Traduzione da Conflicts Forum.


Siria. Il G8 in Irlanda del Nord alla fine dei conti non ha cambiato niente. E' finito con poco più che il pio desiderio di arrivare ad un incontro come Ginevra II all'inizio dell'autunno. La Francia e il Regno Unito sono sempre in prima fila tra quelli che vogliono a tutti i costi "fare qualcosa", ma Cameron è sempre più isolato anche in patria. Ha fatto una rapida marcia indietro sul suo proposito di armare l'opposizione siriana; si trova davanti a spaccature persino all'interno della coalizione che regge il suo governo, e non riesce a mettere insieme una maggioranza alla Camera dei Comuni che gli permetta di armare l'opposizione. In Francia, il Ministro degli Esteri continua con la sua rabbiosa e in qualche modo contorta difesa del passare a vie di fatto contro il governo siriano. Qui è presente un resoconto su un episodio simile e che riguarda la pretesa di Kerry che si bombardino immediatamente gli aeroporti siriani, con quelli della CIA e i realisti che lo azzittiscono. Le bombe sulla Serbia volute da Holbrook ispirano ancora oggi l'idea occidentale di come si dovrebbe trattare il Presidente Assad in maniera da costringerlo ad una "soluzione politica". La stessa idea domina ampiamente negli ambienti in cui ci si occupa della soluzione dei conflitti.
Per quanto riguarda l'uscita dalla crisi siriana, la metodologia politica adottata ha legato mani e piedi l'Occidente al modello yemenita. Nel caso siriano questo significa che le potenze esterne -ovvero gli Stati Uniti e la Russia- si accordano tra loro su una "fatwa" per la transizione, che viene poi imposta alle parti in lotta in una conferenza a Ginevra, poco o per nulla interessandosi al loro parere. Gli europei e l'ONU ritengono che questo modo di procedere costituisca l'unico vero "punto di inizio" per la fine dello stallo. In realtà, nel caso dello Yemen, le parti in conflitto hanno ritenuto talmente disgustoso questo approccio da arrivare ad accordarsi segretamente tra loro facendo completamente a meno dei paesi esteri e della loro "fatwa". Difficile che in Siria si arrivi allo stesso risultato, perché non esiste di fatto alcuna parte dell'opposizione sponsorizzata dall'Occidente che possa rifiutare o usurpare una "fatwa" emessa dalle grandi potenze: semplicemente, esse in Siria non godono in modo credibile di alcun sostegno popolare degno di nota. La debolezza dell'opposizione e la mancanza di concordia al suo interno non sono propriamente un problema, perché il vero problema sta nel fatto che non esiste alcun effettivo gruppo di oppositori, fatta eccezione per gli jihadisti radicali islamici armati, che in ogni caso non fanno parte dei calcoli occidentali.
Se le cose stanno in questo modo gli sforzi dell'Occidente, a meno che non si decida d'improvviso di propendere per un'ulteriore militarizzazione -e qui si legge qualcosa che fa pensare che Obama sia sempre più isolato nel rifiutare di percorrere questa strada- sono connessi all'opzione irrinunciabile di costringere l'opposizione ad arrivare ad una parvenza di unità, che le permetterebbe di figurare a Ginevra come il braccio esecutivo di una "fatwa" emessa dal tavolino di quelli che contano sul serio. Possiamo dunque attenderci di assistere ad un moltiplicarsi degli appelli all'unità dell'opposizione, affinché si possa arrivare ad una Ginevra II. E sicuramente la "fatwa" dei paesi occidentali e dei loro alleati nel Golfo sarà fatta in modo da spodestare il Presidente Assad e da rimpiazzarlo con un esecutivo di transizione. Esattamente il tipo di cosa cui Putin si è opposto con fermezza e con successo in occasione del G8. Il difetto in tutto questo -ed è un difetto sempre più riconosciuto in Occidente- è semplicemente l'estrosità dell'idea che un gruppo di esiliati siriani possa essere paracadutato nel paese per instaurare un governo di transizione controllato dall'opposizione e per prendere il controllo dell'esercito e delle forze di sicurezza. Altrettanto estrosa è stata, nel 2003, l'idea che Ahmad Chalabi e i due aerei carichi di suoi seguaci potessero fare lo stesso in Iraq. Pensare che le forze di sicurezza farebbero atto d'obbedienza ad un simile "comando" significa non aver capito nulla di come stanno le cose. Ed è questo che i russi stanno cercando di far capire, ad un auditorio fatto di sordi.

