La guerra greco-turca del 1921-1922 segnò il definitivo tramonto delle aspirazioni dell'Intesa ad una presenza territoriale in Anatolia. Lasciati -per lo meno ufficialmente- a se stessi dalle potenze straniere contro le truppe di Mustafa Kemal e di Ismet bey, i greci arrivarono fino ad ottanta chilometri da Ankara prima che le difficoltà logistiche ed una battaglia disastrosamente persa facessero capovolgere le sorti del conflitto. Il 13 settembre 1922 l'esercito turco irrompe a Smirne e si abbandona ad una giornata di sterminio nei quartieri cristiani. I superstiti sono portati in salvo dalla marina britannica. Nell'armistizio di Mudanya furono i turchi a dettare le condizioni. Ismet bey, detto Ismet Inönü dalla serie di scontri in cui nel 1921 aveva fermato l'avanzata greca, condusse i giochi fino al trattato di Losanna nel luglio 1923. Firmato dopo otto mesi di negoziati, il trattato fu il risultato diplomatico dell'avvenuta presa di coscienza, da parte dell'Intesa, che la nuova Turchia non era un paese sconfitto e che perdurare nei combattimenti voleva dire destabilizzare a tempo indeterminato tutta la regione mediorientale. Tra le clausole del trattato, che riportava tutta l'Anatolia, la Tracia orientale e gli stretti sotto la sovranità turca, era previsto anche lo scambio delle popolazioni allogene tra Grecia e Turchia, con l'eccezione di Istanbul dove risiedevano trecentomila greci ed ancora una piccola comunità armena. Pur attraverso percorsi assolutamente imprevisti, la politica di omogeneizzazione etnica del CUP arrivava al risultato che era stato alla base della sua politica. Il realismo politico aveva prevalso sulla linea dettata da Wilson, ed a Losanna furono assenti sia gli armeni che i curdi.
Come si era giunti a questo stato di cose, e quali erano stati gli effetti diplomatici e politici del genocidio armeno? Occorre tornare ai tempi del trattato di Versailles ed alla situazione politica e diplomatica in cui gli USA affrontarono quei mesi decisivi.
Gli USA avevano informazioni di prima mano sulla questione armena perché non avevano mai dichiarato guerra all'Impero Ottomano e perché nel corso della guerra Il Near East Relief, un aggregato di organizzazioni umanitarie in cui i cittadini statunitensi erano la maggioranza, aveva operato nell'assistenza ai profughi e nella raccolta di documentazione a seguito dell'avanzata delle truppe russe e francobritanniche. La propaganda antiturca e la denuncia dei piani di sterminio ebbero nel Near East Relief un diffusore importante anche negli ambienti diplomatici e furono uomini del NER ad allestire la documentazione con cui la delegazione americana giunse a Parigi per il trattato di pace. Gli armeni erano qui rappresentati da una delegazione in realtà fatta da due distinti gruppi: uno guidato da Boghos Nubar, emanazione del patriarcato, l'altro da Avetis Aharonian, del Dashnak, che parlava a nome della neonata repubblica. Sul tavolo venne messa la questione del protettorato americano sull'armenia, pendant di quello britannico sull'Iraq e francese sulla Siria, ma Wilson non affrontò la decisione preferendo prendere tempo. La pressione di una lobby che riuniva con efficacia i centomila armeni residenti negli USA ed il viaggio di una delegazione (la King-Crane) in Anatolia non valsero a risolvere l'impasse, e nel novembre 1919 il senato, dominato da una maggioranza interessata solo ad erodere il potere del presidente in vista delle elezioni, respinse il trattato di Versailles. A far sfumare definitivamente la prospettiva di uno stato armeno nei vilayet orientali dell'Anatolia penseranno, negli anni successivi, gli avvenimenti sul campo.
