Traduzione da Strategic Culture, 19 novembre 2018.
"Né il signor Trump, né alcun altro esponente della sua amministrazione, hanno reso pubblica alcuna conclusione su come sia morto il signor Khashoggi o su chi abbia la responsabilità di averne ordinato l'uccisione", scrive seccamente un editoriale dello Washington Post. "Anzi, hanno fatto finta di star aspettando gli esiti di un'indagine saudita... il problema ovvio, in questo caso, è che si dà per scontato che lo stesso Mohammed bin salman non si trovi dietro il caso Khashoggi, nonostante esistano abbondanti prove a carico del principe ereditario. Non esiste alcuna indagine saudita, e l'amministrazione statunitense questo lo sa di sicuro; esiste solo un'operazione di depistaggio maldestramente camuffata da inchiesta."
Un aspetto della questione è quello che riguarda la politica interna statunitense. La Casa Bianca viene sempre più considerata -come implica lo scritto dello Washington Post- coinvolta in un tacito avallo del depistaggio. Questo significa che la Casa Bianca viene considerata talmente dedita a mantenere Mohammed bin Salman al suo posto di cardine per la strategia in Medio Oriente di Trump, che essa e il signor Bolton vedranno solo quello che vogliono vedere -e sentiranno solo quello che vorranno sentire- di qualsiasi prova il governo turco esibirà e che abbia l'aria di riguardare Mohammed bin Salman.
Il Presidente Trump si mantiene pronto all'azione. Ha detto: "Nel corso della prossima settimana avrò un'opinione molto più definita sulla vicenda... Mi sto facendo un'idea molto chiara." Ma potrebbe essere saggio muoversi con prudenza: l'importante quotidiano turco Yeni Safak, che è vicino al governo e che giorno per giorno ha riportato indiscrezioni sull'inchiesta, ha riferito che Maher Mutrib, funzionario dei servizi sauditi che ha guidato ad Ankara una squadraccia composta da quindici persone, dopo l'uccisione di Khashoggi ha parlato direttamente in quattro occasioni col capo dell'ufficio privato del principe ereditario Badr al Asaker. Se è stato Mutrib a rivolgersi al capo di gabinetto di Mohammed bin Salman con l'espressione "Di' al tuo capo", le implicazioni che ne derivano sono chiare. Non esistono conferme ufficiali ma è possibile -e probabile- che i servizi turchi dispongano di altri dettagli, prezioso materiale da svelare poco per volta per gettare discredito sulla linea politica saudita ogni volta che il regno cercherà di mettere la parola fine alla questione. Sembra proprio che Erdogan voglia la pelle di Mohammed bin Salman.
In ogni caso, la natura e i rapporti fra costi e benefici della relazione fra sauditi e statunitensi rappresenta chiaramente una questione destinata a diventare importante a Washington. Adam Schiff, presidente del comitato dei servizi alla Camera, la ha già identificata -insieme al "chi, cosa, dove"- come primo argomento per un'interrogazione a cura del Partito Democratico in occasione della prima sessione con i nuovi eletti.
La questione comunque più importante -e questo Trump può non essere ancora pronto ad ammetterlo- è il fatto che la sua strategia per il Medio Oriente si trova in grossi guai, anche se Mohammed bin Salman riesce a sopravvivere nel suo ruolo di erede designato, cosa che sembra probabile dato il forte attaccamento di Trump nei suoi confronti. A rendere complicate le cose non è solo l'orripilante uccisione di Khashoggi; si tratta di ben di più. Il caso Khashoggi ha aperto un vaso di Pandora pieno di brutti sviluppi. Dagli ambienti del Golfo sta venendo fuori che l'assassinio di Khashoggi non è né un fatto isolato, né un caso straordinario nel Golfo di oggi. Buzzfeed News ha rivelato che i vertici degli Emirati Arabi Uniti hanno organizzato e diretto una unità composta da mercenari stranieri al preciso compito di uccidere metodicamente i capi dei Fratelli Musulmani nello Yemen (al Islah) intanto che l'Arabia Saudita agevolava in silenzio le forze di al Qaeda nello stesso paese nella lotta agli insorti Houthi. Più recentemente il New York Times ha svelato il tentativo di un ufficiale superiore saudita di stringere un contratto da due miliardi di dollari con organizzazioni statunitensi, sempre per eliminazioni metodiche di personalità iraniane. Per dirla senza tanti giri di parole, a leggere roba del genere sembra di essere tornati ai tempi di Saddam Hussein: principi che "spariscono" dalla Svizzera o da Parigi, primi ministri sequestrati, dissidenti e principi anziani incarcerati a capriccio.
Ovvio che i cosiddetti realisti reagiranno con un "e allora?". E risposte del genere arrivano dai "funzionari occidentali" in contesti come le conferenze stampa col Financial Times, da cui grondano sospiri svogliati pieni di "non ci sono alternative". "Funzionari occidentali dubitano che il trentatreenne principe corra il rischio di essere rimosso, tanto esteso è il suo potere; sotto il suo controllo ci sono le forze armate e i servizi di sicurezza... Non esiste alcun candidato preciso per sostituirlo, e il principe Mohammed si è accattivato il sostegno dei giovani e della élite liberale grazie alle riforme sociali varate nel corso della propria veloce quanto effimera ascesa," sentenziano. Davvero non ne esiste nessuno? Non esiste nessun altro in grado di ricoprire nessuno di questi ruoli?
