Traduzione da Strategic Culture, 1 aprile 2024.

 Il sostegno del Partito Democratico statunitense allo stato sionista si sta rapidamente incrinando: Peter Beinart (redattore di Jewish Currents) ha usato l'espressione "fenditur ideologica". Dal 7 ottobre, questa "è diventata un terremoto" - una "Grande Faglia".
L'argomento è quello della fusione tra liberalismo e sionismo che da tempo connota il Partito Democratico:
La guerra dello stato sionista a Gaza ha amplificato una trasformazione nella sinistra statunitense. La solidarietà con i palestinesi sta diventando una componente essenziale della politica di sinistra, così come il sostegno al diritto all'aborto o l'opposizione ai combustibili fossili. E, come è accaduto durante la guerra del Vietnam e la lotta contro l'apartheid sudafricano, il fervore della sinistra sta rimodellando il mainstream liberale.
In parole povere con il contemporaneo spostarsi dello stato sionista verso l'estrema destra, si sono irrigidite le posizioni filopalestinesi negli Stati Uniti. Nel novembre 2023, il 49% degli elettori ebrei statunitensi si è detto contrario alla richiesta di Biden per l'invio di ulteriori aiuti militari allo stato sionista.
Uno dei vettori, una delle tendenze in atto nella politica statunitense, è questo.
Dalla parte opposta ci sono gli ebrei statunitensi più impegnati nel sionismo, quelli all'interno delle istituzioni, che notano come l'AmeriKKKa liberale stia diventando meno ospitale dal punto di vista ideologico. Stanno rispondendo a questo cambiamento facendo causa comune con la destra.
Netayanhu aveva già osservato una decina di anni fa che lo stato sionista e un Partito Democratico in crisi avevano preso strade divergenti, e aveva spostato il punto di riferimento del Likud e della destra sionista dai Democratici agli Evangelici statunitensi e quindi in generale in direzione del Partito Repubblicano. Come ha scritto nel 2022 un ex diplomatico di primo piano dello stato sionista come Alon Pinkas,
Netanyahu ha sempre avuto un orientamento transazionale. Così, più o meno nel corso degli ultimi dieci anni ha sviluppato una versione della "teoria della sostituzione" a proprio tornaconto: una maggioranza di cristiani evangelici sostituirà la grande maggioranza degli ebrei statunitensi. Dal momento che si tratta di una questione di numeri, sono gli evangelici l'alleato preferito.
Beinart scrive: "Nel Partito Democratico i sostenitori dello stato sionista non solo sono benvenuti, ma predominano anche. Solo che i leader di queste istituzioni non rappresentano più gran parte della loro base".
Il senatore Schumer, il più alto rappresentante ebreo nella vita pubblica, ha riconosciuto questo divario nel suo discorso all'inizio di questo mese, quando ha detto -nel passaggio più notevole del discorso- che "può capire l'idealismo che ispira tanti, giovani in particolare, a sostenere una soluzione con un solo Stato".
Una soluzione -per dirla senza mezzi termini- che non prevede l'esistenza di uno "Stato sionista". "Queste sono le parole di un politico che capisce che il suo partito sta subendo un profondo cambiamento". Il numero di giovani che stanno cambiando atteggiamento è più grande di quanto molti siano disposti a riconoscere, soprattutto tra i millennial e la generazione Z. Questi giovani si stanno unendo a un movimento di solidarietà con la Palestina che sta diventando sempre più ampio, ma anche più radicale. "Questo crescente radicalismo ha prodotto un paradosso: è un movimento che accoglie sempre più ebrei statunitensi ma che, di conseguenza, trova più difficile spiegare dove gli ebrei che vivono nello stato sionista possano trovare un posto nella sua visione della liberazione della Palestina", si preoccupa Beinart.
È per colmare questo vuoto che l'amministrazione Biden ha assunto una posizione scomoda al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite questa settimana: gli Stati Uniti si sono astenuti dalla risoluzione sul cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.
La risoluzione era stata ideata dalla Casa Bianca per "venire incontro ad entrambe le parti", facendo appello ai più anziani ebrei statunitensi che ancora si identificano come progressisti e sionisti e -guardando dalla parte opposta- rivolgendosi a coloro che vedono la sempre più stretta alleanza tra le principali istituzioni sioniste e il Partito Repubblicano come scomoda e persino imperdonabile, oltre a volere l'immediata fine dei massacri a Gaza.
La manovra della risoluzione, tuttavia, non è stata ben ponderata. E questa scarsa ponderazione sta diventando una sorta di pratica abituale, alla Casa Bianca. Il contenuto è stato mal rappresentato dagli Stati Uniti, che hanno dichiarato che la risoluzione era "non vincolante". Il New York Times ha sbagliato a descrivere la risoluzione, affermando che essa "chiede" un cessate il fuoco. Non è così.
Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono documenti giuridicamente vincolanti [come descritto qui]. Pertanto utilizzano un linguaggio molto specifico. Se il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite "invita" a fare qualcosa, non si hanno conseguenze concrete. La risoluzione su cui gli Stati Uniti si sono astenuti "non 'invita' stato sionista o Hamas a fare questo o quello; esige che facciano qualcosa".
