varietà di categorie non ascrivibili ai suoi dettami, dai disabili ai semplici non entusiasti. Riesce bene invece l'identificazione tra fascismo e "nazione", al punto tale che gran parte della retorica nazionalista e dei suoi temi risulteranno inutilizzabili dopo la fine del governo autoritario. L'autore sottolinea che il fallimento del nazionalismo fascista trascina con sé anche il patriottismo democratico: dopo la seconda guerra mondiale il confronto ideologico si sposta sullo scontro tra est e ovest e i simboli e le retoriche scampati alla marginalizzazione vengono per lo più relegati al campo del tifo sportivo. Costringendo ancora una volta a elaborare una nuova narrazione "nazionale".
Nel quarto capitolo si esamina l'urgente necessità di una nuova narrazione di sé che accomuna lo stato che occupa la penisola italiana a gran parte dei paesi europei dopo il 1945. La pazzesca condotta bellica e le esperienze disastrose che ne conseguono impongono una completa ridefinizione dell'identità "nazionale", cui non sfugge nemmeno la forma dello stato, e che si solidifica attorno ad affiliazioni ideologiche che riflettono la contrapposizione a livello mondiale. Le figure forti dei rispettivi schieramenti diventano protabandiera degli ideali della parte di riferimento e attirano a sé l'immaginario popolare. L'appartenenza di partito, specie per i maschi, entra nell'elenco delle caratteristiche correntemente enumerate per definirsi. Il consolidarsi di zone "rosse" o "bianche" nella penisola ricorda le antiche ripartizioni della penisola, un tratto che si accentua dopo il 1970 con l'entrata in vigore dell'assetto regionale; Filippi nota in sostanza che a sostituire una narrazione comune rimasta a corto di elementi presentabili interviene un proliferare di identità parziali. Il miracolo economico, con l'industrializzazione e il benessere diffuso che comporta, ha un impatto molto forte e fa ripartire la narrazione peninsulare basandola per la prima volta su un'immagine positiva a livello internazionale. Filippi nota il ruolo avuto in questo dalla cinematografia e dai mass media, con specifico riferimento alla pubblicità, considerando come la creazione di un mercato unico portata avanti dalla comunicazione commerciale interagisca con la costruzione dell'identità. I movimenti migratori interni legati all'industrializzazione, specifica l'autore, non creano un sentimento unitario. Tutt'altro, perché il processo crea trasformazioni sociali radicali disuguali e mette in luce enormi differenze tra abitanti di zone diverse della penisola; si amplificano attriti in qualche caso preesistenti. Fra le "antipatie da campanile" e l'odio vero e proprio le differenze sono date dalle dimensioni numeriche degli spostamenti: nei centri industriali convivenza forzata, differenze nelle abitudini di vita e concorrenza sul lavoro allargano una frattura psicologica che si trasforma in un pregiudizio razziale che si appoggia anche sulla convinzione che le differenze interne alla penisola non siano sanabili stanti le meno che mediocri prove fornite dagli organismi creati e sovvenzionati per questo. Le identità parziali ne vengono rafforzate: la penisola è abitata da persone "che stanno insieme ma non sanno bene il perché". Nei paesi "occidentali" più evoluti l'immagine della penisola italiana e dei suoi abitanti derivano dal cliché delle comunità residenti, che interagisce coi contenuti mediatici con esiti per nulla lusinghieri. Filippi indica come negli USA gli stereotipi sull'igiene, la moralità, l'intelligenza, la capacità lavorativa e la propensione alla delinquenza abituale e soprattutto organizzata si amplifichino e si potenzino grazie alla cinematografia. Tra i pochi stereotipi non interamente negativi quello legato alle attività di ristorazione e quello del seduttore; il secondo in particolare contribuisce per molti decenni in modo significativo all'immagine positiva della penisola. E dopo qualche tempo anche al suo indotto turistico. Dopo il 1960 la percezione della penisola cambia in modo sostanziale presso una parte dei suoi stessi abitanti, che avallati dai media la