Nell'agosto 2021 -dopo aver contrattato la resa con quelli che la "libera informazione" ha dipinto incessantemente come un aggregato disumano- l'esercito statunitense ha abbandonato in modo piuttosto affrettato e lasciandosi dietro la consueta scia di "perdite collaterali" quell'Afghanistan che aveva aggredito vent'anni prima.
Non è questa la sede per dilungarsi sulle cause di una sconfitta umiliante; basterà ricordare che la "libera informazione" occidentale ha riesumato in quella circostanza temi e argomenti di propaganda risalenti al 2001, e che la risposta delle persone serie -che per la "libera informazione" non provano alcuna simpatia e non nutrono alcuna fiducia- non possa consistere che nel controbattere nel modo gelido che può concedersi chi ha la consapevolezza di chi ha visto avverarsi previsioni che all'epoca era facile reperire nel più frettoloso volantino fotocopiato nel più scalcinato dei centri sociali.
Ecco dunque le considerazioni del sociologo Stefano Allievi, a commento e integrazione di uno elaborato (invero molto generoso e fin troppo condiscendente) redatto in risposta allo "scritto" di Oriana Fallaci con cui il "Corriere della Sera" si autonominò nell'ottobre 2001 custode della liceità di pensiero.
Come spesso succede citando elaborati altrui, anche questo contiene il nome dello stato che occupa la penisola italiana. Ce ne scusiamo come nostra abitudine con i lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.
Come prevedibile, in molti stanno ricominciando a tirare fuori i testi di Oriana Fallaci, a partire da La rabbia e l’orgoglio, l’articolo sul Corriere della Sera diventato poi un fortunato ed influente best (e long) seller.
Poiché le “verità” di quel testo e dei suoi successivi vengono date oggi per assodate, mi permetto di allegare di seguito la mia modesta risposta a quell’articolo: pubblicata a suo tempo nel volume “La tentazione della guerra” (Zelig, 2001), uscito a caldo e oggi ampiamente esaurito, e ripubblicata nel volume di risposta all’intera trilogia fallaciana (“Niente di personale signora Fallaci”, pubblicato con eguale insuccesso). E lo faccio perché oggi il rischio è che si ripetano, pari pari, gli errori (anche interpretativi) di allora. Che invece sarebbe utile evitare.
So che le mie opinioni sulla Fallaci anti-islamica sono minoritarie. E nulla tolgono alla Fallaci reporter e alla Fallaci scrittrice: che, in altri testi, ho letto e apprezzato. Ma questo è il solo settore in cui posso vantare una competenza specifica, che mi ha fatto leggere il suo testo diversamente (non altrettanto avrei potuto fare con “Un uomo” o con “Lettera a un bambino mai nato”, per dire), e mi ha consentito di commentarlo in dettaglio.
Non credo che sui contenuti della mia risposta, a distanza di vent’anni, cambierei alcunché (sullo stile forse sì). Anche se la scrissi di getto, a mano, su un treno che mi portava da Roma a Milano, subito dopo aver letto il suo articolo sul “Corriere della sera”, e la feci circolare il giorno dopo, via mail, tra alcuni amici, prima che finisse in un libro (allora non c’erano i social network, altrimenti l’avrei fatta circolare almeno lì).
La soddisfazione maggiore la provai anni dopo. Quando, in occasione della creazione del Premio Terzani e del Festival Vicino/Lontano (di cui ero stato chiamato a far parte del comitato scientifico) conobbi Angela Staude: e lei mi disse che suo marito, Tiziano Terzani, aveva letto il mio libro, e ne aveva parlato come dell’analisi più approfondita delle posizioni di Oriana Fallaci che avesse avuto occasione di leggere. Dei miei quattro lettori, contro i milioni di Oriana Fallaci, almeno uno mi ha ripagato dell’impegno…
Lettera alla signora Oriana Fallaci, più o meno nel suo stile
Ho letto La rabbia e l’orgoglio, il testo-manifesto che ha pubblicato sul Corriere della Sera, con le sue riflessioni dopo la strage del World Trade Center. L’ho letto con interesse e, glielo confesso, irritazione crescenti, man mano che proseguivo nella lettura, che la seguivo nei suoi ragionamenti. L’ho letto, alla fine, con rabbia. E forse un eccesso di orgoglio mi spinge a cercare di risponderle. In maniera forse irrazionale mi sento, in qualche modo, tirato in causa: perché sugli stessi temi ci ragiono e ci lavoro da anni, e trovo che testi come il suo facciano del male – gratuitamente, ingiustamente. Colpevolmente. Nello stesso tempo costringono a discutere, e questo è il loro pregio maggiore. Mi sento spinto a partecipare alla discussione. Mi ci ha spinto lei.
Merita una riflessione il suo testo, signora Fallaci. Seria e approfondita. Anche se il testo non lo è. Più che scritto, sembra vomitato. E il risultato va di conseguenza. Mi permetto di chiosarlo. Magari partendo anch’io – chiedo scusa se mi metto su un piano non dico simile, ma analogo a quello di cotanta cattedra – da qualche reazione ed esperienza personale, come molto personale, molto intimo, viscerale, umorale direi, è il suo testo, signora Fallaci. Anche se i miei titoli sono assai più modesti dei suoi: io mi limito ad occuparmi di immigrazione da una ventina d’anni, di islam da una decina. E siccome lei, signora Fallaci, mette insieme per l’appunto i due argomenti, per trarne una sua personalissima ma diffusissima morale, forse posso buttarmici persino io, su questo tema.
Come quasi sempre, in quanto la concerne, signora Fallaci, lo scrivere è il frutto di un ego debordante (letterariamente può essere un pregio, a piccole dosi. Ma politicamente, culturalmente, è un altro discorso: e qui lei pretende di fare una battaglia culturale). Lei, per dire, non è una che intervista persone o personaggi famosi. No. Lei è una che intervista, modestamente, la storia, come recitava umilmente il titolo di un suo libro. La parola ‘io’ fa capolino dappertutto, centro e fine di tutto: credo che anche quando scrive dio si senta solo la eco delle ultime due lettere…
Lo “straordinario scritto”, come viene presentato, comincia con le sensazioni provate con il crollo delle Twin Towers. E fin qui tutto bene, e non ci entro nemmeno. Non è questo, del resto, che è piaciuto. E’ la guerra culturale. E allora parliamone. Sorvolando sugli errori di fatto: che so, che Omar Khayan non si scrive così (sembra secondario, ma è come scrivere Dante Alighiurri, o Giovanni Bocciacco – dà subito l’idea che non se ne sa un granché, della cultura di cui si parla…); che ci sono ventiquattro milioni di arabo-musulmani in America – sono sei milioni, ma che importa; che Usama Bin Laden è suddito dell’Arabia Saudita, mentre non lo è più; che “quel palestinese di nome Habash che per venti minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato sulla testa”, come denuncia il nome, e come sa chi di queste cose si occupa, era un cristiano e non un musulmano, e così via. Queste sono quisquilie, pinzillacchere, direbbe Totò. E chi mai si aspetta da un giornalista, tanto più se grande, l’esattezza. Andiamo al sodo.
Non mi viene da fare un discorso onnicomprensivo e coerente: nemmeno il suo, signora Fallaci, del resto, lo è. Preferisco seguirla nel suo discorso. E commentarla come ho fatto tra me e me leggendola, magari applicando il suo discorso ad altri, rovesciandolo un po’: per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Lei dice che ha scelto di uscire dal suo eburneo silenzio in nome di “una rabbia fredda, lucida, razionale”, contro chi ha detto che all’America “gli sta bene”: quelli che, a suo dire, hanno gioito. Non so chi siano, quanti siano, dove siano, non so nemmeno se ci siano, questi intellettuali che lei non nomina, dunque nemico vago, evocato ma non indicato. Le credo, comunque: è probabile che ci siano. Il mondo è piano di persone che sfogano la loro rabbia, la loro impotenza, nella maniera sbagliata (lei, nel suo scritto, ne è un esempio, signora). Chiunque siano, sono d’accordo con lei: è indecente, è disumano, che qualcuno gioisca per queste morti innocenti. E’ vergognoso. E’ indicibile. Ma è sulla sua reazione che mi permetto di eccepire: sul fatto che la sua rabbia sia fredda, lucida e razionale come pretende. Almeno lo fosse! Non avrebbe clamorosamente sbagliato bersaglio, colpendo con la sua sacrosanta indignazione, con la sua rabbia, chi non c’entra nulla: uomini e donne, culture e religioni che non c’entrano niente, con questi infami intellettuali con cui lei se la prende.
Direi che la sua guerra guerreggiata, signora Fallaci, comincia quando lei descrive i kamikaze suicidi. Ne parla malissimo. E fa benissimo. Lei non li considera – neanch’io, per quel che vale – degli eroi e dei martiri, “come berciando e sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972”. Ammettiamolo. Arafat per giunta adesso bercia e sputa peggio di prima, e magari rutta e scoreggia: in più è malato, e la malattia degli anziani fa sempre un po’ schifo (è per quello che chiamiamo dei filippini e dei singalesi ad occuparsene: non è roba da civilizzati farlo noi…). Ma il suo è puro soggettivismo. Di trent’anni fa, per giunta. Che senso ha il paragone? Se è questo il livello del discorso, beh, vediamo come ci finirebbero altri, nel mirino fallace. Non so, per dire, se il signor Sharon bercia e sputa: non lo conosco. Non ho mai intervistato la storia. Nemmeno la cronaca. Ma quanto a politiche sanguinarie non scherza nemmeno lui. Ma vogliamo fare storia così? Vogliamo fare geopolitica così? Peggio, vogliamo fare cultura così? E’ rischioso. Da un lato Sharon, forse, invecchiando è peggiorato, mentre Arafat perlomeno non li rivendica più pubblicamente, quei morti. Ma, per dire, Bin Laden non bercia e non sputa, e al suo confronto, se si parla di stile, la maggior parte dei politici nostrani (e anche Bush) ci fanno la figura dei plebei a Versailles. Vogliamo dedurne che Bin Laden è migliore?
Qui viene fuori il primo riferimento al Corano, e al suo Paradiso: “il Paradiso dove gli eroi si scopano le Urì”. Anche nella Bibbia, a volerli trovare – e non è difficile – ci sono episodi assai poco edificanti: ci sono personaggi mica da poco che – certo, peccando, e come peccati sono stigmatizzati, e sono occasione di ravvederersi, ma intanto… – si scopano le figlie, si sbronzano come carrettieri, sbattono i legittimi mariti delle donne che desiderano in prima fila per farli morire in battaglia e sbattersi liberamente pure le mogli loro, ingannano mentono e uccidono che è un piacere. Proprio come nel Corano. Cosa vogliamo dedurne? siamo ancora lì? l’opinione laica (anzi, laicista: si definisce così lei stessa, signora Fallaci) non sa proprio trarre altro da un libro considerato sacro? non sa leggerlo che in questo modo? e allora perché diavolo ne parla?
Poi dice qualcos’altro sui kamikaze del suo libro Insciallah (così non ci dimentichiamo di rileggerlo, o di comprarlo se ancora, imperdonabilmente, non l’avessimo fatto). Che sono vanesi: “che baffi impomati, che barbetta leccata, che basette civettuole…” Vabbè, ma che dimostra? Perché, gli araldi della civiltà non si impomatano? Non sono vanesi? Il cerone, lo sfondo giusto, il colore che ne fa risaltare l’abbronzatura, i capelli tinti, e magari maggiorati di numero, che so, a caso, del cavaliere? ma dimostra qualcosa, questo? se non, al massimo, che gli esseri umani, terroristi o no, sono vanesi? Geniale!
E dopo questa scoperta straordinaria: “Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi”. Non abbiamo dubbi. Senz’altro lo farà. Cosa vuoi che abbia da fare, in questo momento, di più importante, cosa vuoi che lo faccia friggere, tra un attentato al suo braccio destro e una decina di cadaveri al giorno tutto intorno? La Fallaci, che diamine! “Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi”. Lasciamo pure perdere il tono, la totale perdita di senso della misura e del ridicolo. Ma la domanda è un’altra, politica: che c’entra Arafat? Perché parlandone così, a proposito delle Twin Towers, vuol dire che si instaura un legame tra i due argomenti. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano gli amici americani della Fallaci, visto che Bush si è dato tanto da fare per tirare quel terrorista che bercia e sputa nella sua alleanza contro il terrorismo, e ha fatto bene. Perché non scrive un’invettiva anche a lui, di cui pure parla così bene nel suo articolo? Per inciso, fare questo incauto e irresponsabile esercizio proprio adesso è come dire che gli americani se la sono voluta. Si mette sullo stesso piano delle persone che più sembra detestare, signora Fallaci. Con la differenza che lei è nel mezzo della scena, naturalmente: ben sotto i riflettori, pronta a raccogliere gli applausi che, non dubito, arriveranno numerosi, pericolosamente acritici e unanimi.
Poi è la volta dell’invulnerabilità dell’America. Come lei ben dice, è giusto il contrario. Ci si sente più sicuri, nelle dittature, nei regimi militari. Tranne se si è loro nemici, come lei. Tutto vero. Compreso il dire che il rischio attentati, dunque, era reale, che “non è mai stato un problema di ‘se’: è sempre stato un problema di ‘quando’”. Ma, signora mia, perché esporsi al ridicolo di pretendere che lei lo sapeva, che lei, dall’alto delle sue capacità divinatorie, l’aveva previsto? “Perché credi che martedì mattina il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l’audio non funzionava, ci fosse quella sull’attentato? E perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito?” Miracolo! Nemmeno padre Pio… Anche se, lo ammetta, almeno le ultime due erano già più faciline: forse altri trenta o quaranta milioni di americani avranno pensato più o meno lo stesso, nello stesso momento. Ma quanto alle prime due, davvero, chapeau! Perché la prossima volta non avvisa anche l’Fbi o la Cia? Ne avrebbero avuto bisogno, vista la figura che hanno fatto.
Ma veniamo al punto serio (è che è difficile ritrovarli: ci si perde…), al punto critico, delicato. Lei dice, giustamente, ed è un merito degli Stati Uniti (io li chiamo così), che “la vulnerabilità dell’America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità”. E avrebbe potuto aggiungerci, con molte ragioni, dal suo grado di libertà, dalla democraticità delle sue istituzioni. “Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi-musulmani”. Appunto. A parte il fatto che i musulmani negli Usa non sono ventiquattro milioni, ma sei, e lungi dall’essere tutti arabi, visto che circa il quaranta per cento di essi sono afro-americani, cioè, uscendo da un linguaggio politically correct che lei certamente disprezzerà e forse non chiaro, negri con cittadinanza americana che vivono in quel paese da prima della maggior parte dei bianchi che ci vivono ora, come lei (non so quali sono le sue fonti, ma conosco benissimo le mie, e sono le più accreditate). Ma a parte questo, che è dopo tutto un dettaglio (grande come un terzo della popolazione italiana, ma fa niente…): come osa, allora, scrivere: “Nessuno gli proibisce d’iscriversi a un’Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica”? come, come? Intanto, ho letto bene: cosa che spero cambi? Giusto, introduciamo l’apartheid, la selezione su base religiosa! Ma a parte questo, lo sa che questi musulmani non solo studiano, ma lavorano nei laboratori di chimica e di biologia (e di fisica, e di informatica, e di…, e di… – e, vergogna, alcuni insegnano persino all’università, a dei bianchi ariani americani forse cristiani!), e sono precisamente quelli (gli eroi e i pionieri, dovrei dire, utilizzando il suo aulico linguaggio) che fanno dell’America (io continuo a chiamarli Stati Uniti, ma fa niente) quella che è? Mai sentito parlare di brain drain? Cosa crede, che ci perdano, a farli lavorare? Che lo facciano per (diciamo: solo per) generosità, bontà, apertura mentale, gusto della democrazia? E allora perché secondo lei cercano di lasciar fuori i poveracci non laureati che tutti i giorni tentano di attraversare la green line tra Messico e Stati Uniti? Ma dove vive? A New York, sicura? Ma già, il direttore del giornale cui lei scrive, lo dice, in apertura, che lei “non risponde al telefono, apre la porta di rado, esce assai di meno”. Gli credo sulla parola. Non mi spiego altrimenti tanta distanza dalla realtà.