Parallelamente col procedere delle trattative di pace, vennero al pettine i nodi per la dirigenza ottomana, la quale ebbe presto chiaro che l'Intesa avrebbe fatto sicuramente pesare le conseguenze della dichiarazione del 24 maggio 1915. In quella dichiarazione si faceva esplicito riferimento alle responsabilità di politici ed amministratori per quei massacri che fossero risultati essere il frutto di un impianto giuridico condiviso, e si accennava anche a "nuovi crimini" la cui fattispecie non fosse mai stata contemplata prima dal diritto internazionale. Prima che Mehmed VI lo sostituisse in capo ad un mesecon un esecutivo capeggiato dal nemico storico dei Giovani Turchi Tevfik Pasa, il governo di Izzet Bey che era successo a Talat Pasa ebbe la primaria funzione di far sparire personaggi ed organizzazioni compromessi, che ripararono all'estero o cambiarono nome.
L'opinione pubblica anatolica, così come i vertici dell'Impero, erano sotto l'influenza di tre correnti di pensiero. Minoritarie erano quella liberale, che premeva per il riconoscimento delle responsabilità, e quella nazionalista, arroccata sul negazionismo. La maggioranza ondeggiava alla ricerca di un compromesso. Nel dibattito parlamentare che segue la presentazione di una mozione in merito e che si tiene quando già Tevfik Pasa è primo ministro, trovano espressione tutte le posizioni esistenti; vi predomina il punto di vista di chi vuole ammettere parte dei fatti ed al tempo stesso evitare di addossare la responsabilità all'intera popolazione turca. Il parlamento mise in piedi una "Quinta Commissione" che ascolta le testimonianze degli appartenenti ai governi in carica negli anni del genocidio, il sultano una "Commissione Mazhar", che raccoglie testimonianze ed elementi contro i funzionari di stato, di cui si vogliono conoscere comportamenti e responsabilità.
La Quinta Commissione riuscì a mettere le mani solo sugli appartenenti meno compromessi del CUP, quelli che non avevano ritenuto necessario sparire dalla circolazione, che confermarono le responsabilità di Talat e di Enver, e ribadirono che l'Organizzazione Speciale era "altra cosa" rispetto all'esecutivo, che anzi era all'oscuro dei suoi compiti. Non venne negata da nessuno l'esistenza delle leggi speciali, giustificate attingendo alla propaganda contemporanea ed alla documentazione ufficiale che faceva riferimento al pericolo delle ribellioni e del tradimento. Le testimonianze concordavano in modo moncorde nella cattiva attuazione delle leggi speciali e nell'addossare ogni responsabilità al vecchio ministro dell'interno.
La Commissione Mazhar aveva poteri ben più ampi, sollecitò quindi alle autorità provinciali l'invio di tutta la documentazione in loro possesso e fece compiere arresti da parte della polizia giudiziaria. Pare che, nonostante il perentorio ordine di distruzione inviato a suo tempo, molti funzionari avessero conservato ordini e telegrammi inerenti la deportazione, per potersene discolpare. In tre mesi la commissione passò centotrenta dossier alla corte marziale appositamente creata. Le difficoltà insite nel processare appartenenti al CUP erano acuite dai molti Giovani Turchi ancora presenti in parlamento, che fu sciolto alla fine del 1918; all'inizio del 1919 Damad Ferid Pasa divenne primo ministro. Le tre corti di Istanbul e le dieci giurisdizioni di provincia dovevano processare membri del CUP, istigatori al crimine contro gli armeni, militari di alto grado, appartenenti alla Organizzazione Speciale, deputati conniventi, giornalisti responsabili della propaganda, tutti i pasa ed i bey della catena di comando, ed infine coloro che si erano arricchiti alle spalle dei deportati.
Nonostante le distruzioni, la massa di documenti raccolta fu ingente e permise di ricostruire gli avvenimenti con buona approssimazione. Il primo processo, quello di Yozgat, si aprì all'inizio di febbraio e si chiuse all'inizio dell'aprile 1919. Principale imputato, il governatore locale Mehmed Kemal. I 33000 armeni del distretto erano stati deportati tutti; dei milleottocento presenti in città prima della guerra, solo ottantotto erano ancora vivi. La pubblica accusa definì "crimine contro l'umanità" la messa in pratica delle leggi speciali e anche se i difensori degli armeni abbandonarono il processo quando l'arringa accennò a responsabiità armene per il trattamento subìto, fu chiaro dai documenti presentati che il vocabolo deportazione era sempre stato utilizzato come sinonimo di sterminio e che il furto, l'esproprio ed il saccheggio dei beni delle vittime era prassi normale. Nel corso del processo fu chiarito anche il ruolo dei militanti del CUP ed il coinvolgimento dell'amministrazione civile oltre che della gerarchia militare. La sentenza non giustificò il comportamento del governatore neppure in considerazione delle colpe commesse da alcuni armeni, ed anzi stabilì che "massacri, saccheggi e rapine non si possono in alcun caso conciliare con i sentimenti umani e civili e soprattutto vengono considerati dall'Islam peccati capitali". Mehmed Kemal finì strangolato; al suo funerale per la prima volta il CUP tenne una grande manifestazione di piazza dopo la fine della guerra.
