Traduzione da Strategic Culture, 15 aprile 2019.
Poco più di dieci anni or sono mi chiesero di pronunciare un discorso a un banchetto tenutosi a Londra, cui partecipavano una ventina di personaggi provenienti dal Golfo: ambasciatori e gente ammanicata, tutti rappresentanti della ricca e cosmopolita élite locale. Verso la fine della serata il discorso si spostò su Hezbollah, e i presenti fecero fuoco e fiamme all'istante. Fuoco e fiamme quasi alla lettera perché a quegli alti papaveri andò di traverso il fumo, e dalle narici gli saettavano le fiamme. Il minimo che si possa dire è che non si mostrarono per nulla contenti. Giurarono in coro che non si sarebbero fermati davanti a nulla, pur di stroncare "la resistenza". La stessa parola resistenza minacciò di soffocarli un'altra volta. Giurarono di distruggerla fino all'ultimo brandello.
Ma col tempo le cose cambiano. Ovviamente c'è stata nel mezzo la guerra del 2006, che questi gentiluomini sostennero perché si pensava che avrebbe distrutto Hezbollah una volta per tutte e invece non è successo. C'è stata in Siria un'insurrezione finanziata con miliardi di dollari contro il refrattario Presidente Assad, che si sperava avrebbe abbattuto il pilastro della resistenza e invece non lo ha fatto; e c'è stata una massiccia guerriglia dell'informazione destinata a trasformare la Repubblica Islamica dell'Iran nell'appestato del pianeta.
In effetti questi raffinati gentiluomini hanno avuto un certo successo nell'affossare la cosiddetta Primavera Araba e nel mandare in pezzi e nel demonizzare Hamas e i Fratelli Musulmani. Eppure nonostante tutto questo, e dopo aver imbrogliato alla grande statunitensi ed europei con la loro propaganda antiiraniana, gli stati del Golfo sono di nuovo inquieti. Come mai?
I problemi ora sono in Libia, dove il generale Haftar preme sulla capitale Tripoli. A un primo livello di analisi è evidente che l'iniziativa è parte di una lotta di potere interna al paese; a un altro livello però la repentina ed inattesa uscita di Haftar dal processo politico (il segretario generale e l'inviato dell'ONU in occasione della loro ultima visita in Libia furono lasciati con un palmo di naso) si rivela più che altro come espressione della confusione che esiste nel Golfo perché l'offensiva di Haftar è cominciata dopo un giro di consultazioni in certe capitali del Golfo.
Non è che ci si agiti molto per la Libia; piuttosto ci sono timori, e timori forti, per l'Algeria. In Algeria sono in corso nutrite e ripetute proteste popolari che hanno costretto il presidente a fare un passo indietro. Le proteste, finora pacifiche, continuano, ma l'apparato di sicurezza si erge ancora minaccioso sullo sfondo. Anche a Khartoum ci sono state manifestazioni e ora che il presidente è stato spodestato con un golpe militare i fantasmi del passato, arrivati dal 2011, tornano ad angustiare i leader del Golfo.
Il messaggio da parte degli Emirati Arabi e dell'Arabia Saudita rappresentato dal via libera a uno Haftar (che odia gli islamici) per la presa di una Tripoli in mano islamica è diretto al popolo algerino: se vi ribellate al potere costituito, fate attenzione: "la repressione sarà inesorabile". Non saranno tollerate presenze islamiche: ecco la linea rossa da non oltrepassare. Gli Emirati Arabi Uniti hanno una pregressa storia di intromissioni negli affari algerini, attuate tramite l'esercito di quel paese. Fino a quando non è diventato presidente, Bouteflika è stato un ospite emiratino.
Se si trattasse di questo, si potrebbe concludere cinicamente, gli Emirati Arabi Uniti si metteranno probabilmente d'accordo con l'Algeria; che bisogno c'è di fare tanto chiasso. Solo che non si tratta di questo. La situazione algerina fa parte di un contesto, di un panorama, che fa davvero innervosire gli stati del Golfo.
Il punto è questo. Dopo aver fatto fuoco e fiamme a quella cena dieci e passa anni fa, e dopo tutto il sarcasmo che i mezzibusti statunitensi hanno diretto dopo allora contro la resistenza, un vero e proprio fronte resistente sta a tutti gli effetti prendendo forma. Dal Libano fino all'Iran, la sconfitta degli jihadisti e del progetto politico curdo patrocinati dai paesi del Golfo ha prodotto il consolidamento di un fronte politico.