Nessuno, dicevamo – anzi, diceva – gli proibisce d’iscriversi all’università: “Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757…” Complimenti, ancora una volta, per la finezza di dire figli di Allah come se dicesse figlio di un cane o figlio di puttana: tutti i figli di Dio di questo mondo (Allah vuol dire questo: al-lah, il Dio, equivalente del nostro Iddio) le sono grati.
Profondo, poi, il giudizio sugli alti papaveri dell’intelligence: “Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per cretineria”. La mitica casalinga di Voghera, riferimento ossequiato di ogni giornalista che si rispetti, non avrebbe saputo dir meglio. Ma se era così ovvio, non è strano che il presidente non l’abbia fatto?
Nulla da eccepire, anzi, alle lodi all’efficienza dell’America, al suo patriottismo, al ruolo di Rudolph Giuliani, al fatto che l’America è un paese speciale, e quant’altro. Ci mancherebbe. Lo penso anch’io, si figuri. Fa un po’ sorridere, solo, in qualche punto, la sua comparazione in negativo – che, esterofilo come quasi tutti gli italiani, e forse per provincialismo come quasi tutti, tenderei a condividere – con l’Italia: “Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia”. In America, invece… Ma non l’hanno inventata loro la campagna elettorale all’ultimo sangue? Ha presente l’ultima? E i presidenti assassinati, e quelli feriti: erano stati i fondamentalisti islamici? Ma questo, davvero, è uno stupido, secondario dettaglio. Torniamo all’islam
Lei ci mette in guardia. “Con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenocché il resto dell’Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po’ e gli dia una mano”. A chi, scusi? All’America? Ma se Bush si è scomodato a togliersi gli stivali e il cappello da cowboy nella moschea di Washington per dire che la sua non è una guerra all’islam, bacchettando perfino il fido alleato e amico Berlusconi, quello che è d’accordo con lui prima ancora di sapere se lui è d’accordo con se stesso… Lei ci dice: “sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente cioè d’apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione [appunto, signora: non si rende conto che forse è persino peggio? Anche l’ebraismo è una religione, non una razza: non le dice niente? E chi voleva smarcarsi dalla rozzezza del discorso razzista, ma detestava comunque gli ebrei, usava per l’appunto l’argomento religioso, apparentemente più pulito, ma ancora più insinuante. Signora, ma che dice?, ndr]), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia”. Ah, sì? A me veramente, a sentir lei, sembrava una Crociata per dritto, di quelle normali…
“Abituati come siete al doppio gioco, accecati dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse [forse? Vuol dirci allora subdolamente che in realtà ce l’hanno dichiarata tutti? Questa si chiama paranoia, signora mia…, ndr], comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà”. Ecc. ecc. Anzi, continuiamo: non vorrei essere accusato di citare parzialmente: “All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà”. Ecc. ecc., perché comunque il succo è quello, ed è inutile ricopiare tutto.
Ci provo, pacatamente. E’ del tutto evidente, signora mia, che ci siano degli sciagurati, armati e pericolosi, che hanno dichiarato un (la parola, scusi la pedanteria, in arabo è maschile) Jihad contro l’occidente, che vogliono colpire il nostro modello di vita e noi stessi, che non hanno nessuna pietà per gli incolpevoli, che ci considerano così meno che uomini e donne che non hanno nessuna preoccupazione di ammazzarne. Sarebbe difficilmente eccepibile, dopo quello che è successo, non le pare? Immagino perciò che lo pensino tutti. E non c’è dubbio che questo sia un pericolo grave, gravissimo, terribile. E che dobbiamo reagire: con forza, con durezza, con determinazione. Ma con intelligenza, anche (e non mi azzardo neanche a dire: con giustizia). Cosa c’entra però tutto questo con il dichiarare un contro-jihad culturale nei confronti dell’islam? Gliela butto lì: negli Stati Uniti ci sono alcune migliaia di disgraziati, armati e pericolosi, che hanno dichiarato guerra, per tutt’altri motivi, al medesimo sistema, magari in nome di un conservatorismo bianco, razzista, che rivendica una ispirazione e un fondamento cristiano (Waco, Oklahoma City, Ku-Klux-Klan, tanto per dire dei nomi più o meno a caso). Combattiamoli. Con durezza. Ma dovremmo per questo dichiarare guerra al cristianesimo? O solo a quelli che l’hanno capito male? Potrà spiacerle, perché non si accorda con il suo quadro in bianco e nero, ma per l’islam è uguale. Un altro esempio: ci sono dei pazzi, armati e pericolosi, e non meno sanguinari, che in Israele (e anche in America) pensano che tutti gli arabi, o i palestinesi, o i musulmani (di solito, non fanno sottili differenze, anche se ce ne sono) siano dei sottouomini che meritano di morire, la cui vita non vale nulla, che sono arrivati a sterminare decine di musulmani proprio mentre pregavano sulla tomba di un comune patriarca (il nome di Baruch Goldstein, non più santo di Osama Bin Laden, le dice niente? Ma ce ne sono anche nelle scuole religiose e nell’esercito, di uno stato che pure è democratico, di questi individui…), che sono arrivati ad uccidere il loro primo ministro (conosce il nome di Ytzhak Rabin, e quello di Igal Amir, il suo assassino? E sa che come lui ce ne sono tanti, che lo considerano – il secondo – niente meno, un santo, come Goldstein, e come alcuni musulmani considerano Bin Laden?), colpevole di voler trattare una pace anziché continuare a sterminarsi a vicenda? Dovremmo per questo chiamare al jihad contro l’ebraismo, o solo combattere, con durezza, con determinazione, quelli che l’hanno capito male, che lo tradiscono? E, tanto perché il suo ateismo un po’ rozzo e molto manicheo non la spinga a dire che questi sono frutti impazziti delle sole religioni, le ricordo che in questo momento, sulla terra, ci sono migliaia di persone che farebbero lo stesso, e lo fanno, e commettono stragi, e commissionano attentati, e stuprano, e distruggono, in nome della religione, sì, ma anche della razza, della tribù, della nazione, della patria, dell’ideologia, della fratellanza mafiosa, o del denaro, o semplicemente di se stessi. Dobbiamo colpire loro. Ma stiamo attenti con le generalizzazioni. Non si rende conto, poco gentile e molto arrabbiata signora, che l’islam, per dire, è quella stessa religione che fa invece vivere in pace e nel timor di Dio centinaia di milioni di persone? E lo stesso si può dire del cristianesimo, dell’ebraismo, dell’hinduismo, del buddhismo, o di quello che vuole lei? Non la sfiora nemmeno il dubbio – a me sì, spesso – che se non ci fosse l’islam queste persone potrebbero essere non migliori ma peggiori? Anche se gli portassimo la nostra idea di libertà e i nostri beni di consumo che del resto, per lo più, non si potrebbero permettere, né l’una né gli altri?
“Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo sono”. Signora, stia pure tranquillamente immersa nei suoi pregiudizi, tanto gratificanti per la sua superiorità morale e culturale. Ma non ci ammorbi, non ci chiami a guerre, le sue, che non abbiamo nessuna intenzione di combattere. Perché, semplicemente, non sono in corso (non ancora, almeno: anche se non so come sarà il futuro, se molti finiranno per condividere le sue opinioni). In caso, mi dichiaro obiettore di coscienza fin d’ora. Posso anche decidere di combattere una guerra, per esempio contro la stupidità: ma mi riuscirebbe difficile combatterla dalla parte degli stupidi (che, come spesso succede, si ritengono più intelligenti degli altri: anzi, superiori, come è stato detto in questi giorni). Comunque, si tranquillizzi. Nessuno, spero, vuole ammazzarla, tanto meno perché è atea. Muoiono quasi solo gli innocenti, quelli che non c’entrano niente, nelle guerre, come negli attentati terroristici: non se ne è accorta?
“Da vent’anni, lo dico, da vent’anni”. Un’altra che ‘ve l’avevo detto, io’. Anche se le do’ ragione su quello che dice dell’Afghanistan di vent’anni fa, che stava meglio sotto i sovietici. Ma, lo diceva lei prima, a proposito degli americani, che la libertà è insopprimibile. Loro non ci hanno voluto stare comunque, sotto i sovietici. Probabilmente non vogliono stare neanche sotto i talebani. Non le viene in mente che quello che succede è colpa di un governo, non di una popolazione? E chissà, magari da questa storia potrebbe venirne fuori un Afghanistan migliore, più libero: qualcuno, almeno, ci guadagnerebbe.
Lei ha ragione a dirci che quello che è successo all’America riguarda anche l’Europa, che “l’America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi…” Mi pare che sia appunto quello che sta succedendo. Lo sappiamo bene che “se crolla l’America, crolla l’Europa. Crolla l’Occidente, crolliamo noi”. Ha ragione. Ma cosa le fa pensare che non ce ne siamo accorti? Non ha visto la prontezza della risposta dei governi europei, della Nato, e anche di tanti altri paesi del mondo, non occidentali, persino musulmani, che hanno meno da guadagnarci?
Ma non c’è bisogno di incitarci con quella triviale leggerezza che la trascina. “E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella”. A parte che un po’ di latte di cammella in più e un po’ di cognacchino in meno non potrebbe che farci bene (e a scanso di equivoci, glielo dice un enofilo dichiarato e non pentito), da dove le viene questo (quest’altro: non vada ad accendere la tv proprio adesso, per carità…) presentimento? Non le sembra un ridicolo terrorismo psicologico? Ma dove li vede i segni del trionfo del latte di cammella e del chador? Da noi, per giunta? E quanto alle campane, se abbiamo smesso di suonarle, ben prima che sapessimo cosa significava la parola muezzin, perché in città disturbano, beh, guardiamoci dentro, non fuori. Si guardi dentro anche lei, incidentalmente.
Per farci capire l’importanza del suo discorso, così prosegue: “Blair lo ha capito. E’ venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza militare”. Sono d’accordo. Ma non si accorge che questo non è in contraddizione con altre cose che ha fatto Blair? Gliene racconto qualcuna: lungi dal chiamare al jihad, Blair ha incontrato ripetutamente i responsabili musulmani del Regno Unito; si figuri che orrore: ha nominato la bellezza di quattro Lords musulmani che oggi hanno un seggio in quel venerato tempio della democrazia occidentale, sulle rive del Tamigi, che è la House of Lords (e, lo sa?, hanno ottenuto di poter giurare fedeltà alle leggi dello stato e al regno di sua maestà sul Corano anziché sulla Bibbia, e oggi nello stesso edificio c’è anche una piccola sala di preghiera musulmana, oltre che una cappella e una sinagoga); pensi un po’: ha addirittura lasciato che i musulmani festeggiassero la fine del digiuno di Ramadan in Downing Street, poi è andato a congratularsi con loro, e quando questi gli hanno offerto in dono un Corano ha risposto che l’aveva già letto durante le vacanze di Natale. Un doppiogiochista? O non è proprio questo che fa la grandezza dell’Inghilterra? E infatti, posso dirglielo? non si offende? E’ proprio perché Blair, invece di chiamarci al jihad, come fa lei, ha fatto quello che le sto raccontando, e molto altro, che oggi nel Regno Unito la stragrande maggioranza dei musulmani che lì vivono sostiene con convinzione e patriottismo la lotta al terrorismo e a Bin Laden, se non i bombardamenti sull’Afghanistan (sarebbe chiedere troppo, a gente che viene da quelle parti lì: indopakistani, per lo più…). Proprio perché sanno che non è rivolta contro di loro. Non le dice niente, questo? Mi sa che i cattolici d’Inghilterra erano assai meno convinti delle buone ragioni del governo inglese, quando si trattava di Irlanda del Nord: eppure gli anglicani come Blair e chi l’ha preceduto si sono limitati a combattere l’Ira, non hanno chiamato al jihad anticattolico – nemmeno, per dire, quando l’Ira ha messo a ferro e fuoco Londra e fatto saltare per aria Lord Mountbatten, riducendolo in una cenere altrettanto fine di quella in cui sono ridotti i poveri cadaveri delle Twin Towers. Non le dice niente nemmeno questo?
Lei, gentile signora, si rivolge poi all’Italia, la cui situazione conosce così bene. E rimprovera questo tapino di paese perché “il governo non ha individuato quindi arrestato alcun complice o sospetto complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio!”. Beh, lasci che per una volta sia io ad assolvere il cavaliere (perdio!). Mi consenta di togliermi questa soddisfazione, così rara. L’ha fatto. Sono fiero di dirglielo. Come sono fiero di dirle che questo è successo persino prima dell’attentato alle Twin Towers. E persino da parte del governo che ha preceduto quello del cavaliere, tanto per non accusare a vanvera il centro-sinistra di aver coperto il terrorismo islamico. Sono state fatte fior di operazioni. Tanto che anche gli arresti effettuati in Spagna e in Francia in questi giorni nascono, pare, da un’inchiesta iniziata in Italia. Basta leggersi i giornali di ieri e dell’altro ieri. Ma, detto questo, a che titolo, dall’alto di quali informazioni, si permette di dire che invece “in Italia dove le moschee di Milano di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la cupola di San Pietro, nessuno. Zero”. Scommetto che non c’è mai stata, in queste moschee. Scommetto che non ne conosce neanche l’indirizzo. Ma questo è il meno. Scommetto che la sua è solo un’idea, senza uno straccio di pezza d’appoggio. E allora, ripeto, come si permette? Con che autorità? Ma sono sicuro che lei, che è una grande giornalista, un fine segugio, delle piste le ha di certo, dei suggerimenti concreti, delle indicazioni. Perché, signora mia, non le passa ai magistrati le sue certezze? Timore che le ridano dietro? Magari anche gli stessi che delle indagini contro il terrorismo, e non è giusto non ricordarli, le hanno fatte, invece? Ma indagini, serie, non congetture. Il Blair che lei ha evocato non la farebbe mai, né la direbbe mai, una sciocchezza del genere. Anche se non è meno fermo di lei nella lotta al terrorismo e nella solidarietà all’America: anzi, se mi permette, sospetto che lo sia di più – con i fatti, come dice lei.
