Traduzione da Strategic Culture, 12 settembre 2018.
L'amministrazione statunitense ha rotto gli indugi, ha scritto David Ignatius il 30 agosto, e adesso afferma di avere "interessi duraturi" in Siria al di là dell'uccisione dei terroristi dello Stato Islamico. L'amministrazione "non ha in programma per il prossimo futuro il ritiro delle proprie forze speciali dal nord-est della Siria". "Adesso," ha detto ad Ignatius un funzionario governativo, "il nostro compito è quello di creare difficoltà [per la Russia e per il governo siriano] finché non otterremo quello che vogliamo."
A quanto pare gli Stati Uniti hanno cambiato linea politica verso la metà di agosto, svanito ogni intento di comprensione reciproca che Trump e Putin avevano manifestato in luglio a Helsinki, e sono adesso in cerca di qualcosa che gli permetta di esercitare più pressioni possibile nelle ultime fasi della guerra civile siriana. A quanto sembra si tratta di un ultimo tentativo di imporre la volontà statunitense nel teatro bellico siriano, servendosi degli jihadisti di Idlib per contare qualche cosa nel contesto di qualsiasi transizione politica e del PKK curdo nel Nord est del paese per premere contro la Turchia e per arginare l'Iran.
Siamo davanti ad una svolta di centoottanta gradi. Il nuovo inviato in Siria di Pompeo, James Jeffry, è stato chiarissimo: "Gli Stati Uniti non tollereranno che le forze governative passino all'attacco," ha detto riferendosi all'imminente offensiva contro la enclave jihadista di Idlib.
"Per noi qualsiasi offensiva è da considerarsi una escalation il responsabile," ha detto. "Per giunta, se si usano armi chimiche, si creano ondate di profughi o si attaccano civili innocenti... La conseguenza sarà che dovremo rivedere le nostre posizioni..." A domanda se le possibili rappresaglie statunitensi per qualsiasi offensiva contro Idlib, armi chimiche o no, avrebbero contemplato attacchi aerei, Jeffrey ha risposto che "Abbiamo più volte chiesto il permesso di procedere," e che "potrebbe essere un modo [per reagire]".
L'obiettivo è quello di cacciare l'Iran dalla Siria, di assestare uno schiaffo strategico umiliante alla Repubblica Islamica per rafforzare la stretta imposta alla sua economia, di fare pressioni per una transizione politica da cui il Presidente Assad sia escluso e soprattutto quello di evitare di lasciar trasparire alcuna traccia della debolezza strategica degli Stati Uniti.
In Russia i vertici governativi già sapevano che gli Stati Uniti intendevano far fallire l'ultima operazione congiunta di vasta portata per porre fine al conflitto in Siria. Tutto questo trova adesso conferma. Un funzionario superiore del Cremlino ha detto ad Al Monitor a condizione di rimanere anonimo che i funzionari statunitensi intendono intralciare per molto tempo: "Sono seccati perché siamo stati noi ad avere la meglio nella gestione di queste crisi, e adesso non perdono occasione per metterci i bastoni tra le ruote."
Magari si trattasse solo di questo: il linguaggio di Jeffrey, il Dipartimento di Stato che parla di ulteriori sanzioni economiche da usare come strumento di pressione e le minacce contro l'Iran sono provocazioni e ultimatum di fatto diretti contro la Russia e contro l'Iran.
Gli eventi stanno prendendo una brutta piega. Non sappiamo perché Trump abbia rinnegato con tanta enfasi qualsiasi accenno di comprensione reciproca raggiunto a Helsinki, a meno di non considerare le straordinarie pressioni politiche e psicologiche cui è sottoposto. L'apoteosi funebre di McCain, presentato come l'incarnazione delle virtù ameriKKKane, il fazioso New York Times in mano a un vecchio funzionario della Casa Bianca membro della resistenza che ha rivendicato come un successo l'aver sabotato la politica di distensione di Trump verso la Russia; il libro di Woodward che lo ridicolizza, e ora anche Obama che si è unito al coro il 7 settembre, quando si è prodotto nella scontata insinuazione che il trumpismo alimenti in qualche modo il nazismo.
Mancano sessanta giorni alle elezioni di metà mandato. Come scrive Tom Luongo, "lo 'stato profondo' teme concretamente di perdere... E per me è chiaro che lo 'stato profondo' sta mandando la sinistra progressista in delirio sul conto di Donald Trump. Gli sta letteralmente mettendo il forcone in mano e suonando l'adunata perché si impadronisca con le brutte dell'Ufficio Ovale."