Nel Golfo continua l'eco della caduta di Quseyr. Un importante giornalista saudita vicino al principe Turki ha curato una enfatica chiamata alle armi diretta a tutto il Medio Oriente perché si spodesti il Presidente Assad, e "lo si faccia in fretta". Al Cairo il governo ha interrotto le relazioni con Damasco, ed una conferenza di studiosi sunniti ha statuito essere un dovere per i musulmani partecipare al jihad in tutte le sue forme a sostegno della causa sunnita nella sua interezza, che è la causa "della maggioranza dei paesi musulmani" per il suo impatto sulla Siria; la sua voce va ad aggiungersi a quella dello sceicco Qaradawi, che opera in Qatar, e a quella del mufti saudita che hanno già emesso appelli ad uno jihad sunnita contro il Presidente Assad ed i suoi alleati. Al di là del coro settario dei sunniti, in realtà, l'unità mostrata dai paesi del Golfo sta venendo meno: Arabia Saudita e Qatar sono impegnati in un aspro e quasi violento confronto a chi alza di più la voce. Gli Emirati Arabi sono in profondo disaccordo con i Fratelli Musulmani (si veda qui). L'Arabia Saudita e l'Egitto sono sempre più spesso in contrasto. Come se non bastasse, i due paesi più ricchi stanno cercando di attraversare un cambio di leadership che implica la rottura delle regole che nelle rispettive famiglie regnanti disciplinano il diritto di successione ed è verosimile che la questione finisca per essere motivo di attriti tra i due. Gli arresti per motivi politici in Arabia Saudita ed in altri paesi del Golfo stanno salendo a picco; oltre ventimila persone, donne comprese, sono state arrestate per reati politici in Arabia Saudita nel corso dell'ultimo anno.

In Iran, le elezioni presidenziali hanno conferito al candidato di centro un mandato sorprendentemente chiaro; Rohani è un autentico centrista, che si è mosso in modo da ottenre il sostegno dei riformisti -nonostante non sia egli stesso un riformista- degli ambienti attorno a Rafsanjani -nonostante non sia più l'uomo di Rafsanjani- e di una considerevole componente dei conservatori radicali e dei conservatori, nonostante non sia un conservatore radicale. Si tratta di un caso in cui attorno ad un singolo personaggio si coagula un considerevole consenso politico. Il neopresidente Rohani può contare sia su un ampio mandato popolare che su rapporti stretti con la Guida Suprema: è stato nominato personalmente dalla Guida Suprema al Consiglio per la Sicurezza Nazionale, come proprio rappresentante. Per il resto del mondo non ci sono stati dubbi sul fatto che Rohani è stato effettivamente eletto, e che il sistema politico iraniano ha con ogni evidenza funzionato bene ed ha portato ad un orientamento politico diverso da quello precedente.
Anche prima che le elezioni si svolgessero era chiaro che chiunque avrebbe vinto la politica estera iraniana era destinata a cambiare e a diventare più aperta verso un miglioramento delle relazioni internazionali a livello mondiale, anche se questo non implica affatto che il cambiamento sia centrato su un miglioramento delle relazioni con l'Occidente. Allo stato attuale delle cose è più probabile che a rafforzarsi sarà l'orientamento iraniano verso l'Oriente e l'Asia. Mentre la realtà di queste consultazioni come autentica espressione dell'orientamento poitico iraniano viene accettata come tale dalla maggior parte del mondo, in AmeriKKKa essa è già portata ad esempio del fatto che le sanzioni hanno compiuto il loro effetto su un popolo iraniano al limite della sopportazione, e che gli Stati Uniti possono adesso attendersi di strappare qualche concessione dal nuovo presidente senza che dall'Occidente ci sia alcuna contropartita. Arrivare a queste conclusioni significa interpretare in modo errato il panorama iraniano e se questo concetto entrerà a far parte della visione occidentale delle cose è possibile che gli Stati Uniti finiscano per perdere l'opportunità strategica che giunge loro dall'elezione di Rohani, quella di intavolare con l'Iran relazioni di tipo nuovo. La prospettiva di un simile riavvicinamento sarebbe accolta con la massima freddezza dalla leadership dello stato sionista (si leggano qui le reazioni di Netanyahu alla notizia dell'elezione di Rohani). Alcune dichiarazioni del neopresidente sono state selezionate con cura perché figurassero come prova della narrativa occidentale su un Iran che si indebolisce perché sotto pressione, ma non sono certo delle frasi estrapolate dal contesto che possono riflettere l'interezza di quanto Rohani ha detto nel corso di tutta la campagna elettorale. All'inizio del millennio Rohani ha subito un grosso danno dal fatto che l'Occidente sia riuscito a strappare agli iraniani la concessione di due anni di moratoria sull'arricchimento dell'uranio, senza che ad essa corrispondesse alcuna contropartita. All'epoca Rohani guidava i negoziati per contro dell'Iran, e non farà un'altra volta lo stesso errore. Gli resta però il difficile problema di gestire le aspettative occidentali; nel caso le concessioni iraniane prive di contropartita non figurassero come il risultato della "stanchezza" del popolo iraniano, c'è la possibilità che Rohani debba fronteggiare una recrudescenza del risentimento e dell'irritazione occidentali a fronte di questo mancato riconoscimento.