Lei, per sua fortuna – gliele invidio, queste caterve di certezze, pur così friabili: davvero – sembra aver capito tutto, di cosa siamo, noi italiani non emigrati in America, e noi occidentali non proni alla logica manichea del bianco e del nero: “Masochisti, sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami [il tu immaginiamo si riferisca al direttore del Corriere: e così sappiamo, per usare una terminologia guerresca che noi abbiamo pena ad utilizzare ma che forse piacerà alla gentile signora, chi è il mandante di questa guerra culturale, ndr] Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture”. Non ho più niente da dire, nulla da aggiungere. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, ed è inutile discutere su questo piano. Siamo al livello delle sortite del cavaliere, che non sono in nulla diverse, nemmeno peggiori (complimenti, cavaliere: è al livello di una scrittrice tradotta in tutto il mondo, una che nel tempo libero intervista la storia. A proposito, l’ha intervistata?). E la riflessione si fa in silenzio, nel chiuso delle stanze, non nei libelli. Non tenterò nemmeno di convincere nessuno. Mi limiterò a dire che, sulle nostre carte geografiche, una volta si scriveva hic sunt leones, per indicare le terre incognite (incognite per noi). Poi, con gli anni, con i secoli, si è scoperto che non c’erano solo i leoni. Che c’erano persino delle culture – oso dirlo, mi perdoni, se può. Aggiungo perfino, suprema blasfemia, che non c’è niente che mi farebbe più paura di un mondo composto solo di occidentali, tutto occidentalizzato, un mondo fatto di persone tutte e solo uguali a noi (noi chi, poi, esattamente?). Non credo, francamente, che sarebbe un mondo migliore. Credo che sia per le culture, e persino per le religioni, come è per la biodiversità. E’ vero che i tonni sono buoni da mangiare, e gli squali attaccano l’uomo, ma se l’immagina un mare abitato solo da tonni? E se in aria i fagiani sono belli da sparargli addosso (a qualcuno piacciono solo per quello), e le mosche danno noia (ma forse servono anche a qualcosa, solo che siccome danno noia a noi, e noi tendiamo sempre a metterci al centro del mondo, esercizio di cui lei, signora, è un’eccellente esempio…), se l’immagina un cielo abitato solo da fagiani? E una terra abitata solo da vacche, che sono utili, perché si mangiano e danno il latte, e di maiali, naturalmente, non foss’altro che per far dispetto all’islam? Di più, signora: non solo credo che la diversità sia utile, e bella persino – credo che questa diversità abbia un senso. E mi spaventano le certezze di quelli che appartengono a una cultura che dicono comune di noi tutti civilizzati occidentali (ancora una volta: noi chi? Per fortuna so che questa omogeneità non esiste…), quelli insomma che dicono noi includendo me (faccio obiezione di coscienza anche a questo): questo, signora mia, mi fa paura. Ah, a proposito, giusto per ricordarglielo: tra quelli che pensano che tutti dovrebbero essere come lui, e che certe religioni, ma non la sua, sono opera del demonio, c’è anche Bin Laden. Se ne è accorta, signora? Le sue opinioni e la sua cultura sono tutte diverse da quelle di Bin Laden. Ma il suo sistema di pensiero, da questo punto di vista, è sorprendente simile. Ci rifletta, se può. Anche se c’è una differenza, e cruciale, tutta a suo favore: Bin Laden passa dalle parole ai fatti, lei no. Anche se forse altri, confortati dalle sue parole, lo faranno per lei. Magari non così alla grande: ma anche una piccola violenza è comunque una violenza in più, buttata in un mondo che di tutto avrebbe bisogno tranne che di questo.
Lo so anch’io che dietro alla nostra cultura c’è la Grecia, Omero, Aristotele, Fidia, l’antica Roma, e il suo straordinario sistema di leggi, e poi Cristo (grazie per averlo ricordato: molti lo dimenticano, quando fanno l’elenco…), Galileo, il Rinascimento, Michelangelo, Bach, Beethoven, la Scienza. Per inciso: lei ricorda, con toccante riferimento personale, che lei è “ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza: non quella di Maometto”. Mi perdoni, ma il paragone è stupido: non è neanche la scienza di Cristo, se è per quello, e nemmeno di Buddha. Ma dia un’occhiata a una storia della scienza, scritta da un’occidentale. E anche a una storia della medicina. Forse avrà modo di ricredersi, sul fatto che gli scienziati ‘di là’ – non voglio neanche dire musulmani, anche se lo erano – non c’entrano proprio niente, con questa storia (con gli strumenti che usava e le idee che aveva Galileo, per dire, visto che lo tira in ballo), e anche col fatto che lei è ancora viva. Non voglio proprio mettermi a fare l’elenco, anche se lo conosco. Quello che mi domando è: cosa dimostra? Cosa dimostra davvero, se non che i sapienti, i saggi e gli scienziati di un tempo, di qualsiasi latitudine – ci includa per esempio cristiani ebrei e musulmani dei secoli che furono – sapevano prendere, rubare il meglio della grandezza altrui, mentre noi oggi ci pasciamo della nostra, abbiamo perso la capacità di guardare al di là del nostro naso, stando almeno a scritti come il suo? E a proposito, tanto per essere crudi, visto che è lei a tirare in ballo l’argomento: sarei pronto a scommetterci una bella cifra (parola, tra le tante, che ci viene dall’arabo, ma lasciamo perdere…) che tra le persone che oggi lavorano nei laboratori che producono le medicine che la tengono viva ci sono anche persone di religione islamica. Ma anche questo non dimostra nulla, nemmeno a favore dell’islam. Il problema è che l’islam, semplicemente, non c’entra nulla con questo discorso, come non c’entra il cristianesimo o l’ateismo. Questa è la grandezza della scienza. E, se vuole, dell’America: saper integrare le differenze lasciandole tali, saperle far collaborare. Perché vuole rovinarci questo splendido spettacolo?
Mi viene da piangere, a dover commentare le sue ‘argomentazioni’ a proposito del Corano. Ma sento di doverlo fare, per quello che posso. E’ il bello dell’occidente, che ci siano opinioni diverse a confronto, anche se qualcuno preferirebbe il pensiero unico, così tranquillizante, così più facile da gestire. Per cui lo farò: limitandomi a dire che, se lo legge così, in questo modo preconcetto, superficiale e polemico, può sbatter via tutti i libri sacri del mondo, che costituiscono la sua maggiore ricchezza culturale, quella cui attingono quotidianamente miliardi di uomini, una ricchezza viva, dunque, non morta: non solo il Corano, quindi, ma la Torah, i Vangeli, le Upanishad, la Bhagavad-Gita, su su fino, perché no, ai testi Baha’i e al libro di Mormon (a proposito, signora: anche i Mormoni sono poligami, e le donne mormone così “minchione”, come dice lei con la consueta eleganza, “da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli” – i Mormoni, per la cronaca, ne possono avere anche di più…: ma non è un buon motivo per dichiarare guerra allo Utah, che mi pare sia negli Stati Uniti, anzi uno degli Stati Uniti. E infatti gli americani se ne guardano bene). Per inciso, argomento cui forse sarà sensibile: letti in questa maniera (ricordo: preconcetta, superficiale e polemica) tutti i libri troveremmo modo di buttarli a mare, non solo quelli sacri – anche, persino, i suoi.
Lei ci dice dunque tutto il male possibile dell’islam, condito da una dose da cavallo di fiele, per dirci che, se le loro donne sono così minchione, e i loro uomini così grulli (così dolce questo bell’aggettivo toscano, così affettuoso, in fondo, e tenero, che stona, in mezzo agli altri), peggio per loro: “Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto di libertà, io”. Ah, meno male. Questo ci tranquillizza. Anche se sorge spontanea la domanda: si riferisce anche a quella degli altri? “Ma se pretendono d’imporre le stesse cose a casa mia… Lo pretendono”. Ebbene, è proprio qui il punto: chi lo pretende? Osama Bin Laden, appunto, come lei ricorda: e infatti gli stiamo facendo una giusta guerra, che poi è semplicemente autodifesa. Ma lei ci dice: “Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden. Perché gli Usama bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi [l’Afghanistan non è arabo, signora…, ndr]. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della tecnologia”. Sembra un film di Carpenter, signora. Gli alieni sono dappertutto. Ma lei non stava facendo un discorso culturale? Da dove le viene questa paranoia? Dove li vede, tutti questi nemici, lei che sta tutto il giorno in casa (o è il contrario: sta in casa proprio perché vede nemici dappertutto)? Se lo lasci dire, signora: ma che ne sa? Ci vada a parlare, a mangiare la pizza, si documenti insomma: è il minimo che si possa chiedere a una che scrive. Perché se no il suo discorso è esattamente uguale e speculare – e lo è, è proprio questo – a quello di coloro che vedono ebrei dappertutto, complotti sionisti dappertutto, o comunisti dappertutto, o fanatici musulmani dappertutto. E’ uguale. E direi che sono questi i nemici più pericolosi dell’occidente che, invece, amo io. E mi dispiace di dover annoverare anche lei nella truppa, insieme ai neonazisti della fratellanza bianca, al Ku-Klux-Klan, agli attentatori di Oklahoma City e, naturalmente, a Osama Bin Laden. Ha proprio ragione, signora: il nemico è tra noi. Peggio, è dentro di noi – è noi. Lei dice: “Trattare con loro è impossibile. Ragionarci impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Appartengo alla categoria degli illusi. Ma, le assicuro, neanche trattare e ragionare con quelli come lei è uno scherzo. Anzi, ha proprio ragione: è impensabile. Devo solo sperare che non diventiate maggioranza. E ringraziare Dio perché lei non è il presidente neanche di un bruscolino.
Poi ha tutte le ragioni di sacramentare contro gli idioti, o gli assassini, e i carnefici, che ha incontrato nella sua avventurosa vita. Che siano gli imbecilli dell’ambasciata iraniana di cui lei parla, o quelli ancora più imbecilli che incontrò a Teheran ai tempi di Khomeini, o i fanatici che ha visto all’opera in Bangladesh. Ma ancora una volta, non si fa così la storia, e tanto meno la storia delle culture. Per dire, Khomeini è morto: non gliel’hanno detto? E le stesse cose, o peggio, le facevano Pol Pot, o Mao, che non erano musulmani, o magari Pinochet, per tutta la sua vita di onesto dittatore, e anche dopo, convinto di essere un buon diavolo di cristiano – dunque, che cosa dimostra? Lei cita poi un mostruoso episodio accaduto in Bangladesh, dove al grido di “Allah akbar” le folle giustiziavano e calpestavano dei poveri disgraziati, colpevoli ai loro occhi di immoralità. E’ terribile, ed è doveroso denunciarlo, e fare in modo che non accada più, anche. Fa bene a farlo. Ma lei fa il paragone solo con le orde del Colosseo di duemila anni fa. Ne potrebbe fare di più recenti. In Rwanda si sono allegramente massacrate tra di loro un milione di persone, orrendamente mutilate a colpi di machete, bruciate vive, pensi un po’, dentro le chiese, stuprate: le sembrerà strano, ma non c’era, né tra i carnefici né tra le vittime, nemmeno un musulmano. E, anzi, in questo momento, tra quelli accusati di strage e incitamento alla violenza c’è pure un prete. Cosa dimostra, questo? Che l’islam è una religione di angioletti? No di certo. Che il cristianesimo è una religione di perfidi assassini? No di certo. Cosa dimostra, allora? Appunto, nulla. Come i suoi discorsi sull’islam.
Fine del discorso? Purtroppo no. Il peggio, in certo qual modo, deve ancor venire. Perché lei adesso passa da un discorso sull’islam a un discorso sull’immigrazione. Velenoso. Vergognoso. Indegno. Perché fa uno slittamento di significati illegittimo anche concettualmente. Posso dirlo? Non c’entrano niente: per la semplice ragione che non sono immigrati perché musulmani, e nemmeno il contrario. Sennò cosa dovremmo dire, che so, delle puttane nigeriane: che lo sono perché animiste o cristiane o tutt’e due? e quelle slave lo sono perché ortodosse? Che pena, signora Fallaci. Per lei.
Vediamolo, il suo sapiente discorso. Lei ci racconta di un episodio indegno. Che, manco a dirlo, l’ha vista protagonista nella sua soluzione. Lei ci racconta di quando un anno fa un gruppo di somali eresse una tenda, che rimase sul posto per tre mesi, in pieno centro di Firenze, in piazza San Giovanni, tra l’Arcivescovado e il Battistero, per protestare contro il nostro ministero degli esteri che non riteneva validi i passaporti concessi dopo il ’91. Guardi, signora Fallaci, voglio entrare nel merito. Per dirle che sono d’accordo con lei. Per dirle che è stata una vergogna, dal punto di vista estetico, della sporcizia, del degrado urbano, della convivenza civile. Ma sbaglia ancora una volta bersaglio. Quella tenda è ‘musulmana’ come io sono mio zio: l’islam c’entra meno che nulla. Non l’hanno eretta in quanto musulmani, anche se musulmani, e nostri ex-colonizzati, lo erano, e forse qualche motivo di protestare ce l’avevano pure. Lo stesso giornale che la pubblica meritoriamente ricorda che nello stesso posto, in altre occasioni, furono erette altre tre tende, per motivi diversi, e una, per protestare contro la guerra del Golfo, rimase in piedi anche lei per tre mesi.
Non sono in toto contro le tende di protesta. In Italia e in tutto il mondo se ne mettono nelle occasioni più diverse, che siano i radicali in sciopero della fame per una manciata di referendum o i kurdi che protestano contro i massacri nel loro paese. Quest’estate ero a Città del Messico, città che lei conosce assai meglio di me, e non certo un limpido esempio di democrazia: ma mi aveva fatto riflettere che sulla piazza principale della città, dove si affacciano la cattedrale e il palazzo del governo, vi fosse non una tenda, ma addirittura una minitendopoli di campesinos urbanizzati, che protestavano per le condizioni di una qualche favela locale. E mi aveva interrogato lo scoprire che lì c’è sempre qualcuno che protesta per qualcosa. Con le tende. Magari vuol dire che non fa male alla democrazia. Ma lasciamo pure perdere il Messico, che per l’appunto un fulgidissimo esempio di democrazia non è, anche se è tutt’altro che da buttare, rispetto a tanti altri paesi, anche più ricchi e sviluppati e occidentali e ‘superiori’. E torniamo a noi. Le dicevo che tende di protesta se ne erigono dappertutto: ma con rispetto degli altri e decoro. E qui è mancato.
Le do’ ragione: qui è mancato, e lei ha fatto bene a condurre la sua personalissima battaglia contro di essa. Ma, di grazia, cosa diavolo c’entra l’islam? Se fossero stati peruviani cattolici, o indiani hindu, o eritrei copti, che differenza avrebbe fatto? Una l’avrebbe fatta: lei avrebbe intinto la sua penna nello stesso invelenito e velenoso inchiostro? Avrebbe usato dello stesso duro sarcasmo? Per esempio, sul fatto che pisciavano sui muri (una vergogna: sono completamente d’accordo con lei), e le strisciate di urina profanavano i marmi del Battistero: “Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah!”. Cara signora, fesseria per fesseria, perché non ricordare che i negri, dicono, ce l’hanno più lungo, e forse è per quello che arrivavano fin là?