Per amor di chiarezza, l'iniziativa che punta a unificare e a collegare l'Iran con i porti mediterranei di Tripoli in Libano e di Lattakia in Siria passando per l'Iraq, la Siria e il Libano è molto interessante per la Cina, proprio come i suoi aspetti sul piano dell'energia sono interessanti per la Russia. Nicholas Lyall scrive sul The Diplomat:
Il Levante è destinato a diventare un punto critico per il corridoio economico e infrastrutturale che deve unire la Cina all'Asia centrale e a quella occidentale, perché rappresenta un percorso alternativo al canale di Suez per raggiungere il Mediterraneo. Nel lungo termine, ai fini del raggiungimento di questo obiettivo la Siria è considerata come il paese fondamentale nell'area. Tripoli in Libano ad esempio dovrebbe diventare una zona economica speciale all'interno di questo complesso, e si programma la trasformazione del porto di Tripoli in un punto di smistamento fondamentale per il Mediterraneo orientale. Tutto questo assicurerebbe ai prodotti cinesi una strada verso l'Europa più diretta rispetto al canale di Suez.
"La Cina è destinata a essere l'attore principale nell'imminente ricostruzione del dopoguerra in Siria... gli accordi sottoscritti riguardano la costruzione di acciaierie e centrali elettriche, l'industria dell'auto e lo sviluppo di centri ospedalieri. Fra i campi di maggior prestigio per la partecipazione cinese, l'impegno preso nel 2015 dalla Huawei di ricostruire entro il 2020 la rete per le telecomunicazioni in Siria, e la quota di maggioranza della China National Petroleum Corporation in due delle maggiori compagnie petrolifere siriane."
Cosa c'entra questo con la Libia, con l'Algeria o col nervosismo dei paesi del Golfo? C'entra, e molto. Non solo perché Siria, Iran, Iraq e Libano -tutti dalla parte sbagliata, nei piani per il Medio Oriente secondo i paesi del Golfo- vanno ora per la maggiore, ma perché la Turchia e il ben fornito Qatar si stanno avvicinando sempre di più alla Russia e all'asse di cui fanno parte Iran, Iraq e Siria.
La Turchia e il Qatar sono i principali sostenitori della mlizia libica di Misurata e degli islamici di Tripoli; questo significa che agevolano e finanziano le forze che si oppongono a un generale Haftar intenzionato a distruggere il movimento islamico basato a Tripoli. Il conflitto in corso in Libia è anche una guerra per procura, che i paesi del Golfo stanno combattendo contro i Fratelli Musulmani e contro i loro protettori Turchia e Qatar. E questo è un ulteriore messaggio diretto all'Algeria: i Fratelli Musulmani non devono avere alcun ruolo nelle proteste popolari, altrimenti sono guai.
Ci sono anche altre cose che tengono svegli la notte gli alti papaveri del Golfo. La Turchia sta lasciando senza chiasso la NATO per passare a Mosca, per quanto possa fare Erdogan in questo campo senza perdere del tutto l'elettorato laico ed europeista delle coste. Anche se la Turchia dovesse rimanere nella NATO col corpo, sia pure non con lo spirito, si tratta comunque di un mutamento strategico notevole, con ampie ripercussioni su un'Asia centrale sostanzialmente turca e sul Medio Oriente.
Insomma, in Medio Oriente sta venendo meno un pilastro fondamentale degli USA proprio in un periodo in cui i leader del Golfo stanno avanzando dubbi sul perdurare del sostegno statunitense e sono sul chi vive a causa della recrudescenza delle proteste popolari. Non stupisce che stiano aprendo allo stato sionista; a chi altri potrebbero rivolgersi per ottenere protezione, in un mondo sempre più ostile ai loro interessi?
Ma anche questa prospettiva non è priva di rischi. Esistono resoconti che affermano che Trump è sul punto di rendere pubblico il suo "Accordo del Secolo". Ci si attende ampiamente che si tratterà di un'altra naqba, un'altra tragedia per i palestinesi. I leader del Golfo, che guardinghi hanno sostenuto l'accordo di Kushner, temono che la sua pubblicazione alimenterà i pretesti della Turchia e del Qatar per aizzargli contro i Fratelli Musulmani, proprio sulla questione palestinese.
Soprattutto gli alti papaveri del Golfo hanno ottimi motivi per essere nervosi. Si accorgono che i falchi nell'amministrazione Trump stanno mettendo all'angolo l'Iran in un crescere di pressioni e di provocazioni. Dopo il tre maggio, quando gli accordi sul petrolio saranno scaduti, potremo trovarci ad assistere a una rimarchevole escalation contro l'Iran da parte di Bolton e di Pompeo. Fino a che punto potrebbe trattarsi di un bluff spaccone in vista delle cruciali elezioni per la presidenza USA? O forse si sta senza parere manovrando Trump affinché dia il via a quella sempiterna guerra contro l'Iran che John Bolton cerca da tanto tempo? E Netanyahu lo seguirà a ruota? Cosa succederà allora nel Golfo?