Un secondo processo si tenne a Trabzon tra marzo e maggio, con la presenza anche di accusatori privati armeni. I nove imputati furono in due casi condannati a morte in contumacia, nei restanti condannati a molti anni di carcere. In complesso furono avviati altri dodici processi, che non giunsero a conclusione ma che confermarono l'esistenza di una struttura centralizzata creata dallo Itthiad per il massacro e per la gestione dei beni sequestrati alle vittime.
Gli alti funzionari dello Ittihad vennero processati come tali -e non come governanti- dal 28 aprile 1919 ad Istanbul; l'accusa era convinta che il CUP avesse una doppia struttura, con una rete segreta accanto a quella legale. I processati furono accusati di aver fondato l'Organizazione Speciale, di aver controllato in modo tirannico il paese, di averlo portato in guerra e di essersi arricchiti illecitamente. La difesa ricusò sistematicamente il tribunale, ma senza esito: gli accusati furono interrogati singolarmente e furono presentate le prove documentali contro di loro. Nel rigettare le istanze della difesa la corte considerò i massacri come il prolungamento delle deportazioni, riconoscendo in altre parole l'intenzionalità dello sterminio.
L'occupazione greca di Smirne causò un'interruzione nel processo ed il clima quando esso riprese era molto cambiato; il nazionalismo turco si era riacceso ed il governo aveva liberato sull'onda delle proteste popolari una quarantina di imputati.
Dalla documentazione presentata emerse che l'Organizzazione Speciale era stata istituita nell'agosto del 1914 al ministero della guerra, che era divisa in quattro unità e che doveva mettere insieme unità paramilitari sottoposte all'esercito; gli armeni erano esplicitamente indicati come le persone da eliminare. Emerse anche l'intento deliberatamente genocidiario degli ideologi del CUP, per i quali "deportazione" e "liquidazione" erano sinonimi; molti telegrammi recuperati contenevano preciso l'ordine di uccidere gruppi di armeni prima e durante le operazioni di deportazione.
Alla fine di aprile 1915 l'Organizzazione Speciale era stata riorganizzata: i segretari provinciali del CUP avevano avuto comunicazioni governative su quanto si andava preparando ed erano state messe loro a disposizione alcune unità cui spettava il controllo delle operazioni di deportazione. I segretari del CUP avevano reclutato e messo in funzione le bande, avevano confermato ai governatori i piani di deportazione ed avevano anche ottenuto che Istanbul imponesse le dimissioni ai governatori poco collaborativi. I governatori che entrarono in rotta di collisione con il governo furono molti: pagarono tutti con le dimissioni imposte e moltissimi anche con la vita. Un altro elemento, questo, che smentisce -caso mai ve ne fosse ancora necessità- l'esistenza di un legame univoco tra appartenenza religiosa ed etnica e propensione al genocidio.
La massa di documentazione presentata indicò in Talat Pasa il vertice di una costituita "quarta forza" all'interno dello stato ottomano; una quarta forza incarnata dal CUP e dall'Organizzazione Speciale, responsabili per intero del genocidio e della sconfitta in guerra. Gli imputati, vertice del CUP, erano responsabili della natura criminale dell'organizzazione.
La sentenza del 5 luglio 1919 condannava a morte in contumacia Talat, Enver, Cemal e Nazim. altri tre imputati ebbero quindici anni, due furono assolti.
Le condanne a morte emesse nei vari processi furono in complesso assai poche, e ancora meno furono quelle eseguite; la reazione popolare all'esecuzione di Mehmed Kemal aveva in questo senso consigliato prudenza.