Signora Fallaci, glielo ripeto, sono d’accordo con lei nella sua battaglia contro la sciatteria, la sporcizia, il cattivo gusto. Ma, glielo chiedo di nuovo: cosa c’entra l’islam? Lei dice che anche quando la tenda incriminata fu tolta “fu una vittoria di Pirro. Lo fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella che era la capitale dell’arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano”. A parte la sciocchezza sul Corano (anche la Bibbia proibisce un sacco di cose che, come le risulterà, i cristiani praticano con fervore…), sono d’accordo con lei: ma perché non nomina anche le etnie non musulmane, che pure contribuiscono anche loro? E poi però non la smette di parlare di religioni, e di etnie, per parlare di individui? Cosa c’entra l’islam con tutto questo? Non le viene il dubbio che, se delinquono – quelli che delinquono: altri sono qui per lavorare, e non lo dimenticherei – non lo fanno perché sono musulmani, ma semmai, rovesciando il suo argomento, perché non lo sono abbastanza, magari non lo sono più? Crede che quelli più occidentalizzati, quelli più simili a noi, quelli che alla moschea preferiscono la discoteca (e lungi da me, comunque, demonizzare sia l’una che l’altra), delinquano di meno o di più? Lo stesso, incidentalmente, vale per cattolici, ortodossi e confuciani.
Provo a fare, su questo tema dell’immigrazione, un discorso un po’ più ampio, un po’ più articolato. Sa, di immigrazione me ne sono occupato a lungo (lo sospettava, nevvero? Non potevo essere che un complice…). Ma anche quando me ne occupavo, l’ho sempre fatto rifiutando le posizioni manichee: che, nel mio ambiente, erano quelle buoniste, perché si tendeva a sottovalutare, a non vedere i problemi (la delinquenza, ad esempio), anche a demonizzare l’altro (magari i commercianti, e altri cittadini, che, giustamente, chiedevano ordine, meno delinquenza, più sicurezza, e meno lassismo da parte della politica come della polizia). Una volta, a Milano, tornando da una manifestazione antirazzista, cui era andato per dovere istituzionale, avevo letto, in corso Venezia, una scritta che era tutto un programma: “No al razzismo. Morte al fascio”. Ecco, questo slogan rappresentava per me la quintessenza del modo con cui non volevo occuparmi di immigrazione. Come non mi piaceva la tolleranza per l’illegalità, anche modesta, per dire. Anch’io, come lei, detesto la sciatteria, il disordine, la compiacenza, il blando laissez faire nei confronti di chi non rispetta le leggi. Ma purtroppo, a differenza di lei, non lo attribuisco agli immigrati: li precede, purtroppo. Loro ne sono solo un segno: più visibile, per noi, per il colore diverso, perché sono ‘nuovi’. Ma sono esattamente un segno dello stesso segno delle auto in tripla fila e della maleducazione stradale; dell’abitudine a non rispettare le leggi nemmeno quando si tratta di non fumare nei luoghi pubblici o di mettere la cintura di sicurezza; della sporcizia sulle strade (nella mia civile Milano, ex-capitale morale); del falso in bilancio e delle bustarelle ai giudici (e magari depenalizziamo anche queste ultime, così risolviamo il problema); dei graffiti ovunque, che detesto anziché considerarli un segno di creatività popolare; dei disperati delle periferie che berciano e sputano e bestemmiano peggio di Arafat e non fanno sedere le vecchiette sul tram; dell’inciviltà strisciante del linguaggio; dei motorini e degli scooter al di là di ogni limite di inquinamento acustico e dei vigili che non vedono e non sentono; dei telefonini squillanti anche alla Scala; della volgarità televisiva della fascia pro-tetta e delle letterine sculettanti; del piattume e pattume del varietà e dell’ossequio servile dei giornalisti ai vecchi e nuovi poteri, purché poteri siano; dei politici ignoranti e incolti (alcuni, al governo, ignorano persino l’abc della costituzione su cui giurano, non solo la sintassi e il congiuntivo, come lei giustamente ricorda); della pubblicità invasiva anche sulla tv dei ragazzi, così imparano subito; della pornografia a tutte le ore, immagino per lo stesso motivo; della povertà di spirito degli yuppies e dei loro ridicoli miti, così ben espressi dalle loro riviste patinate, piene come sempre di tette e motori e drammaticamente vuote di pensiero; della mancanza di responsabilità civica delle élites imprenditoriali, che comprano solo squadre di calcio ma mai che facciano mecenatismo sociale; della Gazzetta dello Sport quotidiano più letto, e autorevole… Segni – esattamente come i senegalesi che su uno straccetto vendono false Vuitton e cd taroccati – di un disordine generale, pervasivo, diffuso. Solo che io penso che loro siano un effetto tra i tanti, non una causa, tanto meno la causa. Ma penso anche – forse una delle poche cose su cui sono d’accordo con lei, signora Fallaci, e in contrasto con molti dei miei ambienti di riferimento – che debbano essere combattuti anche loro, insieme agli altri: non come persone, ma se e nella misura in cui non rispettano le leggi. E’ l’unica crociata, quella contro l’inciviltà quotidiana e il mancato rispetto delle leggi e delle regole minime della vita sociale, cui forse mi iscriverei, a patto però di chiamarla con un altro nome. Neanche pulizia mi piace: perché quella etnica è troppo recente, e ha un pessimo suono. Anche se era fatta da buoni cristiani. E detesto quelli, talebani o occidentali, che mi dicono che sarebbe ora di fare pulizia: di solito, sono quelli di cui io farei pulizia.
Cosa c’entra, tutto questo, con l’islam, Santa Giovanna d’Arco(re) Fallaci? (mi scusi la triviale battuta: ma è perché il cavaliere ha detto che, se l’avesse letta prima, si sarebbe ispirato a lei nel suo ‘storico’ e indimenticabile discorso sulla civiltà superiore). Non ha, anche lei, come tanti altri, nonostante la sua grande intelligenza, questa volta, sbagliato mira, gentile signora? Almeno: è proprio sicura? Al cento per cento? Io no, non lo sono. Forse è proprio questa la differenza tra lei e me: lei sa. “Tra le cose sicure la più sicura è il dubbio”, diceva quel disfattista di Bertolt Brecht. Si figuri, questa frase me la sono appuntata su un quadernino da ragazzetto, quando l’ho letta: e da allora non l’ho più dimenticata. Non la voglio più dimenticare. Soprattutto oggi che tanti, troppi, anche lei, sono così pieni di certezze, si sentono così ‘migliori’ (pardon: superiori).
Peccato, per tornare al dunque, che tutto questo discorso sulla delinquenza legata al mondo dell’immigrazione non c’entri nulla con l’islam. Anzi. Sarebbe come ricondurre il cartello di Medellin al cattolicesimo, i magnaccia della prostituzione slava e la mafia russa all’ortodossia, la yakuza giapponese allo scintoismo, e il racket cinese al confucianesimo (o magari al maoismo, a scelta). Cosa c’entra, dunque, l’islam?
Bontà sua, ammette che alcuni, solo alcuni però, lavorano, seppure lo ammette a modo suo: “Anziché figli-di-Allah in Italia li chiamano ‘lavoratori stranieri’. Oppure ‘mano-d’opera-di-cui-v’è-bisogno’”. Signora, li chiamano così anche nella sua amata America: e hanno ragione. E poi, non c’è alternativa tra le due cose. Lo sa che tanti imprenditori, nel ricco Nordest, ben contenti di avere mano d’opera di religione islamica, obbediente e lavoratrice, gli fanno pure la sala di preghiera, e non danno loro il prosciuttino a mensa, per rispetto? Eccessivo, secondo lei? Comunque, anche qui c’è un punto su cui sono d’accordo con lei. Quando dice che questo non basta. Che quella economica non è una buona giustificazione dell’immigrazione. Sono contrario anch’io all’uso e all’abuso di questo argomento. L’unico che metta d’accordo grandi imprenditori e piccoli padroncini magari leghisti, sindacalisti ex-comunisti e volontariato cattolico – il che è sospetto. E’ quasi sempre sospetto quando il sano egoismo del mercato e l’altruismo magari anti-mercato vanno d’accordo: vuol dire che o uno dei due è riuscito a fregare l’altro, o che tutti e due hanno capito male, o che hanno capito benissimo ma tanto sanno che il prezzo lo pagherà qualcun altro. E infatti è precisamente quello che avviene: il prezzo lo paga la società, cioè noi, per i bassi salari, l’evasione contributiva e fiscale, il dumping sociale promosso da questa ‘singolare convergenza di interessi’ (chiedo scusa se prendo in prestito un’espressione cara al presidente del consiglio, anche se lui la usava a proposito di musulmani e anti-globalisti).
Lei parla di quelli che non lavorano, quelli che bighellonano e deturpano i nostri monumenti, e che poi pregano cinque volte al giorno. Sicura che siano gli stessi? E se anche lo fossero, non è meglio che quelle cinque volte, per pochi minuti, preghino il loro Dio, smettendola di bighellonare e di deturpare i monumenti almeno in quel frangente? Pensa che se non pregassero più, o se pregassero il nostro, di Dio, bighellonerebbero di meno?
Di altre cose, invece (anche), si dovrebbe vergognare. “Se sono tanto poveri, chi glieli dà i soldi per il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia? (…) Non glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo d’avviare una conquista che non è solo una conquista di anime, è anche una conquista di territorio?” Te pareva. A parte che se fosse così Bush sarebbe felice: avrebbe trovato il modo di prosciugare il pur cospicuo patrimonio di Bin Laden. Ma lo sa che una argomentazione così non l’aveva mai pensata nemmeno il disonorevole Borghezio? Lei mi dirà: e chi è? Lei è fortunata, signora, a stare a New York. Glielo dico io, chi è Borghezio: è quello che dice immigrati clandestini = terroristi. Ma questa non l’aveva ancora pensata. Gli ha dato un’idea (che non è difficile, peraltro, se lo lasci dire). Però, signora mia, si lasci dire anche questo: lo sa che le riderebbero dietro tutti i poliziotti che si occupano di queste cose: anche quello, suo amico, che avrebbe fatto sparire la famosa tenda di Firenze? (episodio che, nella epicità con cui l’ha raccontato, mi ricorda tanto “il famoso disastro del carrello del thé del ‘64” dell’impiegato contabile Bristow della Chester-Perry. Ma suppongo che lei non bazzichi questo tipo di letteratura inferiore: cartoons, puah!).
Ma non è ancora finita. Deve essersi resa conto che l’ha detta grossa, con i soldi di Bin Laden per gli emigranti. E allora aggiunge: “Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince. Anche se i nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c’è nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno che vuole mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio”. Ma per carità, signora: se la disturba, li cacciamo via. C’è altro che possiamo fare per lei? “E sbaglia chi questa faccenda la prende alla leggera”: mi domando se si riferisce all’immigrazione, o al fatto che lei è disturbata, a disagio. Per carità, signora, se possiamo fare qualcosa: che so, la disturbano i negri in genere, anche non musulmani, i terroni, i clericali, le automobili di colore scuro, i cani da passeggio, gli uomini col cappello: basta che ce lo dica, e li deportiamo tutti – non sia mai che lei dovesse sentirsi a disagio. Gradisce anche un thé, per caso? Latte o limone?
Sono d’accordo con lei, invece (è strano, nevvero?) quando dice che l’immigrazione di oggi in Europa è diversa da quella negli Stati Uniti del secolo scorso. Peccato che sia un’ovvietà che hanno già scritto cento e cento libri sull’immigrazione, al di qua e al di là dell’Atlantico. Ma il fatto che sia un fenomeno nuovo non ne fa di necessità un fenomeno catastrofico. Forse solo un fenomeno da governare e gestire in maniera diversa. Non pensa? Anche il computer è nuovo, anche internet, anche gli investimenti in Borsa in tempo reale e il turismo di massa, anche il movimento gay e le coppie di fatto, la carta di credito e i seni al silicone, il compact disc e le spedizioni su Marte, il cellulare e l’invecchiamento della popolazione: e allora? E si stava meglio quando si stava peggio, e non ci sono più le mezze stagioni… il livello è questo, signora mia: se ne è accorta?
La clandestinità è un problema, sono d’accordo con lei. Va governato, risolto, e si è fatto troppo poco. Ma a parte il fatto che almeno metà della soluzione andrebbe trovata in Italia, impedendo le assunzioni in nero e l’evasione fiscale, tanto per dire (e questo non lo vogliono nemmeno quelli che non vogliono l’immigrazione: e glielo spieghi lei, che è tanto convincente, che c’è una contraddizione…), qui c’è proprio un problema di sguardo. Ognuno vede ciò che vuol vedere. Lei dice: “Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno scorso i clandestini riempiron le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi”. Se proprio dobbiamo ragionare per slogan, che non è ragionare, posso anche raccontargliela diversamente. E dirle che io invece non dimenticherò mai quelle code in questura di centinaia di miti disgraziati, trattati come animali, certo non come cittadini, sotto la pioggia o il sole cocente, non una sedia, non una parvenza di organizzazione, non un’informazione esatta, per cui dovevi ritornare il giorno dopo: e butta via un altro giorno di lavoro, che tanto non sei nessuno. Né che a quei cortei tanta gente cantava. C’erano anche gli scout, e le suore, oltre che i giovani di Rifondazione, e i pugni alzati magari erano i loro, e certo quando si grida uno slogan la faccia si distorce, il gesto non è così fine come quando si porta in giro un barboncino al guinzaglio, e le labbra non sono così sottili e composte come quando si fuma una sigaretta col bocchino. Ma a parte questo, a differenza di lei, non penso che i cortei siano necessariamente il male assoluto, credo che siano uno dei modi in cui si pratica, e si impara anche, la democrazia: forse non il migliore, forse non il più efficace, ma è anche così, si stupirà, che ci si integra in un paese.
Parla dell’identità intrisa di cristianesimo dell’Italia. E chi la nega? Ma davvero è messa in crisi da quei quattro musulmani? La sua amata America l’ha forse persa? E se sì, è forse colpa dei sei (non ventiquattro) milioni di musulmani? Lo dice anche lei, senza accorgersene, che si può appartenere ad una cultura anche in modo soft: “Ecco: vedi? Ho scritto un’altra volta ‘perdio’. Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d’esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là”. Ammesso e non concesso che questo significhi avere una cultura cattolica, sa quanti musulmani conosco che sono musulmani esattamente come lei è cattolica: inshallah, ma’shallah, hamdulillah, salam aleikum, e poco altro. E, mi consenta: non sono necessariamente questi i migliori.
E poi, torniamo al suo profondo argomentare: “Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che mi ha imposto [e via con la solita argomentazione dell’inquisizione, tanto per essere originali, ndr] (…), sebbene coi preti io non ci vada proprio d’accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore”. Come direbbe Charlie Brown, tanto per stare in tema: “oddio”. La musica delle campane le piace tanto… Lo sa che la sua concezione dell’identità cattolica sta al cristianesimo come un Bacio Perugina sta all’amore? Anche a me la musica delle campane mi accarezza il cuore: ma poi, perdio (tanto per citarla, e farle vedere che un’identità cattolica ce l’ho anch’io), mi sa citare un solo caso in cui, in Europa, la musica delle campane non si sente più perché i musulmani l’hanno impedito? Avanti: dove? E allora, di che stiamo parlando?
“E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe”. Ammettiamolo. Anche a me le cattedrali piacciono tanto: anche se questo non esclude che mi piacciano anche alcune moschee e alcune sinagoghe (sarò un relativista culturale?). Ma le sembra un discorso? Lei cita le sinagoghe, per dire che le nostre chiese sono più belle. Tanto meglio per noi: ma le sembrerebbe un motivo per mettersi a lanciar crociate contro gli ebrei? Lo stesso dice delle chiese protestanti e delle loro funzioni, così noiose, senza immagini e incenso. Ben detto: cacciamo anche loro? Già che ci siamo… Come si dice: tolto il dente, tolto il dolore, no?
