Traduzione da Strategic Culture, 12 febbraio 2024.
Gli Stati Uniti sono vicini alla guerra contro le Forze di Mobilitazione Popolare irachene, un organismo di sicurezza statale composto da gruppi armati alcuni dei quali sono vicini all'Iran, ma che per lo più sono nazionalisti iracheni. Gli Stati Uniti hanno effettuato un attacco con un drone a Baghdad mercoledì 7 febbraio; nell'attacco sono rimasti uccisi tre membri delle forze Kataeb Hezbollah, tra cui un ufficiale superiore. Uno degli uccisi, al-Saadi, è l'effettivo di più alto grado morto in Iraq dopo l'attacco con i droni del 2020 ch uccise il comandante iracheno al-Muhandis e Qassem Soleimani.
L'obiettivo lascia sconcertati, perché Kataeb Hezbollah ha sospeso più di una settimana fa le sue operazioni militari contro gli Stati Uniti, su richiesta del governo iracheno. Un provvedimento che era stato ampiamente reso pubblico. Allora perché è stata uccisa questa figura di alto rilievo?
Gli sconvolgimenti tettonici spesso sono innescate da un unico evento eclatante, come l'ultimo granello di sabbia che sommato agli altri innesca lo scivolamento dando il via a una frana. Gli iracheni sono inferociti. Sono convinti che gli Stati Uniti violino in modo sconsiderato la loro sovranità, mostrando sdegnato disprezzo verso un Iraq che un tempo era una civiltà grandiosa e che è stato ridotto in rovina dalle guerre ameriKKKane. Sono state promesse ritorsioni rapide e massicce.
Basta una piccolezza perché succeda qualcosa di grave. Il governo iracheno potrebbe non essere in grado di tenere a bada le sue forze armate.
Gli Stati Uniti cercano di separare e compartimentare le questioni: Il blocco del Mar Rosso da parte di AnsarAllah è una cosa; gli attacchi alle basi statunitensi in Iraq e in Siria sono un'altra, che non ha nulla a che fare con la prima. Ma tutti sanno che questi distinguo sono artificiosi: il filo rosso che tiene insieme tutto quanto è Gaza. La Casa Bianca e lo stato sionista invece insistono nell'indicare questo filo nell'Iran. La Casa Bianca ha riflettuto bene, o l'ultimo omicidio vi è stato considerato come un "sacrificio" celebrato per placare gli "dei della guerra" nella Beltway, che chiedono a gran voce di bombardare l'Iran? Qualunque sia il motivo, il mondo gira. Si sono rimesse in movimento altre dinamiche, che saranno alimentate dall'attacco.
The Cradle evidenzia un cambiamento significativo:
"Ostacolando con successo l'attraversamento dello stretto di Bab al-Mandab da parte delle navi sioniste, il governo di Sanaa guidato da Ansarallah è emerso come una potente incarnazione della Resistenza in difesa del popolo palestinese; una causa profondamente popolare tra i vari gruppi della popolazione yemenita. La posizione di Sanaa è in netto contrasto con quella del governo filosaudita ed emiratino di Aden che, con orrore degli yemeniti, ha ben accolto gli attacchi delle forze statunitensi e britanniche il 12 gennaio"."Gli attacchi aerei statunitensi e britannici hanno provocato alcune defezioni interne di peso... Alcune milizie yemenite precedentemente allineate con gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita sono passate ad Ansarallah... La disillusione nei confronti della coalizione avrà profonde implicazioni politiche e militari per lo Yemen, ridefinendo il quadro delle alleanze e facendo degli Emirati Arabi Uniti e dell'Arabia Saudita due avversari nazionali". La Palestina continua a essere come una cartina di tornasole per tutta l'Asia occidentale e adesso anche per lo Yemen, smascherando coloro che rivendicano solo a parole il manto della giustizia e la solidarietà araba".
Defezioni tra i gruppi armati nello Yemen. Quale importanza hanno?