L'amministrazione Biden ha cercato di tenere il piede in due scarpe e le ha mancate tutte e due, come era prevedibile. Come dice Beinart, "non è così semplice". Una risoluzione di facciata non servirà per venire a capo del cambiamento strutturale in atto: Gaza sta forzando la questione. Gli ebrei statunitensi che hanno dichiarato di essere sia progressisti che sionisti devono scegliere. E la loro scelta avrà enormi implicazioni elettorali negli stati chiave come il Michigan, dove l'attivismo della sinistra statunitense potrebbe rivelarsi determinante per l'esito delle elezioni presidenziali.
In pochi rimarranno soddisfatti, probabilmente, dalla manovra di Biden alle Nazioni Unite. I sionisti dello establishment sono irritati, la "sinistra" la considererà un pannicello caldo. L'errata definizione di "non vincolante", tuttavia, farà infuriare gli altri membri del Consiglio di Sicurezza, che ora punteranno a risoluzioni ancora più dure.
Cosa ancora più significativa, questa gàbola ha dimostrato a Netanyahu che Biden è debole. Lo scisma che si è aperto nel suo partito vi porta una certa instabilità: il baricentro politico del Partito Democratico può spostarsi da una all'altra delle correnti interne, o addirittura finire col rafforzare i repubblicani -che vedono il tacitare i palestinesi nell'ottica dell'interesse degli USA- facendolo allineare alla loro politica identitaria.
Netanyahu più di chiunque altro sa come si rimesta nel torbido.
Le mene alle Nazioni Unite hanno scatenato nello stato sionista quella che sembra proprio una bufera. Netanyahu ha reagito annullando la visita a Washington di una delegazione di alto livello per discutere i piani dello stato sionista per Rafah. Ha detto che la risoluzione "dà a Hamas la speranza che la pressione internazionale gli permetta di ottenere un cessate il fuoco senza liberare i nostri ostaggi". Il messaggio è: "La colpa è di Biden".
Poi stato sionista ha richiamato dal Qatar i negoziatori sulla questione degli ostaggi dopo che dieci giorni di colloqui non erano arrivati a nulla, dando il via a un gioco di responsabilità tra Stati Uniti e stato sionista. L'entourage di Netanyahu ha dato la colpa all'intransigenza di Hamas, avallata dalla risoluzione delle Nazioni Unite. Di nuovo lo stesso messaggio: "I colloqui sugli ostaggi sono falliti; la colpa è di Biden".
La Casa Bianca, secondo quanto riferito, vede questa bufera per lo più come una crisi in gran parte fabbricata e sfruttata dal premier sionista, impegnato in una guerra personale contro la Casa Bianca di Biden. Su questo, l'amministrazione Biden ha ragione, anche se la destra dello stato sionista è inferocita sul serio a causa di una risoluzione che viene vista come un'acquiescenza nei confronti dei 'progressisti'. "La colpa è di Biden", e tre.
È chiaro che le relazioni stanno andando a rotta di collo: L'amministrazione Biden sta cercando disperatamente di arrivare al rilascio degli ostaggi e ad un cessate il fuoco, cose da cui dipende per intero la sua strategia. E ne dipendono anche le prospettive di una rielezione di Biden. Biden sarà consapevole del fatto che decine di migliaia di palestinesi a Gaza probabilmente moriranno di fame a breve. E il mondo assisterà a questo sui social media, ogni giorno e ogni notte.
Biden è furioso. Dal punto di vista elettorale le cose non stanno andando bene per lui. Lo sa e sospetta che Netanyahu stia deliberatamente attaccando briga.
Per essere chiari, la questione essenziale è: chi è che sta interpretando correttamente la situazione politica in questo caso? Netanyahu ha molti detrattori sia in patria che nel Partito Democratico statunitense, ma durante i suoi diciassette anni al potere, il suo intuito per i cambiamenti all'interno della scena politica statunitense, il suo modo di fare nelle pubbliche relazioni e la sua consapevolezza del sentire degli elettori nello stato sionista non sono mai stati messi in dubbio.
Biden vuole che Netanyahu lasci. Questo è chiaro; ma a quale scopo? La Casa Bianca sembra avere grandi difficoltà a interiorizzare il fatto che se anche Netanyahu se ne va, la linea politica dello stato sionista rimarrebbe in gran parte inalterata. I sondaggi sono inequivocabili su questo punto.
L'irascibile e frustrato presidente alla Casa Bianca potrebbe trovare in un Gantz qualsiasi un interlocutore più malleabile e disponibile; e allora? A cosa servirebbe? La linea che lo stato sionista sta seguendo è determinata da un cambiamento di enorme portata nella sua opinione pubblica. E non esiste alcuna "soluzione" pratica evidente per Gaza.
E forse Biden ha ragione nel dire che il battibecco di Netanyahu con lui è artificioso. Come sostiene l'importante editorialista sionista Ben Caspit,
 
Negli anni '90, dopo che un giovane Netanyahu si era incontrato più volte con il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, lo stesso Clinton espresse sorpresa per l'arroganza di Netanyahu. I rapporti con Clinton finirono male. Netanyahu perse le elezioni del 1999 e incolpò della cosa l'ingerenza statunitense.