Forse non ci farebbe male, a tutti, un po’ più di umiltà. Sarebbe bello che anche questa virtù (così evangelica, tanto per restare in tema), di cui potremmo andare così fieri (anche questo uno dei tanti paradossi evangelici: andare fieri dell’umiltà; come quell’altra barzelletta che gli ultimi saranno i primi…), facesse parte della nostra eredità culturale, di quello che tanti oggi chiamano il nostro DNA culturale (e sbagliano: se lo fosse, com’è che io e lei non ce l’abbiamo uguale?). Persino lei, atea, vanta le sue radici cristiane (ma a lei, come ad altri, del cristianesimo piace altro: le belle cattedrali di pietra, le Madonne di Raffaello, il suono delle campane: ma Cristo, molto meno – così plebeo, così poco inquadrabile: uno che forse, oggi, ci andrebbe a cena, con gli immigrati musulmani…). Beh, mi dispiace, ma il ‘non possiamo non dirci cristiani’ così, alla buona, è un’idiozia. Il cristianesimo non è soltanto, non è neanche primariamente, le chiese romaniche, i cristi e le madonne della pittura rinascimentale, la simbolica di quando era bambina, che tanto, e giustamente, la intenerisce. E’ anche, è soprattutto, anzi forse è solamente una persona di cui lei pare disinteressarsi alquanto (è dal nome di questa persona, Cristo, che viene la parola…), che portava un messaggio d’amore, di giustizia e di riscatto: e anche una spada – che però non divide tra i cristiani e gli altri (troppo facile), ma dentro le famiglie, anche quelle culturali e religiose, tra fratello e fratello, tra padre e figlio e madre e figlia, dentro anche ciascuno di noi. Proprio come il jihad… Ed è questo a cui servono le chiese romaniche e la pittura rinascimentale: a ripetere, a trasmettere, a incarnare questo messaggio, che è anche un messaggio di equilibrio e di armonia, in una parola di bellezza. Ed è per questo che sono belle. E incidentalmente, credo che quando sono solo belle non lo siano più: come la Cappella Sistina, e tante altre – è un museo, non un luogo di preghiera: si visita, ma senza vera emozione. Bello ma senz’anima, se viene vissuto come un museo, da guardare. Il cristianesimo non si guarda, si vive. Non è lì, in quelle pietre, in quelle figure, che abita il cristianesimo: lì, semmai, ci abita la cristianità. Che, spesso, il cristianesimo l’ha tradito (proprio come tanti musulmani, anche autorevoli, tradiscono l’islam). Ma a lei, atea, tutto ciò sembra interessare assai meno. Nelle sue invettive non ce n’è traccia, di questo cristianesimo. Lei è libera di capire il cristianesimo come crede, e di farsene paladina a modo suo. Solo sappia che altri ne hanno tutt’altra idea. E non sono per questo meno cristiani di lei: e nemmeno musulmani…
“Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un’ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori”. Forse se la nostra identità fosse così precisa, non staremmo lì ad arrovellarci tanto per definire che cos’è. Ma a parte questo: sicura che non abbiano di meglio da fare? Che passino il loro tempo libero a pensare come introdurre lo stato islamico, applicare la shari’a e imporre il chador alle donne italiane (impresa del resto disperata)? Ma se non lo fanno nemmeno nel loro paesi! Se qui sono impegnati a guadagnare quattro lire, e magari godersela un po’, e i loro figli a studiare, magari più dei nostri! E se poi alcuni preferiscono sposarsi tra di loro e si vestono in maniera stramba, lei che ci perde? Disturba il suo senso estetico? Perché: i punkabbestia no? I tangheri del sabato sera no?
“Sto dicendoti che da noi non c’è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei”. Ma lei chi è, signora: il nostro santo patrono? Capirei ci fosse un argomento: ma, in drammatica mancanza di essi, ci dobbiamo fidare solo della sua parola? “Significherebbe regalargli l’Italia. E io l’Italia non gliela regalo”. A parte che non significherebbe affatto questo: al massimo significherebbe affittargli – non regalargli, ché non gli regaliamo niente – un cantuccio dove pregare insieme. Ma il suo argomentare mi ricorda tanto quanto Pietro Scoppola scriveva della chiesa cattolica negli anni Cinquanta: essa aveva paura che il nemico fosse il comunismo, e lo combatteva, lo scomunicava persino; e non si accorgeva che il nemico veniva da dietro, da dentro: e si chiamava secolarizzazione, laicizzazione, individualismo, consumismo. Nemico, voglio dirlo, che non è detto fosse negativo, in prospettiva: nemmeno per la chiesa. Ma, appunto, era dentro e dietro di noi, anche se era percepito come nemico esterno, come antagonista all’ultimo sangue. Tanti discorsi sull’identità italiana, come il suo, virulenti ma vuoti (a differenza di altri, assai seri), mi fanno pensare che oggi stia accadendo la stessa cosa.
Lieto del suo patriottismo, signora. Facile, me lo lasci dire, dall’America. E’ più difficile, glielo assicuro, essere italiano, e fiero di esserlo, in Italia, specie in periodi come questi, anche senza che gli italiani d’America vengano a farci la lezione. Ma lieto, davvero, del suo patriottismo. Che lei stessa ammette, dichiara, essere un patriottismo legato a un’Italia ideale. Si tranquillizzi, è così anche per noi: a guardar quella reale viene meno bene, e allora anche noi, per tirarci su il morale, pensiamo a Dante e a Verdi (a Verdi un po’ meno da quando del coro del Nabucco se ne è fatta un inno tutto suo la Lega, che di patriottismo come noto ne ha da vendere). Ma non dica che quella non patriottica, alla sua maniera, “è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità”. Primo perché – e so che questo esercizio le è particolarmente difficile – il suo pensiero, per quanto importante, non è la verità: al massimo un tentativo, fra i tanti, di rifletterci sopra. E non dei meglio riusciti. Poi perché anche chi non sarà d’accordo con lei non è detto che la odi (altro modo di essere presuntuosi: chi non è con me è contro di me, chi non mi ama mi odia. Così ragionano i bambini: lo sa signora? O gli inviati di Dio. Lei, per età, come dice lei stessa, non appartiene più alla prima categoria. Non sarà mica, anche lei, della seconda? Nel caso non lo sapesse, la informo: c’è già tanta concorrenza in giro…). Io per esempio, che come avrà capito non sono d’accordo quasi su niente, con lei, non la odio per nulla. Semplicemente, non sono d’accordo. In una sana democrazia è ancora possibile. E’ dove si demonizza l’altro, dove lo si dipinge come non è, dove si scontrano gli opposti fondamentalismi, insomma è nel mondo che descrive lei, per come lo descrive lei, con le parole che usa lei, che questo non è più possibile.
“Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t’avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse e a polemica vane”. Comodo, dopo averne scatenata una, e gigantesca. Ma lo sa, signora, che le sue parole sono e saranno armi che altri useranno per bastonare i vostri comuni nemici? Ne è consapevole, di questa responsabilità? Non ha il diritto di chiamarsene fuori, signora: gliene chiederemo conto.
“Ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata”. Ecco, caro Ferruccio, lasciala lavorare (immagino che finora anche lei sia consapevole di avere fatto altro, che questo suo scrivere non fosse degno di essere chiamato lavoro). Non disturbarla più. “Punto e basta”, come chiude lei. In fondo, si è trattato di una parentesi. Per riprendere il titolo di un suo libro: Niente e così sia.
Non è questa la sede per dilungarsi sulle cause di una sconfitta umiliante; basterà ricordare che la "libera informazione" occidentale ha riesumato in quella circostanza temi e argomenti di propaganda risalenti al 2001, e che la risposta delle persone serie -che per la "libera informazione" non provano alcuna simpatia e non nutrono alcuna fiducia- non possa consistere che nel controbattere nel modo gelido che può concedersi chi ha la consapevolezza di chi ha visto avverarsi previsioni che all'epoca era facile reperire nel più frettoloso volantino fotocopiato nel più scalcinato dei centri sociali.
Ecco dunque le considerazioni del sociologo Stefano Allievi, a commento e integrazione di uno elaborato (invero molto generoso e fin troppo condiscendente) redatto in risposta allo "scritto" di Oriana Fallaci con cui il "Corriere della Sera" si autonominò nell'ottobre 2001 custode della liceità di pensiero.
Come spesso succede citando elaborati altrui, anche questo contiene il nome dello stato che occupa la penisola italiana. Ce ne scusiamo come nostra abitudine con i lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.
Come prevedibile, in molti stanno ricominciando a tirare fuori i testi di Oriana Fallaci, a partire da La rabbia e l’orgoglio, l’articolo sul Corriere della Sera diventato poi un fortunato ed influente best (e long) seller.
Poiché le “verità” di quel testo e dei suoi successivi vengono date oggi per assodate, mi permetto di allegare di seguito la mia modesta risposta a quell’articolo: pubblicata a suo tempo nel volume “La tentazione della guerra” (Zelig, 2001), uscito a caldo e oggi ampiamente esaurito, e ripubblicata nel volume di risposta all’intera trilogia fallaciana (“Niente di personale signora Fallaci”, pubblicato con eguale insuccesso). E lo faccio perché oggi il rischio è che si ripetano, pari pari, gli errori (anche interpretativi) di allora. Che invece sarebbe utile evitare.
So che le mie opinioni sulla Fallaci anti-islamica sono minoritarie. E nulla tolgono alla Fallaci reporter e alla Fallaci scrittrice: che, in altri testi, ho letto e apprezzato. Ma questo è il solo settore in cui posso vantare una competenza specifica, che mi ha fatto leggere il suo testo diversamente (non altrettanto avrei potuto fare con “Un uomo” o con “Lettera a un bambino mai nato”, per dire), e mi ha consentito di commentarlo in dettaglio.
Non credo che sui contenuti della mia risposta, a distanza di vent’anni, cambierei alcunché (sullo stile forse sì). Anche se la scrissi di getto, a mano, su un treno che mi portava da Roma a Milano, subito dopo aver letto il suo articolo sul “Corriere della sera”, e la feci circolare il giorno dopo, via mail, tra alcuni amici, prima che finisse in un libro (allora non c’erano i social network, altrimenti l’avrei fatta circolare almeno lì).
La soddisfazione maggiore la provai anni dopo. Quando, in occasione della creazione del Premio Terzani e del Festival Vicino/Lontano (di cui ero stato chiamato a far parte del comitato scientifico) conobbi Angela Staude: e lei mi disse che suo marito, Tiziano Terzani, aveva letto il mio libro, e ne aveva parlato come dell’analisi più approfondita delle posizioni di Oriana Fallaci che avesse avuto occasione di leggere. Dei miei quattro lettori, contro i milioni di Oriana Fallaci, almeno uno mi ha ripagato dell’impegno…
Lettera alla signora Oriana Fallaci, più o meno nel suo stile
Ho letto La rabbia e l’orgoglio, il testo-manifesto che ha pubblicato sul Corriere della Sera, con le sue riflessioni dopo la strage del World Trade Center. L’ho letto con interesse e, glielo confesso, irritazione crescenti, man mano che proseguivo nella lettura, che la seguivo nei suoi ragionamenti. L’ho letto, alla fine, con rabbia. E forse un eccesso di orgoglio mi spinge a cercare di risponderle. In maniera forse irrazionale mi sento, in qualche modo, tirato in causa: perché sugli stessi temi ci ragiono e ci lavoro da anni, e trovo che testi come il suo facciano del male – gratuitamente, ingiustamente. Colpevolmente. Nello stesso tempo costringono a discutere, e questo è il loro pregio maggiore. Mi sento spinto a partecipare alla discussione. Mi ci ha spinto lei.
Merita una riflessione il suo testo, signora Fallaci. Seria e approfondita. Anche se il testo non lo è. Più che scritto, sembra vomitato. E il risultato va di conseguenza. Mi permetto di chiosarlo. Magari partendo anch’io – chiedo scusa se mi metto su un piano non dico simile, ma analogo a quello di cotanta cattedra – da qualche reazione ed esperienza personale, come molto personale, molto intimo, viscerale, umorale direi, è il suo testo, signora Fallaci. Anche se i miei titoli sono assai più modesti dei suoi: io mi limito ad occuparmi di immigrazione da una ventina d’anni, di islam da una decina. E siccome lei, signora Fallaci, mette insieme per l’appunto i due argomenti, per trarne una sua personalissima ma diffusissima morale, forse posso buttarmici persino io, su questo tema.
Come quasi sempre, in quanto la concerne, signora Fallaci, lo scrivere è il frutto di un ego debordante (letterariamente può essere un pregio, a piccole dosi. Ma politicamente, culturalmente, è un altro discorso: e qui lei pretende di fare una battaglia culturale). Lei, per dire, non è una che intervista persone o personaggi famosi. No. Lei è una che intervista, modestamente, la storia, come recitava umilmente il titolo di un suo libro. La parola ‘io’ fa capolino dappertutto, centro e fine di tutto: credo che anche quando scrive dio si senta solo la eco delle ultime due lettere…
Lo “straordinario scritto”, come viene presentato, comincia con le sensazioni provate con il crollo delle Twin Towers. E fin qui tutto bene, e non ci entro nemmeno. Non è questo, del resto, che è piaciuto. E’ la guerra culturale. E allora parliamone. Sorvolando sugli errori di fatto: che so, che Omar Khayan non si scrive così (sembra secondario, ma è come scrivere Dante Alighiurri, o Giovanni Bocciacco – dà subito l’idea che non se ne sa un granché, della cultura di cui si parla…); che ci sono ventiquattro milioni di arabo-musulmani in America – sono sei milioni, ma che importa; che Usama Bin Laden è suddito dell’Arabia Saudita, mentre non lo è più; che “quel palestinese di nome Habash che per venti minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato sulla testa”, come denuncia il nome, e come sa chi di queste cose si occupa, era un cristiano e non un musulmano, e così via. Queste sono quisquilie, pinzillacchere, direbbe Totò. E chi mai si aspetta da un giornalista, tanto più se grande, l’esattezza. Andiamo al sodo.
Non mi viene da fare un discorso onnicomprensivo e coerente: nemmeno il suo, signora Fallaci, del resto, lo è. Preferisco seguirla nel suo discorso. E commentarla come ho fatto tra me e me leggendola, magari applicando il suo discorso ad altri, rovesciandolo un po’: per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Lei dice che ha scelto di uscire dal suo eburneo silenzio in nome di “una rabbia fredda, lucida, razionale”, contro chi ha detto che all’America “gli sta bene”: quelli che, a suo dire, hanno gioito. Non so chi siano, quanti siano, dove siano, non so nemmeno se ci siano, questi intellettuali che lei non nomina, dunque nemico vago, evocato ma non indicato. Le credo, comunque: è probabile che ci siano. Il mondo è piano di persone che sfogano la loro rabbia, la loro impotenza, nella maniera sbagliata (lei, nel suo scritto, ne è un esempio, signora). Chiunque siano, sono d’accordo con lei: è indecente, è disumano, che qualcuno gioisca per queste morti innocenti. E’ vergognoso. E’ indicibile. Ma è sulla sua reazione che mi permetto di eccepire: sul fatto che la sua rabbia sia fredda, lucida e razionale come pretende. Almeno lo fosse! Non avrebbe clamorosamente sbagliato bersaglio, colpendo con la sua sacrosanta indignazione, con la sua rabbia, chi non c’entra nulla: uomini e donne, culture e religioni che non c’entrano niente, con questi infami intellettuali con cui lei se la prende.