E questo è il punto. Basta con gli indugi, come ha detto Ignatius. La cosiddetta Resistenza sta uscendo allo scoperto alla grande per screditare politicamente Trump prima delle elezioni di metà mandato, e per screditare e demonizzare la Russia, con il Regno Unito che spalleggia come sempre, in questo caso accusando due russi per il caso Skripal.
Dal punto di vista politico l'Europa è entrata in gioco a causa delle guerre commerciali di Trump, della sua insoddisfazione nei confronti della NATO e del suo disprezzo per la élite globalista e liberale dell'Unione Europea. Questa autonominata Resistenza è dunque pronta a scendere in campo non solo sul fronte interno contro Trump, ma anche contro la Russia, per assicurarsi che l'Europa e il suo considerevole mercato di beni al consumo non scivolino nella sfera russo-cinese. La Russia deve essere demonizzata come il nemico assoluto con cui è impensabile qualsiasi alleanza.
Questa gente è davvero pronta a schernire la Russia e l'Iran al punto di arrivare al confronto militare? Sembra proprio di sì: James Jeffrey lo ha detto esplicitamente allo Washington Post: "secondo certi aspetti è possibile che stiamo entrando in una nuova fase in cui ci sono forze di paesi diversi che si fronteggiano reciprocamente invece di perseguire i propri differenti obiettivi," ha detto elencando la Russia, gli Stati Uniti, l'Iran, la Turchia e lo stato sionista. In altre parole la resistenza scenderà in campo di qui a novembre sia sul piano interno contro Trump sia sul piano della politica estera cercando di provocare e di irridere la Russia finché non succede qualcosa che permetta alla Resistenza di dire che rispetto ai tempi dell'unione sovietica sono cambiati i suonatori ma la musica è la stessa.
James Jeffrey avverte la Russia di non passare all'offensiva a Idlib per eliminare l'ultima sacca di jihadisti intransigenti. Ma l'offensiva è già iniziata. Che cosa è successo nell'incontro del 7 settembre a Teheran cui erano presenti Erdogan, Putin e Rohani? Gli osservatori dicono che sull'offensiva di Idlib non è stato raggiunto alcun accordo e che gli Stati Uniti sono riusciti nel loro intento: la loro ferma contrarietà all'attacco contro gli jihadisti ha mandato in stallo le operazioni. Solo che l'accordo fondamentale era già stato raggiunto prima dell'incontro e non tanto nel corso di esso: la Turchia ha messo Tahrir al Sham, detto anche an Nusra, detto anche Al Qaeda, nella propria lista delle organizzazioni terroristiche. Il risultato significativo, quello fondamentale, era proprio questo.
Erdogan è un politico, un politico navigato. È stato lui a sostenere quella fazione. Egli si considera un leader sunnita, un ottomano, "la guida" a livello mondiale dei Fratelli Musulmani. Erdogan è stato uno strumento fondamentale per gli insorti in Siria; è stato lui stesso a provocare l'insurrezione. Adesso però la stabile presenza degli jihadisti a Idlib si è fatta insostenibile persino per la Turchia; come può sganciarsi politicamente da questi insorti che la Turchia ha foraggiato con tanta attenzione? Quali conseguenze potrebbe comportare sul piano della sicurezza passare platealmente dalla parte di chi ne persegue la distruzione, delle bombe a Istanbul? Quali danni ne patirebbe l'immagine di sostenitore dell'Islam sunnita cui tiene tanto?
Quello che serviva era una piattaforma che venisse incontro alle sue necessità di politico di mostrare pubblicamente -e in televisione- la cura che mostra verso i settori che lo sostengono. Ed Erdogan l'ha trovata. Erdogan ha agito per tutelare i suoi elettori. Ha sostenuto la sua posizione in qualità di rappresentante di uno stato potente a fronte di altri Stati potenti, sottolineando il proprio interesse politico. Effettivamente ha attirato l'attenzione su di sé. Per quale altro motivo Putin e Rohani avrebbero dovuto permettere una messa in scena in cui tra massimi responsabili politici si chiacchierava apparentemente senza grande costrutto davanti alle telecamere, se non perché avevano capito che Erdogan aveva bisogno di mettersi in mostra?
La Turchia ha già definito an Nusra come un movimento terrorista. L'offensiva continuerà, le perdite civili saranno inevitabili perché gli jihadisti sono mescolati alla popolazione civile di Idlib, proprio come successe quando gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia hanno bombardato Raqqa per cacciarne lo Stato Islamico nel 2017: "contro Raqqa furono sparati più colpi di artiglieria che in qualsiasi altra occasione dai tempi della guerra in Vietnam".
Anche gli ameriKKKani probabilmente si metteranno in mostra, magari con i missili Tomahawk, per dipingere la Russia e la Siria come mostri disumani.