Gli Houthi e AnsarAllah sono diventati degli eroi in tutto il mondo islamico, basta guardare i media sociali. Gli Houthi sono diventati un mito: difendono i palestinesi mentre gli altri non lo fanno. Si stanno formando un loro seguito. La posizione "eroica" di AnsarAllah potrebbe portare all'estromissione dei combattenti per procura schierati dall'Occidente e quindi consentirgli di dominare le regioni dello Yemen in questo momento fuori dal suo controllo. Inoltre AnsarAllah si sta impadronendo dell'immaginario del mondo islamico, e questo fa preoccupare lo establishment arabo.
All'indomani dell'assassinio di al-Saadi, gli iracheni sono scesi in piazza a Baghdad scandendo lo slogan "Dio è grande, l'AmeriKKKa è il Grande Satana".
Non si creda che questa svolta sia sfuggita ad altri - allo Hashd al-Sha'abi iracheno, per esempio, ai palestinesi della Giordania, ai soldati che costituiscono il grosso dell'esercito egiziano o alle popolazioni del Golfo. Al giorno d'oggi ci sono in giro cinque miliardi di smartphone. La classe dirigente guarda i canali arabi e consulta (nervosamente) i media sociali. Essa teme che la rabbia contro la violazione del diritto internazionale da parte dell'Occidente possa esplodere senza che ci sia modo di contenerla: quanto varrà mai l'"ordine basato sulle regole", adesso che la Corte Internazionale di Giustizia ha messo in discussione la preminenza morale della cultura occidentale?
Lascia sorpresi l'inappropriatezza della politica statunitense che ha anche l'ardire di rivendicare il principio centrale della "strategia Biden" per risolvere la crisi a Gaza. La normalizzazione dei rapporti fra Arabia Saudita e stato sionista è stata vista in Occidente come il principio fondante in nome del quale Netanyahu sarebbe stato costretto a rinunciare al suo mantra massimalista sul controllo della sicurezza dal fiume al mare, a pena di vedersi mettere da parte da qualche rivale politico per il quale l'"esca della normalizzazione" aveva il fascino di una probabile vittoria alle prossime elezioni.
Il portavoce di Biden è stato chiaro a questo proposito:
"[Noi] ... stiamo discutendo con lo stato sionista e l'Arabia Saudita... per cercare di andare avanti con un accordo di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra stato sionista e Arabia Saudita. Insomma, stiamo discutendo di questo. Da ambo le parti, che sono disponibili a continuare con il dialogo, abbiamo avuto delle reazioni senz'altro positive".
Il governo saudita -forse irritato perché gli Stati Uniti sono ricorsi a un linguaggio così ingannevole- ha debitamente disconfermato gli assunti di Biden rilasciando una dichiarazione scritta in cui conferma senza mezzi termini che "non ci saranno relazioni diplomatiche con lo stato sionista a meno che non venga riconosciuto uno Stato palestinese indipendente sui confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale, e che l'aggressione sionista nella Striscia di Gaza cessi con il ritiro di tutte le forze di occupazione sioniste". In altre parole, il Regno è un sostenitore dell'iniziativa di pace dei paesi arabi del 2002.
Naturalmente, nessuno nello stato sionista potrebbe fare campagna elettorale partendo da una piattaforma del genere!
Ricordiamo come Tom Friedman ha illustrato il modo in cui la "Dottrina Biden" avrebbe dovuto essere integrata in un insieme coerente; in primo luogo, assumendo una "posizione forte e risoluta nei confronti dell'Iran", gli Stati Uniti avrebbero segnalato ai "nostri alleati arabi e musulmani che devono affrontare l'Iran in modo più aggressivo... che non possiamo più permettere all'Iran di cercare di cacciarci dalla regione, di portare all'estinzione lo stato sionista e di intimidire i nostri alleati arabi agendo attraverso i suoi combattenti per procura come Hamas, Hezbollah, gli Houthi e le milizie sciite in Iraq intanto che Tehran se ne sta tranquillamente a guardare e non paga alcuno scotto".