Quando Netanyahu è tornato al potere nel 2009 ha affrontato un altro presidente democratico, Barack Obama. Avendo imparato la lezione con Clinton, che era popolare tra il pubblico dello stato sionista, Netanyahu ha trasformato il presidente statunitense in una specie di punching ball ad uso interno.
Ogni volta che Netanyahu perdeva qualche colpo nei sondaggi, se la prendeva con Obama e risaliva", ha detto una fonte che ha lavorato con Netanyahu in quegli anni, a condizione di restare anonima. "È riuscito a convincere il pubblico che Obama odia lo stato sionista, e a posizionarsi come l'unico in grado di tenergli testa".
 
Il punto è che la sfida di Netanyahu a Biden potrebbe avere un altro scopo. In parole povere, le "soluzioni" dell'esecutivo di Biden per Gaza e la Palestina sono impraticabili, dato il sentire comune nello stato sionista di oggi. Forse lo sarebbero state venticinque anni fa, ma all'epoca la linea degli Stati Uniti era quella di "rendere sicuro stato sionista", e questo inficiava qualsiasi soluzione politica, compresa quella basata su due stati.
Netanyahu promette (ancora) ai cittadini dello stato sionista una "vittoria totale" su Hamas, pur sapendo che debellare quella organizzazione è impossibile. Netanyahu cerca quindi di usire dalla impasse dando a Biden la colpa di aver impedito allo stato sionista di vincere contro Hamas.
Detto senza mezzi termini, contro Hamas non ci sono soluzioni militari facili. Anzi, soluzioni militari non ce ne sono proprio. I racconti sui sionisti che avrebbero annientato diciannove battaglioni di Hamas a Gaza sono solo propaganda a uso della Casa Bianca. Che, a quanto pare, crede alle parole dello stato sionista.
Netanyahu probabilmente sa che la situazione a Gaza diventerà quella di una insurrezione incessante; ne darà la colpa a Biden, che già si ritrova a fare da punching ball per aver cercato di imporre uno Stato palestinese a un stato sionista che non vuole saperne.
Allo stesso modo, la Casa Bianca sembra aver frainteso come stavano le cose, rispetto all'accordo sugli ostaggi; deve aver pensato che Hamas non fosse serio nelle sue richieste. Non ci sono stati quindi negoziati seri; piuttosto gli Stati Uniti hanno fatto ricorso alle pressioni usandoo gli alleati per spingere con le minacce Hamas a scendere a compromessi attraverso il Qatar, l'Egitto e altri Stati arabi invece di prendere in considerazione le sue richieste.
Solo che le pressioni diplomatiche, come era prevedibile, non sono state sufficienti. Non hanno influito sull'atteggiamento di fondo di Hamas.
"Siamo drammaticamente a un punto morto. Non stiamo facendo per finta. Esiste una divergenza sostanziale. Possiamo fare lo scaricabarile, ma questo non riporterà indietro gli ostaggi. Se vogliamo un accordo, dobbiamo prendere atto della realtà", ha dichiarato un funzionario dello stato sionista dopo che Barnea e gli altri sono tornati da Doha a mani vuote.
Avendo una certa esperienza diretta di questi negoziati, immagino che Netanyahu sappia che non sopravviverebbe politicamente al vero prezzo che dovrebbe pagare -in termini di prigionieri liberati- per ottenere un accordo.
Quindi, in breve, lo scontro architettato contro Biden sulla questione del "non voto" alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza potrebbe essere visto più come un modo messo in atto da Netanyahu per fronteggiare quelli che ai suoi occhi sembrano dettami politici irrealistici e fondati su una realtà che non ha nulla a che vedere con la odierna frenesia sionista a favore di una Nakba apocalittica. Nel frattempo, Netanyahu radunerà le sue truppe. Verranno esercitate pressioni dirette sulle potentissime strutture politiche filosioniste che esistono negli USA, che di concerto con le pressioni autogenerate dai repubblicani e dai leader istituzionali democratici filosionisti potrebbero riuscire a mettere la sordina alla sempre più avvertibile voce dei progressisti.
Per lo meno, queste pressioni potrebbero rappresentare un contrappeso tale da costringere Biden a sostenere silenziosamente lo stato sionista continuando ad armarlo, e anche ad abbracciare pubblicamente l'allargamento del conflitto voluto da Netanyahu come unico modo per ripristinare la deterrenza dello stato sionista, dato che sa che le operazioni militari a Gaza non contribuiranno a ripristinarla, né a procurargli una vittoria. A dire il vero, Biden si è messo all'angolo da solo abbracciando una linea politica ormai obsoleta di fronte a un panorama sionista e mediorientale in rapida evoluzione e non più suscettibile di alternative ormai irrilevanti.
D'altra parte, Netanyahu sta giocando forte sul futuro dello stato sionista e su quello degli USA. E potrebbe perdere.