Tutto questo complica le cose al Presidente Putin tutto. L'allineamento politico ed economico che sta prendendo forma in Medio Oriente e che arriva al Mediterraneo non è solo un accadimento estraneo privo di autentiche ripercussioni per la Russia. Anzi, esso ha un impatto molto diretto sugli interessi strategici russi. Il nuovo assetto rappresenta la linea del fronte rispetto al ventre molle russo e cinese, rappresentato dai vari stan dell'Asia centrale e dalla provincia cinese dello Xingjian. La Cina ha bisogno di assicurarsi un corridoio verso l'Europa per le merci che produce, la Russia necessita di un passaggio per l'energia che vende e per controbattere ai tentativi di Trump di imporre la supremazia statunitense nel settore tarpando le ali ai produttori avversari. Sia la Cina che la Russia rischiano di vedersi imporre controlli serrati sulle rotte marine, chiuse dagli USA tramite un blocco navale.
Il quadro che si va formando nel settentrione del quadrante mediorientale, il lento passare della Turchia dalla NATO all'ombrello russo e un pari venir meno dell'agibilità di quello spazio per Stati Uniti e stato sionista sono già elementi sufficienti perché la Russia debba temere le intromissioni statunitensi, non fosse che per la presa che Tel Aviv ha sulla politica estera degli USA. In altre parole, la Russia deve prepararsi a un conflitto regionale -verosimilmente tra USA e stato sionista da una parte e Iran dall'altra- e lo sta facendo. Si ricordi la vecchia dottrina di Mackinder; chi controlla il blocco continentale asiatico...
Il 14 marzo il Consiglio per la Sicurezza Nazionale in Russia presieduto dal Presidente Putin ha ufficialmente cambiato la definizione degli intenti ameriKKKani verso la Russia passando dall'espressione "pericoli militari" (opasnosti) direttamente a quella di "minacce militari" (ugrozy). Insomma, il Cremlino si sta preparando per la guerra, per quanto difensive siano le sue intenzioni.
A Mosca pensano che Trump voglia la guerra? C'è da dubitarne, ma la posizione di Trump, la sua stessa permanenza in carica, come nel caso dei suoi predecessori, è inevitabilmente alla mercè di uno stato profondo che non permette ad alcuna minaccia di ergersi contro la sua cerchia o di arrivare a diventare un rischio per le leve del potere mondiale. Di sicuro Trump è consapevole di quale sia stato il destino dei suoi predecessori, e mantiene con loro i contatti che gli servono per le sue necessità politiche, davanti alla prospettiva di concedere ai due pupilli di Sheldon Anderson la licenza di fare le volontà dello stato sionista. Una circostanza forse faustiana, ma ne va della sopravvivenza.
Sembra quindi che la reazione di Putin sia quella di privilegiare la condizione di Mosca come mediatore mondiale che non si fa trascinare in alcuna guerra mediorientale e che si mantiene però al di sopra della mischia. Il problema è che i conflitti mediorientali hanno la brutta tendenza all'ecalation. E il rischio di un potenziale confronto diretto fra Russia e USA potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Per questo Putin ha bisogno di un canale diretto con Trump, e a livello diplomatico non ne esiste nessuno perché sono stati tutti smantellati. Per riuscire a mediare fra stato sionista e Iran, ha bisogno invece di tenersi caro Netanyahu come se fosse l'amico del cuore e di mostrare empatia per le sue necessità politiche. Una strategia che Putin ha sviluppato con buoni risultati anche nel caso dell'incostante Erdogan.
Non sarà facile: Netanyahu chiede che si continuino gli attacchi contro quelle che vengono presentate come strutture iraniane in Siria e in Iraq, e vuole rassicurazioni sul fatto che le difese russe non interverranno. E inoltre vuole che lui e Washington possano dire la loro sul futuro politico della Siria.
Non sono richieste di poco conto perché mettrebbero a rischio i rapporti della Russia con l'Iran, con la Siria e con gli altri alleati nell'iniziativa infrastrutturale e geopolitica su ricordata. E si tratterebbe di un precedente destinato a diventare regola. Putin può camminare su questa fune? Sarà di aiuto Netanyahu, come tramite per Trump? Netanyahu è degno di fede?