Direi che la sua guerra guerreggiata, signora Fallaci, comincia quando lei descrive i kamikaze suicidi. Ne parla malissimo. E fa benissimo. Lei non li considera – neanch’io, per quel che vale – degli eroi e dei martiri, “come berciando e sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972”. Ammettiamolo. Arafat per giunta adesso bercia e sputa peggio di prima, e magari rutta e scoreggia: in più è malato, e la malattia degli anziani fa sempre un po’ schifo (è per quello che chiamiamo dei filippini e dei singalesi ad occuparsene: non è roba da civilizzati farlo noi…). Ma il suo è puro soggettivismo. Di trent’anni fa, per giunta. Che senso ha il paragone? Se è questo il livello del discorso, beh, vediamo come ci finirebbero altri, nel mirino fallace. Non so, per dire, se il signor Sharon bercia e sputa: non lo conosco. Non ho mai intervistato la storia. Nemmeno la cronaca. Ma quanto a politiche sanguinarie non scherza nemmeno lui. Ma vogliamo fare storia così? Vogliamo fare geopolitica così? Peggio, vogliamo fare cultura così? E’ rischioso. Da un lato Sharon, forse, invecchiando è peggiorato, mentre Arafat perlomeno non li rivendica più pubblicamente, quei morti. Ma, per dire, Bin Laden non bercia e non sputa, e al suo confronto, se si parla di stile, la maggior parte dei politici nostrani (e anche Bush) ci fanno la figura dei plebei a Versailles. Vogliamo dedurne che Bin Laden è migliore?
Qui viene fuori il primo riferimento al Corano, e al suo Paradiso: “il Paradiso dove gli eroi si scopano le Urì”. Anche nella Bibbia, a volerli trovare – e non è difficile – ci sono episodi assai poco edificanti: ci sono personaggi mica da poco che – certo, peccando, e come peccati sono stigmatizzati, e sono occasione di ravvederersi, ma intanto… – si scopano le figlie, si sbronzano come carrettieri, sbattono i legittimi mariti delle donne che desiderano in prima fila per farli morire in battaglia e sbattersi liberamente pure le mogli loro, ingannano mentono e uccidono che è un piacere. Proprio come nel Corano. Cosa vogliamo dedurne? siamo ancora lì? l’opinione laica (anzi, laicista: si definisce così lei stessa, signora Fallaci) non sa proprio trarre altro da un libro considerato sacro? non sa leggerlo che in questo modo? e allora perché diavolo ne parla?
Poi dice qualcos’altro sui kamikaze del suo libro Insciallah (così non ci dimentichiamo di rileggerlo, o di comprarlo se ancora, imperdonabilmente, non l’avessimo fatto). Che sono vanesi: “che baffi impomati, che barbetta leccata, che basette civettuole…” Vabbè, ma che dimostra? Perché, gli araldi della civiltà non si impomatano? Non sono vanesi? Il cerone, lo sfondo giusto, il colore che ne fa risaltare l’abbronzatura, i capelli tinti, e magari maggiorati di numero, che so, a caso, del cavaliere? ma dimostra qualcosa, questo? se non, al massimo, che gli esseri umani, terroristi o no, sono vanesi? Geniale!
E dopo questa scoperta straordinaria: “Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi”. Non abbiamo dubbi. Senz’altro lo farà. Cosa vuoi che abbia da fare, in questo momento, di più importante, cosa vuoi che lo faccia friggere, tra un attentato al suo braccio destro e una decina di cadaveri al giorno tutto intorno? La Fallaci, che diamine! “Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi”. Lasciamo pure perdere il tono, la totale perdita di senso della misura e del ridicolo. Ma la domanda è un’altra, politica: che c’entra Arafat? Perché parlandone così, a proposito delle Twin Towers, vuol dire che si instaura un legame tra i due argomenti. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano gli amici americani della Fallaci, visto che Bush si è dato tanto da fare per tirare quel terrorista che bercia e sputa nella sua alleanza contro il terrorismo, e ha fatto bene. Perché non scrive un’invettiva anche a lui, di cui pure parla così bene nel suo articolo? Per inciso, fare questo incauto e irresponsabile esercizio proprio adesso è come dire che gli americani se la sono voluta. Si mette sullo stesso piano delle persone che più sembra detestare, signora Fallaci. Con la differenza che lei è nel mezzo della scena, naturalmente: ben sotto i riflettori, pronta a raccogliere gli applausi che, non dubito, arriveranno numerosi, pericolosamente acritici e unanimi.
Poi è la volta dell’invulnerabilità dell’America. Come lei ben dice, è giusto il contrario. Ci si sente più sicuri, nelle dittature, nei regimi militari. Tranne se si è loro nemici, come lei. Tutto vero. Compreso il dire che il rischio attentati, dunque, era reale, che “non è mai stato un problema di ‘se’: è sempre stato un problema di ‘quando’”. Ma, signora mia, perché esporsi al ridicolo di pretendere che lei lo sapeva, che lei, dall’alto delle sue capacità divinatorie, l’aveva previsto? “Perché credi che martedì mattina il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l’audio non funzionava, ci fosse quella sull’attentato? E perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito?” Miracolo! Nemmeno padre Pio… Anche se, lo ammetta, almeno le ultime due erano già più faciline: forse altri trenta o quaranta milioni di americani avranno pensato più o meno lo stesso, nello stesso momento. Ma quanto alle prime due, davvero, chapeau! Perché la prossima volta non avvisa anche l’Fbi o la Cia? Ne avrebbero avuto bisogno, vista la figura che hanno fatto.
Ma veniamo al punto serio (è che è difficile ritrovarli: ci si perde…), al punto critico, delicato. Lei dice, giustamente, ed è un merito degli Stati Uniti (io li chiamo così), che “la vulnerabilità dell’America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità”. E avrebbe potuto aggiungerci, con molte ragioni, dal suo grado di libertà, dalla democraticità delle sue istituzioni. “Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi-musulmani”. Appunto. A parte il fatto che i musulmani negli Usa non sono ventiquattro milioni, ma sei, e lungi dall’essere tutti arabi, visto che circa il quaranta per cento di essi sono afro-americani, cioè, uscendo da un linguaggio politically correct che lei certamente disprezzerà e forse non chiaro, negri con cittadinanza americana che vivono in quel paese da prima della maggior parte dei bianchi che ci vivono ora, come lei (non so quali sono le sue fonti, ma conosco benissimo le mie, e sono le più accreditate). Ma a parte questo, che è dopo tutto un dettaglio (grande come un terzo della popolazione italiana, ma fa niente…): come osa, allora, scrivere: “Nessuno gli proibisce d’iscriversi a un’Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica”? come, come? Intanto, ho letto bene: cosa che spero cambi? Giusto, introduciamo l’apartheid, la selezione su base religiosa! Ma a parte questo, lo sa che questi musulmani non solo studiano, ma lavorano nei laboratori di chimica e di biologia (e di fisica, e di informatica, e di…, e di… – e, vergogna, alcuni insegnano persino all’università, a dei bianchi ariani americani forse cristiani!), e sono precisamente quelli (gli eroi e i pionieri, dovrei dire, utilizzando il suo aulico linguaggio) che fanno dell’America (io continuo a chiamarli Stati Uniti, ma fa niente) quella che è? Mai sentito parlare di brain drain? Cosa crede, che ci perdano, a farli lavorare? Che lo facciano per (diciamo: solo per) generosità, bontà, apertura mentale, gusto della democrazia? E allora perché secondo lei cercano di lasciar fuori i poveracci non laureati che tutti i giorni tentano di attraversare la green line tra Messico e Stati Uniti? Ma dove vive? A New York, sicura? Ma già, il direttore del giornale cui lei scrive, lo dice, in apertura, che lei “non risponde al telefono, apre la porta di rado, esce assai di meno”. Gli credo sulla parola. Non mi spiego altrimenti tanta distanza dalla realtà.
Nessuno, dicevamo – anzi, diceva – gli proibisce d’iscriversi all’università: “Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757…” Complimenti, ancora una volta, per la finezza di dire figli di Allah come se dicesse figlio di un cane o figlio di puttana: tutti i figli di Dio di questo mondo (Allah vuol dire questo: al-lah, il Dio, equivalente del nostro Iddio) le sono grati.
Profondo, poi, il giudizio sugli alti papaveri dell’intelligence: “Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per cretineria”. La mitica casalinga di Voghera, riferimento ossequiato di ogni giornalista che si rispetti, non avrebbe saputo dir meglio. Ma se era così ovvio, non è strano che il presidente non l’abbia fatto?
Nulla da eccepire, anzi, alle lodi all’efficienza dell’America, al suo patriottismo, al ruolo di Rudolph Giuliani, al fatto che l’America è un paese speciale, e quant’altro. Ci mancherebbe. Lo penso anch’io, si figuri. Fa un po’ sorridere, solo, in qualche punto, la sua comparazione in negativo – che, esterofilo come quasi tutti gli italiani, e forse per provincialismo come quasi tutti, tenderei a condividere – con l’Italia: “Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia”. In America, invece… Ma non l’hanno inventata loro la campagna elettorale all’ultimo sangue? Ha presente l’ultima? E i presidenti assassinati, e quelli feriti: erano stati i fondamentalisti islamici? Ma questo, davvero, è uno stupido, secondario dettaglio. Torniamo all’islam
Lei ci mette in guardia. “Con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenocché il resto dell’Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po’ e gli dia una mano”. A chi, scusi? All’America? Ma se Bush si è scomodato a togliersi gli stivali e il cappello da cowboy nella moschea di Washington per dire che la sua non è una guerra all’islam, bacchettando perfino il fido alleato e amico Berlusconi, quello che è d’accordo con lui prima ancora di sapere se lui è d’accordo con se stesso… Lei ci dice: “sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente cioè d’apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione [appunto, signora: non si rende conto che forse è persino peggio? Anche l’ebraismo è una religione, non una razza: non le dice niente? E chi voleva smarcarsi dalla rozzezza del discorso razzista, ma detestava comunque gli ebrei, usava per l’appunto l’argomento religioso, apparentemente più pulito, ma ancora più insinuante. Signora, ma che dice?, ndr]), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia”. Ah, sì? A me veramente, a sentir lei, sembrava una Crociata per dritto, di quelle normali…
“Abituati come siete al doppio gioco, accecati dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse [forse? Vuol dirci allora subdolamente che in realtà ce l’hanno dichiarata tutti? Questa si chiama paranoia, signora mia…, ndr], comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà”. Ecc. ecc. Anzi, continuiamo: non vorrei essere accusato di citare parzialmente: “All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà”. Ecc. ecc., perché comunque il succo è quello, ed è inutile ricopiare tutto.
Ci provo, pacatamente. E’ del tutto evidente, signora mia, che ci siano degli sciagurati, armati e pericolosi, che hanno dichiarato un (la parola, scusi la pedanteria, in arabo è maschile) Jihad contro l’occidente, che vogliono colpire il nostro modello di vita e noi stessi, che non hanno nessuna pietà per gli incolpevoli, che ci considerano così meno che uomini e donne che non hanno nessuna preoccupazione di ammazzarne. Sarebbe difficilmente eccepibile, dopo quello che è successo, non le pare? Immagino perciò che lo pensino tutti. E non c’è dubbio che questo sia un pericolo grave, gravissimo, terribile. E che dobbiamo reagire: con forza, con durezza, con determinazione. Ma con intelligenza, anche (e non mi azzardo neanche a dire: con giustizia). Cosa c’entra però tutto questo con il dichiarare un contro-jihad culturale nei confronti dell’islam? Gliela butto lì: negli Stati Uniti ci sono alcune migliaia di disgraziati, armati e pericolosi, che hanno dichiarato guerra, per tutt’altri motivi, al medesimo sistema, magari in nome di un conservatorismo bianco, razzista, che rivendica una ispirazione e un fondamento cristiano (Waco, Oklahoma City, Ku-Klux-Klan, tanto per dire dei nomi più o meno a caso). Combattiamoli. Con durezza. Ma dovremmo per questo dichiarare guerra al cristianesimo? O solo a quelli che l’hanno capito male? Potrà spiacerle, perché non si accorda con il suo quadro in bianco e nero, ma per l’islam è uguale. Un altro esempio: ci sono dei pazzi, armati e pericolosi, e non meno sanguinari, che in Israele (e anche in America) pensano che tutti gli arabi, o i palestinesi, o i musulmani (di solito, non fanno sottili differenze, anche se ce ne sono) siano dei sottouomini che meritano di morire, la cui vita non vale nulla, che sono arrivati a sterminare decine di musulmani proprio mentre pregavano sulla tomba di un comune patriarca (il nome di Baruch Goldstein, non più santo di Osama Bin Laden, le dice niente? Ma ce ne sono anche nelle scuole religiose e nell’esercito, di uno stato che pure è democratico, di questi individui…), che sono arrivati ad uccidere il loro primo ministro (conosce il nome di Ytzhak Rabin, e quello di Igal Amir, il suo assassino? E sa che come lui ce ne sono tanti, che lo considerano – il secondo – niente meno, un santo, come Goldstein, e come alcuni musulmani considerano Bin Laden?), colpevole di voler trattare una pace anziché continuare a sterminarsi a vicenda? Dovremmo per questo chiamare al jihad contro l’ebraismo, o solo combattere, con durezza, con determinazione, quelli che l’hanno capito male, che lo tradiscono? E, tanto perché il suo ateismo un po’ rozzo e molto manicheo non la spinga a dire che questi sono frutti impazziti delle sole religioni, le ricordo che in questo momento, sulla terra, ci sono migliaia di persone che farebbero lo stesso, e lo fanno, e commettono stragi, e commissionano attentati, e stuprano, e distruggono, in nome della religione, sì, ma anche della razza, della tribù, della nazione, della patria, dell’ideologia, della fratellanza mafiosa, o del denaro, o semplicemente di se stessi. Dobbiamo colpire loro. Ma stiamo attenti con le generalizzazioni. Non si rende conto, poco gentile e molto arrabbiata signora, che l’islam, per dire, è quella stessa religione che fa invece vivere in pace e nel timor di Dio centinaia di milioni di persone? E lo stesso si può dire del cristianesimo, dell’ebraismo, dell’hinduismo, del buddhismo, o di quello che vuole lei? Non la sfiora nemmeno il dubbio – a me sì, spesso – che se non ci fosse l’islam queste persone potrebbero essere non migliori ma peggiori? Anche se gli portassimo la nostra idea di libertà e i nostri beni di consumo che del resto, per lo più, non si potrebbero permettere, né l’una né gli altri?
“Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo sono”. Signora, stia pure tranquillamente immersa nei suoi pregiudizi, tanto gratificanti per la sua superiorità morale e culturale. Ma non ci ammorbi, non ci chiami a guerre, le sue, che non abbiamo nessuna intenzione di combattere. Perché, semplicemente, non sono in corso (non ancora, almeno: anche se non so come sarà il futuro, se molti finiranno per condividere le sue opinioni). In caso, mi dichiaro obiettore di coscienza fin d’ora. Posso anche decidere di combattere una guerra, per esempio contro la stupidità: ma mi riuscirebbe difficile combatterla dalla parte degli stupidi (che, come spesso succede, si ritengono più intelligenti degli altri: anzi, superiori, come è stato detto in questi giorni). Comunque, si tranquillizzi. Nessuno, spero, vuole ammazzarla, tanto meno perché è atea. Muoiono quasi solo gli innocenti, quelli che non c’entrano niente, nelle guerre, come negli attentati terroristici: non se ne è accorta?
