I sondaggi in occasione delle elezioni presidenziali in Iran (14 giugno) hanno registrare alcuni sostanziali cambiamenti nel posizionamento dei candidati di punta: Rohani capeggia la vasta coalizione che comprende Rafsanjani e i suoi alleati e nel suo complesso anche la variegata compagine dei riformisti ed ha preso l'abbrivio. Rohani ha chiaramente tratto vantaggio dal fatto che l'alleanza che lo sostiene è più coesa, e sembra che stia attingendo consensi anche da una fazione del campo dei conservatori radicali che vale il 10-20% di quel particolare elettorato. Nei sondaggi è quotato il 32% ma è probabile che potrà contare anche sugli indecisi che finiscono per recarsi a votare, e arrivare al 38%. Ghalibaf capeggia i conservatori radicali ed è il sindaco di Tehran; al contrario di Rohani ha perso posizioni e adesso è accreditato del 23% negli ultimi sondaggi. Probabilmente è stato penalizzato dal fatto di esser stato il candidato principale ed il primo a proporsi, cosa che lo ha fatto diventare il bersaglio di tutti gli altri aspiranti; in maniera anche più significativa è stato penalizzato dalla mancanza di coesione che impera nel campo dei conservatori radicali ed in quello dei conservatori. I candidati riformisti hanno urbanamente "passato la mano" e fornito a Rohani il loro appoggio; nell'altra coalizione questo non è successo, con la notevole eccezione del caso di Haddad Adel, che ha attuato il suo proposito di farsi da parte in favore di un candidato conservatore radicale più forte sin dall'inizio. I cambiamenti nelle percentuali di consenso mostrate dai sondaggi vanno interpretate come derivanti dal fatto che i candidati hanno potuto contare su un ampio e regolare accesso ai media a diffusione nazionale: sono stati diffusi ampi servizi su ciascun candidato, approntati dai rispettivi uffici di campagna elettorale, e i candidati hanno preso parte a tre dibattiti televisivi diffusi a livello nazionale e seguiti da molto pubblico. Alcuni candidati sono andati bene, mentre altri sono sembrati in difficoltà davanti alle telecamere. Il primo ed il secondo candidato affronteranno un secondo turno di consultazioni elettorali il 21 giugno. Pare che la partecipazione al voto sia salita dal 71% delle stime della scorsa settimana al 75% della settimana del voto; gli indecisi sono il 9%. Non sarebbe da sorprendersi se la partecipazione al voto arrivasse alla fine a toccare l'80%.
I sondaggi di ieri [giovedi 13 giugno 2013, n.d.t.] così figuravano:
Rohani 32%
Ghalibaf 23%
Jalili 14%
Rezaee 12%
Velayati 9%
Gharazi 1%
Indecisi 9%
Partecipazione al voto 75%
Se saranno Rohani e Ghalibaf a giocarsi la presidenza al secondo turno, quali saranno i punti in comune tra i due, e cosa distinguerà l'uno dall'altro in caso di vittoria? In termini essenziali, nei fondamenti della politica estera ci sono pochissime differenze. Entrambi i candidati sono vicini alla Guida Suprema, ed entrambi sono "centristi". Non ci saranno maneggi contro la Guida Supram: Rohani non è Moussavi, l'ex guida del Movimento Verde, e Ghalibaf non è Ahmadinejad, allora candidato dei conservatori radicali. Nessuno dei due candidati va visto come incline ad aperture all'Occidente perché nessuno dei due ha parlato in termini favorevoli dell'Occidente nel corso della campagna elettorale: nondimeno ci si deve attendere un cambio di stile in politica estera. E' verosimile che, chiunque vinca, saranno fatti sforzi per instaurare nel mondo un'atmosfera maggiormente favorevole all'Iran. E' probabile che gli esiti di questo nuovo approccio saranno più evidenti in Medio Oriente, crescere delle tensioni sulla Siria nonostante, e in Asia che non in Occidente.
Il conflitto siriano sta cambiando; in questa settimana gli eventi sul terreno si sono susseguiti in un crescendo e si è approfondita anche la spaccatura (come Conflicts Forum ha già fatto notare) che divide la regione e gli alleati di ciascuna parte in conflitto. La reazione rabbiosa, emotiva e settaria -la chiamata al jihad contro gli sciiti in tutte le sue forme emessa dallo sceicco Qaradawi, che viene considerato in misura sempre maggiore come il portavoce del Qatar, prontamente ripresa dal Mufti dell'Arabia Saudita- ha approfondito la divisione in tutto il Medio Oriente. E' come se in tutta la regione ci si debba schierare secondo lo schema del "con noi o contro di noi". Il Kuwait ha iniziato ad espellere gli sciiti, gli stati del Golfo hanno deciso sanzioni economiche contro di loro che non fanno distinzioni in base al loro coinvolgimento con gli avvenimenti in corso; il Consiglio per la Cooperazione nel Golfo ha bollato Hezbollah come "gruppo terrorista" e ha cominciato ad emettere sanzioni contro le attività economiche riferibili al partito.