Le potenze dell'Intesa non poterono tenere fede ai propositi del 24 maggio 1915; su tutto passarono avanti considerazioni strategiche e geopolitiche; il mutare profondo e relativamente rapido della gepolitica dell'area e l'assurgere di personaggi e consapevolezza nuove nell'opinione pubblica turca fecero sì che un realismo politico impietoso impedisse che una corte internazionale processasse i responsabili del genocidio armeno. L'intenzione dell'Intesa era del resto, almeno da parte britannica, quella di "punire i turchi in quanto gruppo" comportandosi con la nascente Turchia come si stavano comportando con la Germania sconfitta. Esattamente quello che la classe politica turca non appartenente al CUP voleva che fosse evitato. L'idea che i vincitori potessero e dovessero processare i vinti, primi tra tutti il kaiser ed il governo ottomano, era basata sulla Convenzione dell'Aia del 1907, che prevedeva, in una clausola aggiunta successivamente, la punibilità anche di azioni criminali non specificamente enumerate nel trattato.
Nessun processo internazionale fu però mai celebrato, per l'intransigenza del segretario di stato americano Robert Lansing che rilevò come la clausola Maertens non considerasse necessaria l'istituzione di un tribunale internazionale e permettesse in pratica che i crimini di guerra fossero di competenza dei singoli stati. Si giunse così ai processi di Lipsia e, soprattutto, a quelli di Istanbul.
Il quadro politico in cui si svolsero i processi turchi era profondamente cambiato dalla fine della guerra: non va dimenticato che dalla metà del 1919 esisteva un potere imperiale, ad Istanbul, ed uno per il momento ufficioso, nella Ankara di Kemal, che concordavano sempre meno e su sempre meno questioni. Ogni possibilità di accordo venne meno nel 1920 proprio a causa della scoperta volontà britannica di punire in blocco il popolo turco tramite l'occupazione e la spartizione dell'Anatolia, e con il rafforzarsi del prestigio di Kemal conseguente alla presenza di truppe straniere sul suolo anatolico. Nel corso del 1920 il prestigio del governo di Ankara crebbe al punto di permettergli di dettare condizioni a quello di Istanbul e di imporre la fine dei processi per il genocidio e per la condotta di guerra, e lo scioglimento delle corti marziali.
Molti dei condannati a morte divennero, per Ankara, eroi nazionali; sempre ad Ankara i prigionieri rimpatriati trovarono spesso accoglienza ed incarichi di governo.
Il trattato di Losanna, che sostituì quello di Sèvres, avallò un'amnistia che permise a Mustafa Kemal di chiudere per sempre con le responsabilità del genocidio armeno.
Bibliografia
Marcello Flores, Il genocidio degli armeni, Il Mulino 2006
Su dodecaneso.org è possibile trovare il testo del trattato di Losanna.
TallArmenianTale controbatte alle conclusioni del processo di Yozgat insistendo sulle responsabilità armene che la corte -e la storiografia- tendono al contrario a considerare come trascurabili.
Studi per la pace contiene, tra le altre cose, il testo dei trattati dell'Aia.
Come si era giunti a questo stato di cose, e quali erano stati gli effetti diplomatici e politici del genocidio armeno? Occorre tornare ai tempi del trattato di Versailles ed alla situazione politica e diplomatica in cui gli USA affrontarono quei mesi decisivi.
Gli USA avevano informazioni di prima mano sulla questione armena perché non avevano mai dichiarato guerra all'Impero Ottomano e perché nel corso della guerra Il Near East Relief, un aggregato di organizzazioni umanitarie in cui i cittadini statunitensi erano la maggioranza, aveva operato nell'assistenza ai profughi e nella raccolta di documentazione a seguito dell'avanzata delle truppe russe e francobritanniche. La propaganda antiturca e la denuncia dei piani di sterminio ebbero nel Near East Relief un diffusore importante anche negli ambienti diplomatici e furono uomini del NER ad allestire la documentazione con cui la delegazione americana giunse a Parigi per il trattato di pace. Gli armeni erano qui rappresentati da una delegazione in realtà fatta da due distinti gruppi: uno guidato da Boghos Nubar, emanazione del patriarcato, l'altro da Avetis Aharonian, del Dashnak, che parlava a nome della neonata repubblica. Sul tavolo venne messa la questione del protettorato americano sull'armenia, pendant di quello britannico sull'Iraq e francese sulla Siria, ma Wilson non affrontò la decisione preferendo prendere tempo. La pressione di una lobby che riuniva con efficacia i centomila armeni residenti negli USA ed il viaggio di una delegazione (la King-Crane) in Anatolia non valsero a risolvere l'impasse, e nel novembre 1919 il senato, dominato da una maggioranza interessata solo ad erodere il potere del presidente in vista delle elezioni, respinse il trattato di Versailles. A far sfumare definitivamente la prospettiva di uno stato armeno nei vilayet orientali dell'Anatolia penseranno, negli anni successivi, gli avvenimenti sul campo.
