Il nostro sito-bersaglio ospita, dal 4 dicembre 2006, un lungo articolo di Alberto Rosselli sulla presenza musulmana nella Repubblica Popolare Cinese che ha toni assai critici nei confronti della politica e della repressione messi in atto dai cinesi nello Xinjiang. Sarebbe da chiedersi se la "redazione" di esso sito l'abbia letto per intero, perché in esso gli "islamici" hanno con pochi equivoci la parte della minoranza oppressa!
Ironia della sorte ha voluto che fino alla recrudescenza di attentati dell'agosto 2008, in eloquente coincidenza con le ventinovesime Olimpiadi estive, la "questione islamica cinese" sia sparita dall'agenda setting "occidentalista", che ha lasciato assai più spazio alle fotogeniche proteste tibetane che non agli avvenimenti di Kashi e dintorni.
I due pesi e le due misure con cui i media "occidentalisti" trattano quanto ha a che vedere con la politica interna della Repubblica Popolare forniscono un buon esempio del funzionamento dei media stessi, che ha poco a che vedere con l'informazione e molto con il loro tornaconto e con la costruzione del consenso politico. Si dà il massimo risalto alle manifestazioni pro Tibet, per sapiente caso puntualmente inscenate alla presenza di telecamere amiche, e si bollano come "terrorismo islamico" gli attacchi alle postazioni militari dello Xinjiang. A nessuno interessa porre all'attenzione del pubblico i motivi reali che sottostanno ad una protesta popolare o ad un'azione armata: l'importante è che le manifestazioni si smercino bene in quanto eventi fotogenici, evitando, se possibile, che nel corso di esse vengano danneggiati gli intoccabili dèi dell'"occidente", primi tra tutti la proprietà privata e gli interessi americani.
Niente di strano: in un mondo mediatico dove una femmina che si fa fotografare svestita asserendo di protestare contro le pellicce ha maggiore visibilità delle vittime della democrazia da esportazione, può capitare tranquillamente di peggio. Nel 2002, ai tempi del sequestro Betancourt in Colombia, un telegiornale redatto e messo in onda da uno dei canali tv dello stato che occupa la penisola italiana preferì dedicare un servizio asssai più lungo ad una modella che viveva in una casa di vetro per le vie di Bogotà. Clou del servizio, le immagini in cui usava la toilette.
La permanente sicumera con cui si addebitano al "terrorismo islamico" tutti gli attacchi al potere costituito che avvengono in Asia Centrale, legittimata anche dalle fonti ufficiali cinesi, passa sopra alcune realtà geopolitiche non secondarie. La prima è il permanere nella zona di alcuni tra i confini più assurdi che la storia ricordi, frutto della matita copiativa di uno Stalin più in forma che mai, con terre di nessuno ampie decine di chilometri lungo catene montuose poverissime di percorsi segnati e lungo i quali succede di tutto con buona pace delle redazioni. La seconda, più o meno collegata con la prima, è la quasi miracolosa rinascita della via della seta... nel frattempo specializzatasi anche in altre merci, di tipo non esattamente tessile, il cui traffico va dalle zone di produzione in Afghanistan a quelle di consumo in Europa. Probabile dunque che, piuttosto che non meglio definiti motivi "religiosi" o legati alla repressione della cultura e della società degli Uiguri, il perché dei ripetuti attacchi alle stazioni di polizia della Repubblica Popolare vada cercato in motivi più venali.
Ironia della sorte ha voluto che fino alla recrudescenza di attentati dell'agosto 2008, in eloquente coincidenza con le ventinovesime Olimpiadi estive, la "questione islamica cinese" sia sparita dall'agenda setting "occidentalista", che ha lasciato assai più spazio alle fotogeniche proteste tibetane che non agli avvenimenti di Kashi e dintorni.
I due pesi e le due misure con cui i media "occidentalisti" trattano quanto ha a che vedere con la politica interna della Repubblica Popolare forniscono un buon esempio del funzionamento dei media stessi, che ha poco a che vedere con l'informazione e molto con il loro tornaconto e con la costruzione del consenso politico. Si dà il massimo risalto alle manifestazioni pro Tibet, per sapiente caso puntualmente inscenate alla presenza di telecamere amiche, e si bollano come "terrorismo islamico" gli attacchi alle postazioni militari dello Xinjiang. A nessuno interessa porre all'attenzione del pubblico i motivi reali che sottostanno ad una protesta popolare o ad un'azione armata: l'importante è che le manifestazioni si smercino bene in quanto eventi fotogenici, evitando, se possibile, che nel corso di esse vengano danneggiati gli intoccabili dèi dell'"occidente", primi tra tutti la proprietà privata e gli interessi americani.
Niente di strano: in un mondo mediatico dove una femmina che si fa fotografare svestita asserendo di protestare contro le pellicce ha maggiore visibilità delle vittime della democrazia da esportazione, può capitare tranquillamente di peggio. Nel 2002, ai tempi del sequestro Betancourt in Colombia, un telegiornale redatto e messo in onda da uno dei canali tv dello stato che occupa la penisola italiana preferì dedicare un servizio asssai più lungo ad una modella che viveva in una casa di vetro per le vie di Bogotà. Clou del servizio, le immagini in cui usava la toilette.
La permanente sicumera con cui si addebitano al "terrorismo islamico" tutti gli attacchi al potere costituito che avvengono in Asia Centrale, legittimata anche dalle fonti ufficiali cinesi, passa sopra alcune realtà geopolitiche non secondarie. La prima è il permanere nella zona di alcuni tra i confini più assurdi che la storia ricordi, frutto della matita copiativa di uno Stalin più in forma che mai, con terre di nessuno ampie decine di chilometri lungo catene montuose poverissime di percorsi segnati e lungo i quali succede di tutto con buona pace delle redazioni. La seconda, più o meno collegata con la prima, è la quasi miracolosa rinascita della via della seta... nel frattempo specializzatasi anche in altre merci, di tipo non esattamente tessile, il cui traffico va dalle zone di produzione in Afghanistan a quelle di consumo in Europa. Probabile dunque che, piuttosto che non meglio definiti motivi "religiosi" o legati alla repressione della cultura e della società degli Uiguri, il perché dei ripetuti attacchi alle stazioni di polizia della Repubblica Popolare vada cercato in motivi più venali.