Avanzando su Aleppo, l'esercito siriano sta preparandosi ad un eventuale attacco mettendo in atto attorno alla città le stesse tattiche usate a Qusayr: rastrellamento dei paesi vicini e dei sobborghi, taglio delle linee di rifornimento per gli insorti che si trovano in centro. Ci sono prove del fatto che l'arroventarsi dell'atmosfera sul piano internazionale ha già equipaggiato gli insorti, in vista dei combattimenti per Aleppo e Idlib, di missili anticarro filoguidati e probabilmente anche di missili spalleggiabili antiaerei; nonostante le sparate retoriche degli Stati Uniti e dei loro alleati, Washington non ha in realtà superato alcuna "linea rossa". Dalla dichiarazione del consigliere del ministro per la sicurezza nazionale Ben Rhodes emerge con chiarezza che non vi sarà alcuna escalation qualitativa nelle armi fornite agli insorti e che nessuna no-fly zone verrà istituita: entrambe cose chieste a gran voce agli Stati Uniti dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dai paesi del Golfo. Come già notato da Conflicts Forum, la debolezza militare degli insorti non è dovuta alla scarsità di armamenti anche se è chiaro che verranno loro a mancare le munizioni quando le loro linee di rifornimento verranno interrotte. Inoltre, fornire armi all'opposizione si imbatte anche contro il limite di ciò che è bene fornire, ovvero di ciò che si può ad essa consegnare senza il rischio che venga utilizzato contro aerei civili, o contro lo stato sionista e contro l'Occidente.
La Federazione Russa si sta attivando in considerazione di un potenziale coinvolgimento nel conflitto. I russi preferirebbero chiudere i conti con gli jihadisti sunniti sulla linea del fronte rappresentata dalla Siria, piuttosto che trovarsi la guerra in casa sottoforma di una miccia a lenta combustione attraverso il Caucaso e l'Asia Centrale fino alla Russia stessa. I russi stanno proponendo i propri militari per la forza di interposizione delle Nazioni Unite nel Golan, e a quanto sembra anche discutendo della possibilità di appellarsi alla Collective Security Treaty Organization affinché si metta insieme una forza antiterrorismo di peacekeeping in grado di combattere i movimenti islamici radicali nella regione. Le relazioni tra Russia e Stati Uniti sembrano destinate a peggiorare non soltanto in considerazione delle divergenze sulla Siria, ma anche -e in modo ben più fondato- a causa del rifiuto perentorio di Obama di rimettere in discussione l'architettura della difesa missilistica degli Stati Uniti e della NATO.
La separazione che va ampliandosi mette soprattutto l'Occidente davanti ad un dilemma: assecondare la rabbiosa reazione settaria del Golfo significherebbe rischiare di farsi trascinare nella linea di frattura ad alto contenuto emotivo che va approfondendosi in Medio Oriente. Una linea di frattura, per giunta, che non costituisce affatto un taglio netto. Esiste una considerevole popolazione sciita anche negli stati del Golfo, così come ci sono molti sunniti in Iraq, in Siria e in Libano. Il Golfo oltretutto si trova ad un bivio fondamentale, con l'Emiro del Qatar che sta cercando di privare il suo potente Primo Ministro dei suoi poteri, e di assegnarli nella loro interezza ad un proprio figlio che è il suo preferito ma che è anche molto giovane, alla faccia di vari altri membri della famiglia maggiormente competenti. In Qatar si va tradizionalmente avanti a forza di estromissioni forzate più che di passaggi di consegne morbidi. Anche il re dell'Arabia Saudita pare stia facendo qualcosa di abbastanza simile in favore di un proprio figlio, e anche nel suo caso ci sono altri membri della famiglia inclini a reclamare i propri diritti alla successione. Si tratta dunque di una spaccatura frastagliata in più sensi. Dal punto di vista strategico, soprattutto, se gli stati occidentali andranno avanti nel loro sostegno a questa invelenita reazione settaria messa in atto dai paesi del Golfo, rischieranno per forza di cose di trovarsi impelagati, direttamente o meno, con elementi che aderiscono allo spirito di AlQaeda. Un atteggiamento contraddittorio che non potrà fare altro che diventare sempre più evidente e sempre più al centro di discussioni, in Europa come negli Stati Uniti. Sembra improbabile che l'Iran vorrà rispondere per le rime all'espulsione degli sciiti dai paesi del Golfo. L'Iran e Hezbollah non hanno alcun interesse a far salire la tensione sul piano settario ed hanno intravisto la prospettiva di un crollo psicologico dei sunniti in quello che la sconfitta a Qusayr -e probabilmente anche ad Aleppo- rappresenterà ai loro occhi (si veda in proposito il commento di Conflicts Forum in cui facevamo presente questa eventualità).
Resta un interrogativo sul conto dello stato sionista: il Primo Ministro ha considerato questa settimana assieme alla commissione parlamentare per gli affari esteri e la difesa la minaccia esistenziale posta allo stato sionista dal prospettato arrivo dei missili antiaerei S300 in Siria. Sempre che i missili non siano già arrivati. Secondo altre voci pare che lo stato sionista possa rimanere in disparte e stare a guardare il Medio Oriente mentre va in pezzi: tra i sionisti Alex Fishman è un esperto di difesa di primo piano, e scrive:
"Ogni giorno, tra le quattrocento e le cinquecento persone vengono uccise in paesi che confinano con il nostro... per due anni il mondo arabo è andato bruciando e consumandosi senza che nessuno intervenisse dall'esterno, e le cose potrebbero andare avanti così anche per molti anni a venire.Perché mai, solo perché qualche infaticabile generale e un bellicoso Primo Ministro ne hanno voglia, dovremmo dar loro il pretesto per riunirsi attorno all'unica cosa che li accomuna, ovvero l'odio per lo stato sionista? Lasciamo che si suicidino in pace. Le armi in Libano sono pericolose, ma esse non rappresentano una minaccia all'esistenza dello stato sionista. Non sono la bomba iraniana."