associano a una realtà industriale e moderna percepita, se non come raggiunta, almeno come desiderabile. Lontano dai centri industriali, riflette l'autore, si continua a riconoscersi nelle contrapposizioni politiche che travalicano nel personale e in cui le ideologie ammantano antichi rapporti di forza. In questo quadro si inserisce un massiccio influsso culturale statunitense: gli USA fanno della cultura, delle mode e dell'intrattenimento un vero e proprio prodotto da esportazione che a livello peninsulare viene adottato, imitato o anche assimilato in blocco. Nel lungo periodo, rileva Filippi, questa influenza crea "una sorta di cultura comune a tutto l'Occidente". Alle generazioni nate dopo il 1945 il mondo delimitato dai confini a lungo e sanguinosamente difesi appare ristretto e provinciale; l'esplosione dei movimenti sociali demolisce dopo il 1968 molte certezze e molti stereotipi, al punto che in varie occasioni la dirigenza dei partiti viene sconfessata dalla stessa opinione pubblica che credeva di poter guidare. L'immagine che emerge "è la proiezione di queste contraddizioni: antico e moderno, ricco e povero, spensierato e preda delle fazioni". "Città contro campagna, vecchi contro giovani, modernità contro tradizione, localismo contro internazionalismo sono racconti confliggenti e sovrapposti che rivaleggiano per dare un’immagine della società ma ne definiscono in realtà proprio l’estrema frammentazione". La fine del boom economico vede i mass media impegnati a veicolare contenuti filostatunitensi e consumistici mentre nelle strade e nelle piazze avvengono confronti durissimi. Filippi nota come l'impossibilità di rimarginare le fratture sociali interrompa l'elaborazione di una narrazione centrata su una società nuova, aperta e "raccontata dal basso" imponendo ancora una volta la ricerca di elementi utili a una narrazione positiva. Che nel 1982 vengono trovati nel pallone. Più ad esso che alla "nazione", nota Filippi, sarà da quel momento in poi accostato il drappo a bande verticali verde, bianca e rossa di uguali dimensioni. La nuova narrazione è quella di un "paese" che cerca nel gioco il proprio disimpegno e le proprie soddisfazioni, più emotivo e meno impegnato politicamente, anche se sotto questo punto di vista arrivano una crisi internazionale in cui l'esecutivo non china la testa davanti agli USA e la posizione di quinta potenza economica mondiale, raggiunta "anche grazie a un cambio dei metodi contabili nel calcolo del prodotto interno lordo". Nella realtà la penisola continua a essere spaccata in realtà distanti; il diverso modo e i diversi risultati nell'affrontare due terremoti catastrofici mette sotto gli occhi di tutti questo dato di fatto. Con gli anni Novanta resiste la narrazione legata al pallone, mentre entra in crisi l'antinomia comunisti-anticomunisti radicata da quasi cinquant'anni. L'A. descrive un contesto scricchiolante in cui, in pochi mesi, si verificano una grossa cessione di sovranità (verso la nascente Unione Europea), il collasso del sistema dei partiti e una violenta dimostrazione di forza da parte della criminalità organizzata: il modello "nazionale" ne viene smontato dall'interno, e questo comporta ancora una volta la ricerca di elementi presentabili per una nuova narrazione.
L'ennesima attestazione di acclarata impresentabilità del modello "nazionale" fa cedere il passo a narrazioni oppositive che nascono dai particolarismi locali mai sopiti e che danno voce all'insofferenza di chi ritiene irriformabile un modello nazionale cui ne viene sostituito un altro, con tecniche di nation building familiari agli studiosi di storia contemporanea. Nel corso degli anni Novanta Filippi nota anche l'ascesa di una storiografia e di una divulgazione che tendono a equiparare i due bastioni valoriali dell'antifascismo e della guerra partigiana con l'intento deliberato di sminuirne la portata morale. La campagna ha successo e permette alle formazioni di estrema destra di entrare da protagoniste nel panorama politico. La "guerra della memoria" che ne risulta riduce le possibilità di riprendere una narrazione unificante.