Bene, allora la strategia complessiva di Trump ha un problema. Un problema che ha tre aspetti. Il primo è quello psicologico. Mohammed bin Salman o l'Arabia Saudita oggi come oggi incarnano qualcosa di autorevole e di cogente sotto il punto di vista della leadership o della visione politica? Il regno saudita ha oggi il carisma necessario a unire il mondo sunnita sotto il proprio stendardo e a guidare le ostilità di Trump contro l'Iran? La maggior parte dei popoli della regione è rimasta disgustata dalla guerra nello Yemen, già prima che Khashoggi venisse ucciso.
In secondo luogo, può essere che non tutti i resoconti abbiano evidenziato i rischi che il signor Trump corre sul piano politico a sovvenzionare con tanta generosità quella autentica idiozia che è una piattaforma costituita da un solo uomo? Cos'altro sta in agguato, ignorato ed invisibile, appena sotto la superficie? A proposito, anche il Primo Ministro Netanyahu ha fondato la propria piattaforma su pilastri altrettanto precariamente sottili.
Infine, in considerazione di tutto quello che sta venendo fuori, c'è quella che oggi costituisce l'idea sostanziale veicolata dai paesi del Golfo: di cosa si fanno portabandiera oggi i paesi del Golfo, dopo il tramonto delle benevole elargizioni monarchiche e paternalistiche nei confronti di soggetti più o meno capaci di gratitudine? Forse dell'idea di un'autocrazia semilaica, di uno stato securitario onnipresente, e di un neoliberismo scatenato? Chiaramente, tutto questo si potrebbe rivelare un valido argomento nei confronti dello stato sionista, ma nel contesto della riacquisizione di sovranità sul piano energetico, nazionale e culturale che sta avendo luogo nel quadrante settentrionale della regione questa plumbea prospettiva non ha alcun corso. Inoltre, far propria la struttura di uno stato securitario, in sé e di per sé, non è cosa da paese che ha fiducia in se stesso ma fa pensare all'esistenza di un dissenso interno in crescita e a pressioni che mettono in pericolo l'esistenza stessa dello stato, che è necessario arginare e reprimere.
Effetto collaterale della morte di Khashoggi è stato proprio questo inatteso gettare luce su quest'ultimo punto, la crescita della repressione sul piano interno. Si tratta di rivelazioni che fanno pensare che l'asse di un futuro conflitto in Medio Oriente non sarà quello che Trump e Netanyahu avevano sperato. Al centro non ci sarà l'Iran, ma un'ulteriore serie di confronti con i Fratelli Musulmani e con i loro protettori, la Turchia e il Qatar. Alcuni paesi del Golfo temono di più la dissidenza di orientamento islamico dei Fratelli Musulmani sul fronte interno dei propri emirati di quanto temano l'Iran, che non ha una storia di espansionismo statale al di fuori dei propri confini. Sono questi timori a guidare -e a rappresentare- il nuovo riallineamento della regione.
Gli stessi paesi del Golfo, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, temono che la Turchia, antica potenza politica ottomana ed imperiale nonché sede della 'umma islamica, potrebbe riuscire ad usurpare le credenziali saudite in materia di Islam; una deminutio capitis che ridurrebbe l'Arabia Saudita a nulla più che un mero custode della Mecca e di Medina. La stampa turca è piena di rivendicazioni di questo tipo. Tutto questo toglierebbe ai paesi del Golfo molto del loro significato e del loro valore agli occhi di Washington.
Intanto che i paesi del Golfo si volgevano ad un assetto semilaico per compiacere l'Occidente, la Turchia si impossessava senza tanto chiasso di quanto rimaneva della screditate credenziali islamiche del Golfo, sottoforma di un islamismo dai toni morbidi, nello stile dei Fratelli Musulmani, e di un assai esplicito revanscismo neoottomano, alimentato dalla convinzione che la Turchia sia la vittima di un complotto di cui fanno parte Mohamed bin Zayed, gli USA e lo stato sionista.
Un prossimo conflitto dunque è più probabile si svolga fra un Golfo intimorito e una Turchia sempre più assertiva e decisa a puntare alla guida del mondo islamico. L'Iran? L'Iran può assistere agli eventi con ottimismo: i sauditi sono sotto pressione affinché mettano termine alla loro guerra contro lo Yemen e all'assedio del Qatar. Inoltre, la nuova dinamica della regione non farà che spingere verso l'Iran sia la Turchia che il Qatar.
Niente di tutto questo può essere considerato come promettente per il signor Trump. La Turchia rincarerà la dose abbracciando la causa palestinese, sostenuta dall'Iran e dal Qatar. Mohammed bin Salman non avrà né la credibilità né la levatura necessarie a guidare una qualsiasi nuova "guerra" contro l'Iran dopo il disastro dello Yemen. Né potrà costringere i palestinesi alla capitolazione a fronte dell'"accordo del secolo". Anche suo padre, praticamente interdetto, e la Casa dei Saud, sono consapevoli del fatto che la strategia di Netanyahu è quella di seppellire anche l'idea di uno stato palestinese; in ogni caso la strategia di Bibi verrà probabilmente superata da questioni di politica interna, dal momento che lo stato sionista è alle prese con le conseguenze delle dimissioni di Lieberman.
Tutto questo genera un interrogativo: perché l'amministrazione Trump continua a considerare un'Arabia Saudita guidata da Mohammed bin Salman come una fonte di stabilità strategica? Non è che, semplicemente, le vecchie abitudini sono dure a morire? La linea politica di Trump non contempla solo l'uscita dall'accordo sul nucleare iraniano ma si spinge ben oltre, fino a cercare di rovesciare la Repubblica Islamica per mezzo di sanzioni che alla fine, pensiamo noi, si riveleranno un albatro che lo stesso Trump si è avventatamente appeso al collo senza che ce ne fosse alcun bisogno. Non funzioneranno, e la credibilità dell'AmeriKKKa in Medio Oriente sarà perduta appena questo fallimento diverrà evidente.