“Da vent’anni, lo dico, da vent’anni”. Un’altra che ‘ve l’avevo detto, io’. Anche se le do’ ragione su quello che dice dell’Afghanistan di vent’anni fa, che stava meglio sotto i sovietici. Ma, lo diceva lei prima, a proposito degli americani, che la libertà è insopprimibile. Loro non ci hanno voluto stare comunque, sotto i sovietici. Probabilmente non vogliono stare neanche sotto i talebani. Non le viene in mente che quello che succede è colpa di un governo, non di una popolazione? E chissà, magari da questa storia potrebbe venirne fuori un Afghanistan migliore, più libero: qualcuno, almeno, ci guadagnerebbe.
Lei ha ragione a dirci che quello che è successo all’America riguarda anche l’Europa, che “l’America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi…” Mi pare che sia appunto quello che sta succedendo. Lo sappiamo bene che “se crolla l’America, crolla l’Europa. Crolla l’Occidente, crolliamo noi”. Ha ragione. Ma cosa le fa pensare che non ce ne siamo accorti? Non ha visto la prontezza della risposta dei governi europei, della Nato, e anche di tanti altri paesi del mondo, non occidentali, persino musulmani, che hanno meno da guadagnarci?
Ma non c’è bisogno di incitarci con quella triviale leggerezza che la trascina. “E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella”. A parte che un po’ di latte di cammella in più e un po’ di cognacchino in meno non potrebbe che farci bene (e a scanso di equivoci, glielo dice un enofilo dichiarato e non pentito), da dove le viene questo (quest’altro: non vada ad accendere la tv proprio adesso, per carità…) presentimento? Non le sembra un ridicolo terrorismo psicologico? Ma dove li vede i segni del trionfo del latte di cammella e del chador? Da noi, per giunta? E quanto alle campane, se abbiamo smesso di suonarle, ben prima che sapessimo cosa significava la parola muezzin, perché in città disturbano, beh, guardiamoci dentro, non fuori. Si guardi dentro anche lei, incidentalmente.
Per farci capire l’importanza del suo discorso, così prosegue: “Blair lo ha capito. E’ venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza militare”. Sono d’accordo. Ma non si accorge che questo non è in contraddizione con altre cose che ha fatto Blair? Gliene racconto qualcuna: lungi dal chiamare al jihad, Blair ha incontrato ripetutamente i responsabili musulmani del Regno Unito; si figuri che orrore: ha nominato la bellezza di quattro Lords musulmani che oggi hanno un seggio in quel venerato tempio della democrazia occidentale, sulle rive del Tamigi, che è la House of Lords (e, lo sa?, hanno ottenuto di poter giurare fedeltà alle leggi dello stato e al regno di sua maestà sul Corano anziché sulla Bibbia, e oggi nello stesso edificio c’è anche una piccola sala di preghiera musulmana, oltre che una cappella e una sinagoga); pensi un po’: ha addirittura lasciato che i musulmani festeggiassero la fine del digiuno di Ramadan in Downing Street, poi è andato a congratularsi con loro, e quando questi gli hanno offerto in dono un Corano ha risposto che l’aveva già letto durante le vacanze di Natale. Un doppiogiochista? O non è proprio questo che fa la grandezza dell’Inghilterra? E infatti, posso dirglielo? non si offende? E’ proprio perché Blair, invece di chiamarci al jihad, come fa lei, ha fatto quello che le sto raccontando, e molto altro, che oggi nel Regno Unito la stragrande maggioranza dei musulmani che lì vivono sostiene con convinzione e patriottismo la lotta al terrorismo e a Bin Laden, se non i bombardamenti sull’Afghanistan (sarebbe chiedere troppo, a gente che viene da quelle parti lì: indopakistani, per lo più…). Proprio perché sanno che non è rivolta contro di loro. Non le dice niente, questo? Mi sa che i cattolici d’Inghilterra erano assai meno convinti delle buone ragioni del governo inglese, quando si trattava di Irlanda del Nord: eppure gli anglicani come Blair e chi l’ha preceduto si sono limitati a combattere l’Ira, non hanno chiamato al jihad anticattolico – nemmeno, per dire, quando l’Ira ha messo a ferro e fuoco Londra e fatto saltare per aria Lord Mountbatten, riducendolo in una cenere altrettanto fine di quella in cui sono ridotti i poveri cadaveri delle Twin Towers. Non le dice niente nemmeno questo?
Lei, gentile signora, si rivolge poi all’Italia, la cui situazione conosce così bene. E rimprovera questo tapino di paese perché “il governo non ha individuato quindi arrestato alcun complice o sospetto complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio!”. Beh, lasci che per una volta sia io ad assolvere il cavaliere (perdio!). Mi consenta di togliermi questa soddisfazione, così rara. L’ha fatto. Sono fiero di dirglielo. Come sono fiero di dirle che questo è successo persino prima dell’attentato alle Twin Towers. E persino da parte del governo che ha preceduto quello del cavaliere, tanto per non accusare a vanvera il centro-sinistra di aver coperto il terrorismo islamico. Sono state fatte fior di operazioni. Tanto che anche gli arresti effettuati in Spagna e in Francia in questi giorni nascono, pare, da un’inchiesta iniziata in Italia. Basta leggersi i giornali di ieri e dell’altro ieri. Ma, detto questo, a che titolo, dall’alto di quali informazioni, si permette di dire che invece “in Italia dove le moschee di Milano di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la cupola di San Pietro, nessuno. Zero”. Scommetto che non c’è mai stata, in queste moschee. Scommetto che non ne conosce neanche l’indirizzo. Ma questo è il meno. Scommetto che la sua è solo un’idea, senza uno straccio di pezza d’appoggio. E allora, ripeto, come si permette? Con che autorità? Ma sono sicuro che lei, che è una grande giornalista, un fine segugio, delle piste le ha di certo, dei suggerimenti concreti, delle indicazioni. Perché, signora mia, non le passa ai magistrati le sue certezze? Timore che le ridano dietro? Magari anche gli stessi che delle indagini contro il terrorismo, e non è giusto non ricordarli, le hanno fatte, invece? Ma indagini, serie, non congetture. Il Blair che lei ha evocato non la farebbe mai, né la direbbe mai, una sciocchezza del genere. Anche se non è meno fermo di lei nella lotta al terrorismo e nella solidarietà all’America: anzi, se mi permette, sospetto che lo sia di più – con i fatti, come dice lei.
Lei, per sua fortuna – gliele invidio, queste caterve di certezze, pur così friabili: davvero – sembra aver capito tutto, di cosa siamo, noi italiani non emigrati in America, e noi occidentali non proni alla logica manichea del bianco e del nero: “Masochisti, sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami [il tu immaginiamo si riferisca al direttore del Corriere: e così sappiamo, per usare una terminologia guerresca che noi abbiamo pena ad utilizzare ma che forse piacerà alla gentile signora, chi è il mandante di questa guerra culturale, ndr] Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture”. Non ho più niente da dire, nulla da aggiungere. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, ed è inutile discutere su questo piano. Siamo al livello delle sortite del cavaliere, che non sono in nulla diverse, nemmeno peggiori (complimenti, cavaliere: è al livello di una scrittrice tradotta in tutto il mondo, una che nel tempo libero intervista la storia. A proposito, l’ha intervistata?). E la riflessione si fa in silenzio, nel chiuso delle stanze, non nei libelli. Non tenterò nemmeno di convincere nessuno. Mi limiterò a dire che, sulle nostre carte geografiche, una volta si scriveva hic sunt leones, per indicare le terre incognite (incognite per noi). Poi, con gli anni, con i secoli, si è scoperto che non c’erano solo i leoni. Che c’erano persino delle culture – oso dirlo, mi perdoni, se può. Aggiungo perfino, suprema blasfemia, che non c’è niente che mi farebbe più paura di un mondo composto solo di occidentali, tutto occidentalizzato, un mondo fatto di persone tutte e solo uguali a noi (noi chi, poi, esattamente?). Non credo, francamente, che sarebbe un mondo migliore. Credo che sia per le culture, e persino per le religioni, come è per la biodiversità. E’ vero che i tonni sono buoni da mangiare, e gli squali attaccano l’uomo, ma se l’immagina un mare abitato solo da tonni? E se in aria i fagiani sono belli da sparargli addosso (a qualcuno piacciono solo per quello), e le mosche danno noia (ma forse servono anche a qualcosa, solo che siccome danno noia a noi, e noi tendiamo sempre a metterci al centro del mondo, esercizio di cui lei, signora, è un’eccellente esempio…), se l’immagina un cielo abitato solo da fagiani? E una terra abitata solo da vacche, che sono utili, perché si mangiano e danno il latte, e di maiali, naturalmente, non foss’altro che per far dispetto all’islam? Di più, signora: non solo credo che la diversità sia utile, e bella persino – credo che questa diversità abbia un senso. E mi spaventano le certezze di quelli che appartengono a una cultura che dicono comune di noi tutti civilizzati occidentali (ancora una volta: noi chi? Per fortuna so che questa omogeneità non esiste…), quelli insomma che dicono noi includendo me (faccio obiezione di coscienza anche a questo): questo, signora mia, mi fa paura. Ah, a proposito, giusto per ricordarglielo: tra quelli che pensano che tutti dovrebbero essere come lui, e che certe religioni, ma non la sua, sono opera del demonio, c’è anche Bin Laden. Se ne è accorta, signora? Le sue opinioni e la sua cultura sono tutte diverse da quelle di Bin Laden. Ma il suo sistema di pensiero, da questo punto di vista, è sorprendente simile. Ci rifletta, se può. Anche se c’è una differenza, e cruciale, tutta a suo favore: Bin Laden passa dalle parole ai fatti, lei no. Anche se forse altri, confortati dalle sue parole, lo faranno per lei. Magari non così alla grande: ma anche una piccola violenza è comunque una violenza in più, buttata in un mondo che di tutto avrebbe bisogno tranne che di questo.
Lo so anch’io che dietro alla nostra cultura c’è la Grecia, Omero, Aristotele, Fidia, l’antica Roma, e il suo straordinario sistema di leggi, e poi Cristo (grazie per averlo ricordato: molti lo dimenticano, quando fanno l’elenco…), Galileo, il Rinascimento, Michelangelo, Bach, Beethoven, la Scienza. Per inciso: lei ricorda, con toccante riferimento personale, che lei è “ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza: non quella di Maometto”. Mi perdoni, ma il paragone è stupido: non è neanche la scienza di Cristo, se è per quello, e nemmeno di Buddha. Ma dia un’occhiata a una storia della scienza, scritta da un’occidentale. E anche a una storia della medicina. Forse avrà modo di ricredersi, sul fatto che gli scienziati ‘di là’ – non voglio neanche dire musulmani, anche se lo erano – non c’entrano proprio niente, con questa storia (con gli strumenti che usava e le idee che aveva Galileo, per dire, visto che lo tira in ballo), e anche col fatto che lei è ancora viva. Non voglio proprio mettermi a fare l’elenco, anche se lo conosco. Quello che mi domando è: cosa dimostra? Cosa dimostra davvero, se non che i sapienti, i saggi e gli scienziati di un tempo, di qualsiasi latitudine – ci includa per esempio cristiani ebrei e musulmani dei secoli che furono – sapevano prendere, rubare il meglio della grandezza altrui, mentre noi oggi ci pasciamo della nostra, abbiamo perso la capacità di guardare al di là del nostro naso, stando almeno a scritti come il suo? E a proposito, tanto per essere crudi, visto che è lei a tirare in ballo l’argomento: sarei pronto a scommetterci una bella cifra (parola, tra le tante, che ci viene dall’arabo, ma lasciamo perdere…) che tra le persone che oggi lavorano nei laboratori che producono le medicine che la tengono viva ci sono anche persone di religione islamica. Ma anche questo non dimostra nulla, nemmeno a favore dell’islam. Il problema è che l’islam, semplicemente, non c’entra nulla con questo discorso, come non c’entra il cristianesimo o l’ateismo. Questa è la grandezza della scienza. E, se vuole, dell’America: saper integrare le differenze lasciandole tali, saperle far collaborare. Perché vuole rovinarci questo splendido spettacolo?
Mi viene da piangere, a dover commentare le sue ‘argomentazioni’ a proposito del Corano. Ma sento di doverlo fare, per quello che posso. E’ il bello dell’occidente, che ci siano opinioni diverse a confronto, anche se qualcuno preferirebbe il pensiero unico, così tranquillizante, così più facile da gestire. Per cui lo farò: limitandomi a dire che, se lo legge così, in questo modo preconcetto, superficiale e polemico, può sbatter via tutti i libri sacri del mondo, che costituiscono la sua maggiore ricchezza culturale, quella cui attingono quotidianamente miliardi di uomini, una ricchezza viva, dunque, non morta: non solo il Corano, quindi, ma la Torah, i Vangeli, le Upanishad, la Bhagavad-Gita, su su fino, perché no, ai testi Baha’i e al libro di Mormon (a proposito, signora: anche i Mormoni sono poligami, e le donne mormone così “minchione”, come dice lei con la consueta eleganza, “da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli” – i Mormoni, per la cronaca, ne possono avere anche di più…: ma non è un buon motivo per dichiarare guerra allo Utah, che mi pare sia negli Stati Uniti, anzi uno degli Stati Uniti. E infatti gli americani se ne guardano bene). Per inciso, argomento cui forse sarà sensibile: letti in questa maniera (ricordo: preconcetta, superficiale e polemica) tutti i libri troveremmo modo di buttarli a mare, non solo quelli sacri – anche, persino, i suoi.
Lei ci dice dunque tutto il male possibile dell’islam, condito da una dose da cavallo di fiele, per dirci che, se le loro donne sono così minchione, e i loro uomini così grulli (così dolce questo bell’aggettivo toscano, così affettuoso, in fondo, e tenero, che stona, in mezzo agli altri), peggio per loro: “Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto di libertà, io”. Ah, meno male. Questo ci tranquillizza. Anche se sorge spontanea la domanda: si riferisce anche a quella degli altri? “Ma se pretendono d’imporre le stesse cose a casa mia… Lo pretendono”. Ebbene, è proprio qui il punto: chi lo pretende? Osama Bin Laden, appunto, come lei ricorda: e infatti gli stiamo facendo una giusta guerra, che poi è semplicemente autodifesa. Ma lei ci dice: “Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden. Perché gli Usama bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi [l’Afghanistan non è arabo, signora…, ndr]. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della tecnologia”. Sembra un film di Carpenter, signora. Gli alieni sono dappertutto. Ma lei non stava facendo un discorso culturale? Da dove le viene questa paranoia? Dove li vede, tutti questi nemici, lei che sta tutto il giorno in casa (o è il contrario: sta in casa proprio perché vede nemici dappertutto)? Se lo lasci dire, signora: ma che ne sa? Ci vada a parlare, a mangiare la pizza, si documenti insomma: è il minimo che si possa chiedere a una che scrive. Perché se no il suo discorso è esattamente uguale e speculare – e lo è, è proprio questo – a quello di coloro che vedono ebrei dappertutto, complotti sionisti dappertutto, o comunisti dappertutto, o fanatici musulmani dappertutto. E’ uguale. E direi che sono questi i nemici più pericolosi dell’occidente che, invece, amo io. E mi dispiace di dover annoverare anche lei nella truppa, insieme ai neonazisti della fratellanza bianca, al Ku-Klux-Klan, agli attentatori di Oklahoma City e, naturalmente, a Osama Bin Laden. Ha proprio ragione, signora: il nemico è tra noi. Peggio, è dentro di noi – è noi. Lei dice: “Trattare con loro è impossibile. Ragionarci impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Appartengo alla categoria degli illusi. Ma, le assicuro, neanche trattare e ragionare con quelli come lei è uno scherzo. Anzi, ha proprio ragione: è impensabile. Devo solo sperare che non diventiate maggioranza. E ringraziare Dio perché lei non è il presidente neanche di un bruscolino.