Parallelamente col procedere delle trattative di pace, vennero al pettine i nodi per la dirigenza ottomana, la quale ebbe presto chiaro che l'Intesa avrebbe fatto sicuramente pesare le conseguenze della dichiarazione del 24 maggio 1915. In quella dichiarazione si faceva esplicito riferimento alle responsabilità di politici ed amministratori per quei massacri che fossero risultati essere il frutto di un impianto giuridico condiviso, e si accennava anche a "nuovi crimini" la cui fattispecie non fosse mai stata contemplata prima dal diritto internazionale. Prima che Mehmed VI lo sostituisse in capo ad un mesecon un esecutivo capeggiato dal nemico storico dei Giovani Turchi Tevfik Pasa, il governo di Izzet Bey che era successo a Talat Pasa ebbe la primaria funzione di far sparire personaggi ed organizzazioni compromessi, che ripararono all'estero o cambiarono nome.
L'opinione pubblica anatolica, così come i vertici dell'Impero, erano sotto l'influenza di tre correnti di pensiero. Minoritarie erano quella liberale, che premeva per il riconoscimento delle responsabilità, e quella nazionalista, arroccata sul negazionismo. La maggioranza ondeggiava alla ricerca di un compromesso. Nel dibattito parlamentare che segue la presentazione di una mozione in merito e che si tiene quando già Tevfik Pasa è primo ministro, trovano espressione tutte le posizioni esistenti; vi predomina il punto di vista di chi vuole ammettere parte dei fatti ed al tempo stesso evitare di addossare la responsabilità all'intera popolazione turca. Il parlamento mise in piedi una "Quinta Commissione" che ascolta le testimonianze degli appartenenti ai governi in carica negli anni del genocidio, il sultano una "Commissione Mazhar", che raccoglie testimonianze ed elementi contro i funzionari di stato, di cui si vogliono conoscere comportamenti e responsabilità.
La Quinta Commissione riuscì a mettere le mani solo sugli appartenenti meno compromessi del CUP, quelli che non avevano ritenuto necessario sparire dalla circolazione, che confermarono le responsabilità di Talat e di Enver, e ribadirono che l'Organizzazione Speciale era "altra cosa" rispetto all'esecutivo, che anzi era all'oscuro dei suoi compiti. Non venne negata da nessuno l'esistenza delle leggi speciali, giustificate attingendo alla propaganda contemporanea ed alla documentazione ufficiale che faceva riferimento al pericolo delle ribellioni e del tradimento. Le testimonianze concordavano in modo moncorde nella cattiva attuazione delle leggi speciali e nell'addossare ogni responsabilità al vecchio ministro dell'interno.
La Commissione Mazhar aveva poteri ben più ampi, sollecitò quindi alle autorità provinciali l'invio di tutta la documentazione in loro possesso e fece compiere arresti da parte della polizia giudiziaria. Pare che, nonostante il perentorio ordine di distruzione inviato a suo tempo, molti funzionari avessero conservato ordini e telegrammi inerenti la deportazione, per potersene discolpare. In tre mesi la commissione passò centotrenta dossier alla corte marziale appositamente creata. Le difficoltà insite nel processare appartenenti al CUP erano acuite dai molti Giovani Turchi ancora presenti in parlamento, che fu sciolto alla fine del 1918; all'inizio del 1919 Damad Ferid Pasa divenne primo ministro. Le tre corti di Istanbul e le dieci giurisdizioni di provincia dovevano processare membri del CUP, istigatori al crimine contro gli armeni, militari di alto grado, appartenenti alla Organizzazione Speciale, deputati conniventi, giornalisti responsabili della propaganda, tutti i pasa ed i bey della catena di comando, ed infine coloro che si erano arricchiti alle spalle dei deportati.