Il secondo filone era quello degli intrallazzi sauditi, che avrebbero inevitabilmente spianato la strada al terzo elemento rappresentato dalla "costituzione di una Autorità palestinese legittima e credibile come... buon vicino dello stato sionista...". Questo "coraggioso impegno degli Stati Uniti per uno Stato palestinese conferirebbe [a noi esecutivo Biden] la legittimità per agire contro l'Iran", prevedeva Friedman.
Siamo chiari: queste tre politiche non si sono fuse in un'unica dottrina: si sono messe a cadere come tessere di un domino. E questa caduta ha un motivo solo: la fondamentale decisione di appoggiare il ricorso a una violenza schiacciante contro società civile di Gaza da parte dello stato sionista, a prima vista allo scopo di sconfiggere Hamas. È stato questo a mettere la regione e gran parte del mondo contro gli Stati Uniti e l'Europa. Perché è successo? Perché nelle politiche statunitensi non è cambiato nulla. Anche stavolta la stessa prassi occidentale vecchia di decenni: minacce finanziarie, bombardamenti e violenza. E l'insistenza sull'unica e obbligatoria narrazione dello "stare dalla parte dello stato sionista", senza neanche discutere.
Il resto del mondo si è stancato di questa situazione; si è stancato persino persino di sfidarla.
Quindi, per dirla senza mezzi termini, lo stato sionista si è trovato davanti all'autodistruttiva incoerenza del sionismo: come fare per mantenere diritti speciali a favore degli ebrei in un territorio in cui esiste un numero approssimativamente uguale di non ebrei? Le vecchie soluzioni non funzionano più.
La destra, nello stato sionista, sostiene che si deve andare fino in fondo: o la va o la spacca. I sionisti dovrebbero correre il rischio di una guerra di più ampia portata, da cui potrebbero uscire vincitore o no, e a quel punto dire agli arabi di trasferirsi altrove, oppure abbandonare il sionismo ed essere loro a trasferirsi.
L'amministrazione Biden invece di aiutare lo stato sionista a prendere atto della verità ha eluso il dovere di costringerlo ad affrontare le contraddizioni del sionismo e ha preferito il ripristino dello status quo ante. Circa settantacinque anni dopo la fondazione dello stato sionista, come ha notato l'ex negoziatore sionista Daniel Levy,
"Siamo tornati alla solite chiacchiere tra Stati Uniti e stato sionista su "se non sia il caso di cambiare confezione al bantustan e gabellarlo come 'stato'".
Poteva andare altrimenti? Probabilmente no. Questa reazione viene dal Biden più profondo.
La triplice risposta degli Stati Uniti, fallimentare, ha paradossalmente facilitato lo scivolamento dello stato sionista verso destra (come dimostrano tutti i sondaggi recenti). In assenza di un accordo sugli ostaggi, mancando un qualche intrallazzo credibile ad opera dei sauditi e senza un qualsiasi verosimile percorso verso uno Stato palestinese, essa ha proprio aperto la strada perché il governo Netanyahu esca dal collasso della deterrenza ricorrendo a una condotta intransigente che gli assicuri una netta vittoria sulla resistenza palestinese, su Hezbollah e persino -spera- sull'Iran.
Nessuno di questi obiettivi può essere raggiunto senza l'aiuto degli Stati Uniti. Ma Biden dove ha fissato il limite, al sostegno allo stato sionista in una guerra contro Hezbollah? E se il conflitto dovesse ampliarsi, sosterrebbe lo stato sionista anche in una guerra contro l'Iran? Dov'è questo limite?
L'incongruenza, che arriva in un momento in cui i piani occidentali in Ucraina stanno crollando, suggerisce che Biden potrebbe pensare di aver bisogno di una "grande vittoria", proprio come Netanyahu.