Negli anni Novanta i flussi migratori investono un paese che di emigranti ne aveva prodotti a milioni, ribaltando una condizione storicamente ultracentenaria. Lo stereotipo autoprodotto del popolo "povero ma dignitoso e generoso con il prossimo" da sempre caro anche alle gerarchie ecclesiastiche ne viene immediatamente incenerito: in capo a pochi anni -se non mesi- il popolo della penisola italiana si identifica non come povero, industre e generoso ma come ricco, geloso della propria ricchezza e apertamente xenofobo, anche grazie alla preziosa opera della "libera informazione". Questo epocale mutamento nella percezione di sé facilita la ridefinizione di caratteri costitutivi che si rafforzano a contrario col recupero dei criteri etnici per l'appartenenza. Lo stato che occupa la penisola italiana estende il diritto di cittadinanza a chi può vantare origini biologiche riconducibili alla penisola, anche se non ha una conoscenza nemmeno sommaria della lingua e della cultura, e continua a trattare il fenomeno migratorio come un'emergenza anche se esiste come tale da più di trent'anni. Filippi constata che dopo il 2001 si consolida una serie di criteri per cui è esente da pecche, rilievi e soprattutto sospetti chi nasce nella penisola italiana da cittadini di essa originari, si professa cristiano ed è bianco. Anni dopo ai criteri si aggiungerà anche l'aver contratto matrimonio, nonostante il modello familiare "tradizionale" riguardi solo un terzo di coloro che vivono nella penisola italiana. Con la devastante crisi economica successiva al 2008 la narrazione va a incardinarsi sulla difesa dall'invasione straniera e la conservazione della "sovranità popolare". Una weltaschauung del "noi contro di loro" che ha attecchito molto velocemente negli strati sociali più impoveriti perché ha alimentato l'idea che qualche gruppo estraneo al contesto "nazionale" stia drenando risorse a proprio vantaggio. "La distorsione del peso, del ruolo e dell’impatto dell’immigrazione sulla società non si basa su fatti concreti, ma sulla percezione di questi fatti e sul loro racconto: presentati come diversi per cultura, religione, abitudini e caratteristiche somatiche, gli 'stranieri', categoria modulabile a seconda delle esigenze, divengono il tema centrale del dibattito sociale e di conseguenza, spesso, il capro espiatorio per molti problemi del 'paese'". Una deriva rappresentativa che avalla i tentativi di tornare "padroni a casa propria" di cui si compendia un sovranismo che nell'offerta politica alle fasce più marginali della popolazione unisce retorica nazionalista, xenofobia e pretesa contrapposizione del popolo a quella che viene additata come élite. Filippi allarga il campo notando che narrative del genere ricorrono in tutti i paesi "occidentali" e che a farne le spese sono essenzialmente le diversità intese come deviazione da una maggioranza.
In queste condizioni, conclude l'autore, va notato che alla fine del secondo decennio del ventunesimo secolo nessuno porta avanti un raconto pubblico unificante dell'intera popolazione. Il pallone nel 2006 non entusiasma e non unifica come nel 1982, i centocinquant'anni dalla "unificazione" vengono celebrati con un giorno festivo per un solo anno e rapidamente dimenticati. La sovranità "nazionale" viene erosa dall'integrazione europea, per cui viene messa in dubbio la stessa utilità delle istituzioni, e i dividendi elettorali di un sapiente utilizzo della tematica migratoria instaurano un clima in cui la difesa dei meri simboli avviene indipendentemente da quello che rappresentano, o -meglio- per non doversi neppure interrogare sulla questione. In ogni occasione mediatica l'immagine "nazionale" resta troppo poco tempo sotto una buona luce perché possa suscitare senso di appartenenza.
Nelle pagine conclusive Filippi rileva che l'agenda mediatica ricorda ogni giorno a tutti che esistono minacce e sfide che superano ogni frontiera e ogni confine e che la narrativa "nazionale" non è in grado di affrontare. I fautori del sovranismo sostengono che basti una chiusura che eviti il contatto con i cambiamenti sorvolando sul fatto che le cause dei problemi, più che i loro effetti, sono ben presenti nelle società che si vorrebbero rinchiudere e che gli armamentari ideologici lasciati da pensatori settecenteschi o ottocenteschi consentono di fare più antiquariato che politica. Nella penisola italiana la costruzione di una identità comune è deficitaria da sempre perché nessuna delle narrazioni esaminate nel libro ha mai tenuto insieme la totalità della popolazione. Unica certezza è quella della irriducibilità a un modello unico e stabile di milioni di individui uniti solo dalla presenza in un territorio delimitato arbitrariamente. "La costruzione violenta di questo spazio, la creazione forzosa di una storia comune, l’invenzione e la diffusione coatta di una lingua, la sapiente scelta di una simbologia che riuscisse a emozionare tutti, la ricerca spasmodica di basi comuni su cui immaginare comuni destini; tutta questa enorme fatica, costellata di continue false partenze e marce indietro, sembra aver sortito un unico reale effetto: creare delle identità contrarie, nate dal semplice moto di resistenza all’assimilazione".


Francesco Filippi, Prima gli italiani! (sì, ma quali?), Bari, Laterza 2021. 176 pp.