Nonostante le distruzioni, la massa di documenti raccolta fu ingente e permise di ricostruire gli avvenimenti con buona approssimazione. Il primo processo, quello di Yozgat, si aprì all'inizio di febbraio e si chiuse all'inizio dell'aprile 1919. Principale imputato, il governatore locale Mehmed Kemal. I 33000 armeni del distretto erano stati deportati tutti; dei milleottocento presenti in città prima della guerra, solo ottantotto erano ancora vivi. La pubblica accusa definì "crimine contro l'umanità" la messa in pratica delle leggi speciali e anche se i difensori degli armeni abbandonarono il processo quando l'arringa accennò a responsabiità armene per il trattamento subìto, fu chiaro dai documenti presentati che il vocabolo deportazione era sempre stato utilizzato come sinonimo di sterminio e che il furto, l'esproprio ed il saccheggio dei beni delle vittime era prassi normale. Nel corso del processo fu chiarito anche il ruolo dei militanti del CUP ed il coinvolgimento dell'amministrazione civile oltre che della gerarchia militare. La sentenza non giustificò il comportamento del governatore neppure in considerazione delle colpe commesse da alcuni armeni, ed anzi stabilì che "massacri, saccheggi e rapine non si possono in alcun caso conciliare con i sentimenti umani e civili e soprattutto vengono considerati dall'Islam peccati capitali". Mehmed Kemal finì strangolato; al suo funerale per la prima volta il CUP tenne una grande manifestazione di piazza dopo la fine della guerra.
Un secondo processo si tenne a Trabzon tra marzo e maggio, con la presenza anche di accusatori privati armeni. I nove imputati furono in due casi condannati a morte in contumacia, nei restanti condannati a molti anni di carcere. In complesso furono avviati altri dodici processi, che non giunsero a conclusione ma che confermarono l'esistenza di una struttura centralizzata creata dallo Itthiad per il massacro e per la gestione dei beni sequestrati alle vittime.
Gli alti funzionari dello Ittihad vennero processati come tali -e non come governanti- dal 28 aprile 1919 ad Istanbul; l'accusa era convinta che il CUP avesse una doppia struttura, con una rete segreta accanto a quella legale. I processati furono accusati di aver fondato l'Organizazione Speciale, di aver controllato in modo tirannico il paese, di averlo portato in guerra e di essersi arricchiti illecitamente. La difesa ricusò sistematicamente il tribunale, ma senza esito: gli accusati furono interrogati singolarmente e furono presentate le prove documentali contro di loro. Nel rigettare le istanze della difesa la corte considerò i massacri come il prolungamento delle deportazioni, riconoscendo in altre parole l'intenzionalità dello sterminio.
L'occupazione greca di Smirne causò un'interruzione nel processo ed il clima quando esso riprese era molto cambiato; il nazionalismo turco si era riacceso ed il governo aveva liberato sull'onda delle proteste popolari una quarantina di imputati.
Dalla documentazione presentata emerse che l'Organizzazione Speciale era stata istituita nell'agosto del 1914 al ministero della guerra, che era divisa in quattro unità e che doveva mettere insieme unità paramilitari sottoposte all'esercito; gli armeni erano esplicitamente indicati come le persone da eliminare. Emerse anche l'intento deliberatamente genocidiario degli ideologi del CUP, per i quali "deportazione" e "liquidazione" erano sinonimi; molti telegrammi recuperati contenevano preciso l'ordine di uccidere gruppi di armeni prima e durante le operazioni di deportazione.
Alla fine di aprile 1915 l'Organizzazione Speciale era stata riorganizzata: i segretari provinciali del CUP avevano avuto comunicazioni governative su quanto si andava preparando ed erano state messe loro a disposizione alcune unità cui spettava il controllo delle operazioni di deportazione. I segretari del CUP avevano reclutato e messo in funzione le bande, avevano confermato ai governatori i piani di deportazione ed avevano anche ottenuto che Istanbul imponesse le dimissioni ai governatori poco collaborativi. I governatori che entrarono in rotta di collisione con il governo furono molti: pagarono tutti con le dimissioni imposte e moltissimi anche con la vita. Un altro elemento, questo, che smentisce -caso mai ve ne fosse ancora necessità- l'esistenza di un legame univoco tra appartenenza religiosa ed etnica e propensione al genocidio.
La massa di documentazione presentata indicò in Talat Pasa il vertice di una costituita "quarta forza" all'interno dello stato ottomano; una quarta forza incarnata dal CUP e dall'Organizzazione Speciale, responsabili per intero del genocidio e della sconfitta in guerra. Gli imputati, vertice del CUP, erano responsabili della natura criminale dell'organizzazione.
La sentenza del 5 luglio 1919 condannava a morte in contumacia Talat, Enver, Cemal e Nazim. altri tre imputati ebbero quindici anni, due furono assolti.
Le condanne a morte emesse nei vari processi furono in complesso assai poche, e ancora meno furono quelle eseguite; la reazione popolare all'esecuzione di Mehmed Kemal aveva in questo senso consigliato prudenza.
Le potenze dell'Intesa non poterono tenere fede ai propositi del 24 maggio 1915; su tutto passarono avanti considerazioni strategiche e geopolitiche; il mutare profondo e relativamente rapido della gepolitica dell'area e l'assurgere di personaggi e consapevolezza nuove nell'opinione pubblica turca fecero sì che un realismo politico impietoso impedisse che una corte internazionale processasse i responsabili del genocidio armeno. L'intenzione dell'Intesa era del resto, almeno da parte britannica, quella di "punire i turchi in quanto gruppo" comportandosi con la nascente Turchia come si stavano comportando con la Germania sconfitta. Esattamente quello che la classe politica turca non appartenente al CUP voleva che fosse evitato. L'idea che i vincitori potessero e dovessero processare i vinti, primi tra tutti il kaiser ed il governo ottomano, era basata sulla Convenzione dell'Aia del 1907, che prevedeva, in una clausola aggiunta successivamente, la punibilità anche di azioni criminali non specificamente enumerate nel trattato.
Nessun processo internazionale fu però mai celebrato, per l'intransigenza del segretario di stato americano Robert Lansing che rilevò come la clausola Maertens non considerasse necessaria l'istituzione di un tribunale internazionale e permettesse in pratica che i crimini di guerra fossero di competenza dei singoli stati. Si giunse così ai processi di Lipsia e, soprattutto, a quelli di Istanbul.
Il quadro politico in cui si svolsero i processi turchi era profondamente cambiato dalla fine della guerra: non va dimenticato che dalla metà del 1919 esisteva un potere imperiale, ad Istanbul, ed uno per il momento ufficioso, nella Ankara di Kemal, che concordavano sempre meno e su sempre meno questioni. Ogni possibilità di accordo venne meno nel 1920 proprio a causa della scoperta volontà britannica di punire in blocco il popolo turco tramite l'occupazione e la spartizione dell'Anatolia, e con il rafforzarsi del prestigio di Kemal conseguente alla presenza di truppe straniere sul suolo anatolico. Nel corso del 1920 il prestigio del governo di Ankara crebbe al punto di permettergli di dettare condizioni a quello di Istanbul e di imporre la fine dei processi per il genocidio e per la condotta di guerra, e lo scioglimento delle corti marziali.
Molti dei condannati a morte divennero, per Ankara, eroi nazionali; sempre ad Ankara i prigionieri rimpatriati trovarono spesso accoglienza ed incarichi di governo.
Il trattato di Losanna, che sostituì quello di Sèvres, avallò un'amnistia che permise a Mustafa Kemal di chiudere per sempre con le responsabilità del genocidio armeno.
Bibliografia
Marcello Flores, Il genocidio degli armeni, Il Mulino 2006
Su dodecaneso.org è possibile trovare il testo del trattato di Losanna.
TallArmenianTale controbatte alle conclusioni del processo di Yozgat insistendo sulle responsabilità armene che la corte -e la storiografia- tendono al contrario a considerare come trascurabili.
Studi per la pace contiene, tra le altre cose, il testo dei trattati dell'Aia.