Poi ha tutte le ragioni di sacramentare contro gli idioti, o gli assassini, e i carnefici, che ha incontrato nella sua avventurosa vita. Che siano gli imbecilli dell’ambasciata iraniana di cui lei parla, o quelli ancora più imbecilli che incontrò a Teheran ai tempi di Khomeini, o i fanatici che ha visto all’opera in Bangladesh. Ma ancora una volta, non si fa così la storia, e tanto meno la storia delle culture. Per dire, Khomeini è morto: non gliel’hanno detto? E le stesse cose, o peggio, le facevano Pol Pot, o Mao, che non erano musulmani, o magari Pinochet, per tutta la sua vita di onesto dittatore, e anche dopo, convinto di essere un buon diavolo di cristiano – dunque, che cosa dimostra? Lei cita poi un mostruoso episodio accaduto in Bangladesh, dove al grido di “Allah akbar” le folle giustiziavano e calpestavano dei poveri disgraziati, colpevoli ai loro occhi di immoralità. E’ terribile, ed è doveroso denunciarlo, e fare in modo che non accada più, anche. Fa bene a farlo. Ma lei fa il paragone solo con le orde del Colosseo di duemila anni fa. Ne potrebbe fare di più recenti. In Rwanda si sono allegramente massacrate tra di loro un milione di persone, orrendamente mutilate a colpi di machete, bruciate vive, pensi un po’, dentro le chiese, stuprate: le sembrerà strano, ma non c’era, né tra i carnefici né tra le vittime, nemmeno un musulmano. E, anzi, in questo momento, tra quelli accusati di strage e incitamento alla violenza c’è pure un prete. Cosa dimostra, questo? Che l’islam è una religione di angioletti? No di certo. Che il cristianesimo è una religione di perfidi assassini? No di certo. Cosa dimostra, allora? Appunto, nulla. Come i suoi discorsi sull’islam.
Fine del discorso? Purtroppo no. Il peggio, in certo qual modo, deve ancor venire. Perché lei adesso passa da un discorso sull’islam a un discorso sull’immigrazione. Velenoso. Vergognoso. Indegno. Perché fa uno slittamento di significati illegittimo anche concettualmente. Posso dirlo? Non c’entrano niente: per la semplice ragione che non sono immigrati perché musulmani, e nemmeno il contrario. Sennò cosa dovremmo dire, che so, delle puttane nigeriane: che lo sono perché animiste o cristiane o tutt’e due? e quelle slave lo sono perché ortodosse? Che pena, signora Fallaci. Per lei.
Vediamolo, il suo sapiente discorso. Lei ci racconta di un episodio indegno. Che, manco a dirlo, l’ha vista protagonista nella sua soluzione. Lei ci racconta di quando un anno fa un gruppo di somali eresse una tenda, che rimase sul posto per tre mesi, in pieno centro di Firenze, in piazza San Giovanni, tra l’Arcivescovado e il Battistero, per protestare contro il nostro ministero degli esteri che non riteneva validi i passaporti concessi dopo il ’91. Guardi, signora Fallaci, voglio entrare nel merito. Per dirle che sono d’accordo con lei. Per dirle che è stata una vergogna, dal punto di vista estetico, della sporcizia, del degrado urbano, della convivenza civile. Ma sbaglia ancora una volta bersaglio. Quella tenda è ‘musulmana’ come io sono mio zio: l’islam c’entra meno che nulla. Non l’hanno eretta in quanto musulmani, anche se musulmani, e nostri ex-colonizzati, lo erano, e forse qualche motivo di protestare ce l’avevano pure. Lo stesso giornale che la pubblica meritoriamente ricorda che nello stesso posto, in altre occasioni, furono erette altre tre tende, per motivi diversi, e una, per protestare contro la guerra del Golfo, rimase in piedi anche lei per tre mesi.
Non sono in toto contro le tende di protesta. In Italia e in tutto il mondo se ne mettono nelle occasioni più diverse, che siano i radicali in sciopero della fame per una manciata di referendum o i kurdi che protestano contro i massacri nel loro paese. Quest’estate ero a Città del Messico, città che lei conosce assai meglio di me, e non certo un limpido esempio di democrazia: ma mi aveva fatto riflettere che sulla piazza principale della città, dove si affacciano la cattedrale e il palazzo del governo, vi fosse non una tenda, ma addirittura una minitendopoli di campesinos urbanizzati, che protestavano per le condizioni di una qualche favela locale. E mi aveva interrogato lo scoprire che lì c’è sempre qualcuno che protesta per qualcosa. Con le tende. Magari vuol dire che non fa male alla democrazia. Ma lasciamo pure perdere il Messico, che per l’appunto un fulgidissimo esempio di democrazia non è, anche se è tutt’altro che da buttare, rispetto a tanti altri paesi, anche più ricchi e sviluppati e occidentali e ‘superiori’. E torniamo a noi. Le dicevo che tende di protesta se ne erigono dappertutto: ma con rispetto degli altri e decoro. E qui è mancato.
Le do’ ragione: qui è mancato, e lei ha fatto bene a condurre la sua personalissima battaglia contro di essa. Ma, di grazia, cosa diavolo c’entra l’islam? Se fossero stati peruviani cattolici, o indiani hindu, o eritrei copti, che differenza avrebbe fatto? Una l’avrebbe fatta: lei avrebbe intinto la sua penna nello stesso invelenito e velenoso inchiostro? Avrebbe usato dello stesso duro sarcasmo? Per esempio, sul fatto che pisciavano sui muri (una vergogna: sono completamente d’accordo con lei), e le strisciate di urina profanavano i marmi del Battistero: “Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah!”. Cara signora, fesseria per fesseria, perché non ricordare che i negri, dicono, ce l’hanno più lungo, e forse è per quello che arrivavano fin là?
Signora Fallaci, glielo ripeto, sono d’accordo con lei nella sua battaglia contro la sciatteria, la sporcizia, il cattivo gusto. Ma, glielo chiedo di nuovo: cosa c’entra l’islam? Lei dice che anche quando la tenda incriminata fu tolta “fu una vittoria di Pirro. Lo fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella che era la capitale dell’arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano”. A parte la sciocchezza sul Corano (anche la Bibbia proibisce un sacco di cose che, come le risulterà, i cristiani praticano con fervore…), sono d’accordo con lei: ma perché non nomina anche le etnie non musulmane, che pure contribuiscono anche loro? E poi però non la smette di parlare di religioni, e di etnie, per parlare di individui? Cosa c’entra l’islam con tutto questo? Non le viene il dubbio che, se delinquono – quelli che delinquono: altri sono qui per lavorare, e non lo dimenticherei – non lo fanno perché sono musulmani, ma semmai, rovesciando il suo argomento, perché non lo sono abbastanza, magari non lo sono più? Crede che quelli più occidentalizzati, quelli più simili a noi, quelli che alla moschea preferiscono la discoteca (e lungi da me, comunque, demonizzare sia l’una che l’altra), delinquano di meno o di più? Lo stesso, incidentalmente, vale per cattolici, ortodossi e confuciani.
Provo a fare, su questo tema dell’immigrazione, un discorso un po’ più ampio, un po’ più articolato. Sa, di immigrazione me ne sono occupato a lungo (lo sospettava, nevvero? Non potevo essere che un complice…). Ma anche quando me ne occupavo, l’ho sempre fatto rifiutando le posizioni manichee: che, nel mio ambiente, erano quelle buoniste, perché si tendeva a sottovalutare, a non vedere i problemi (la delinquenza, ad esempio), anche a demonizzare l’altro (magari i commercianti, e altri cittadini, che, giustamente, chiedevano ordine, meno delinquenza, più sicurezza, e meno lassismo da parte della politica come della polizia). Una volta, a Milano, tornando da una manifestazione antirazzista, cui era andato per dovere istituzionale, avevo letto, in corso Venezia, una scritta che era tutto un programma: “No al razzismo. Morte al fascio”. Ecco, questo slogan rappresentava per me la quintessenza del modo con cui non volevo occuparmi di immigrazione. Come non mi piaceva la tolleranza per l’illegalità, anche modesta, per dire. Anch’io, come lei, detesto la sciatteria, il disordine, la compiacenza, il blando laissez faire nei confronti di chi non rispetta le leggi. Ma purtroppo, a differenza di lei, non lo attribuisco agli immigrati: li precede, purtroppo. Loro ne sono solo un segno: più visibile, per noi, per il colore diverso, perché sono ‘nuovi’. Ma sono esattamente un segno dello stesso segno delle auto in tripla fila e della maleducazione stradale; dell’abitudine a non rispettare le leggi nemmeno quando si tratta di non fumare nei luoghi pubblici o di mettere la cintura di sicurezza; della sporcizia sulle strade (nella mia civile Milano, ex-capitale morale); del falso in bilancio e delle bustarelle ai giudici (e magari depenalizziamo anche queste ultime, così risolviamo il problema); dei graffiti ovunque, che detesto anziché considerarli un segno di creatività popolare; dei disperati delle periferie che berciano e sputano e bestemmiano peggio di Arafat e non fanno sedere le vecchiette sul tram; dell’inciviltà strisciante del linguaggio; dei motorini e degli scooter al di là di ogni limite di inquinamento acustico e dei vigili che non vedono e non sentono; dei telefonini squillanti anche alla Scala; della volgarità televisiva della fascia pro-tetta e delle letterine sculettanti; del piattume e pattume del varietà e dell’ossequio servile dei giornalisti ai vecchi e nuovi poteri, purché poteri siano; dei politici ignoranti e incolti (alcuni, al governo, ignorano persino l’abc della costituzione su cui giurano, non solo la sintassi e il congiuntivo, come lei giustamente ricorda); della pubblicità invasiva anche sulla tv dei ragazzi, così imparano subito; della pornografia a tutte le ore, immagino per lo stesso motivo; della povertà di spirito degli yuppies e dei loro ridicoli miti, così ben espressi dalle loro riviste patinate, piene come sempre di tette e motori e drammaticamente vuote di pensiero; della mancanza di responsabilità civica delle élites imprenditoriali, che comprano solo squadre di calcio ma mai che facciano mecenatismo sociale; della Gazzetta dello Sport quotidiano più letto, e autorevole… Segni – esattamente come i senegalesi che su uno straccetto vendono false Vuitton e cd taroccati – di un disordine generale, pervasivo, diffuso. Solo che io penso che loro siano un effetto tra i tanti, non una causa, tanto meno la causa. Ma penso anche – forse una delle poche cose su cui sono d’accordo con lei, signora Fallaci, e in contrasto con molti dei miei ambienti di riferimento – che debbano essere combattuti anche loro, insieme agli altri: non come persone, ma se e nella misura in cui non rispettano le leggi. E’ l’unica crociata, quella contro l’inciviltà quotidiana e il mancato rispetto delle leggi e delle regole minime della vita sociale, cui forse mi iscriverei, a patto però di chiamarla con un altro nome. Neanche pulizia mi piace: perché quella etnica è troppo recente, e ha un pessimo suono. Anche se era fatta da buoni cristiani. E detesto quelli, talebani o occidentali, che mi dicono che sarebbe ora di fare pulizia: di solito, sono quelli di cui io farei pulizia.
Cosa c’entra, tutto questo, con l’islam, Santa Giovanna d’Arco(re) Fallaci? (mi scusi la triviale battuta: ma è perché il cavaliere ha detto che, se l’avesse letta prima, si sarebbe ispirato a lei nel suo ‘storico’ e indimenticabile discorso sulla civiltà superiore). Non ha, anche lei, come tanti altri, nonostante la sua grande intelligenza, questa volta, sbagliato mira, gentile signora? Almeno: è proprio sicura? Al cento per cento? Io no, non lo sono. Forse è proprio questa la differenza tra lei e me: lei sa. “Tra le cose sicure la più sicura è il dubbio”, diceva quel disfattista di Bertolt Brecht. Si figuri, questa frase me la sono appuntata su un quadernino da ragazzetto, quando l’ho letta: e da allora non l’ho più dimenticata. Non la voglio più dimenticare. Soprattutto oggi che tanti, troppi, anche lei, sono così pieni di certezze, si sentono così ‘migliori’ (pardon: superiori).
Peccato, per tornare al dunque, che tutto questo discorso sulla delinquenza legata al mondo dell’immigrazione non c’entri nulla con l’islam. Anzi. Sarebbe come ricondurre il cartello di Medellin al cattolicesimo, i magnaccia della prostituzione slava e la mafia russa all’ortodossia, la yakuza giapponese allo scintoismo, e il racket cinese al confucianesimo (o magari al maoismo, a scelta). Cosa c’entra, dunque, l’islam?
Bontà sua, ammette che alcuni, solo alcuni però, lavorano, seppure lo ammette a modo suo: “Anziché figli-di-Allah in Italia li chiamano ‘lavoratori stranieri’. Oppure ‘mano-d’opera-di-cui-v’è-bisogno’”. Signora, li chiamano così anche nella sua amata America: e hanno ragione. E poi, non c’è alternativa tra le due cose. Lo sa che tanti imprenditori, nel ricco Nordest, ben contenti di avere mano d’opera di religione islamica, obbediente e lavoratrice, gli fanno pure la sala di preghiera, e non danno loro il prosciuttino a mensa, per rispetto? Eccessivo, secondo lei? Comunque, anche qui c’è un punto su cui sono d’accordo con lei. Quando dice che questo non basta. Che quella economica non è una buona giustificazione dell’immigrazione. Sono contrario anch’io all’uso e all’abuso di questo argomento. L’unico che metta d’accordo grandi imprenditori e piccoli padroncini magari leghisti, sindacalisti ex-comunisti e volontariato cattolico – il che è sospetto. E’ quasi sempre sospetto quando il sano egoismo del mercato e l’altruismo magari anti-mercato vanno d’accordo: vuol dire che o uno dei due è riuscito a fregare l’altro, o che tutti e due hanno capito male, o che hanno capito benissimo ma tanto sanno che il prezzo lo pagherà qualcun altro. E infatti è precisamente quello che avviene: il prezzo lo paga la società, cioè noi, per i bassi salari, l’evasione contributiva e fiscale, il dumping sociale promosso da questa ‘singolare convergenza di interessi’ (chiedo scusa se prendo in prestito un’espressione cara al presidente del consiglio, anche se lui la usava a proposito di musulmani e anti-globalisti).
Lei parla di quelli che non lavorano, quelli che bighellonano e deturpano i nostri monumenti, e che poi pregano cinque volte al giorno. Sicura che siano gli stessi? E se anche lo fossero, non è meglio che quelle cinque volte, per pochi minuti, preghino il loro Dio, smettendola di bighellonare e di deturpare i monumenti almeno in quel frangente? Pensa che se non pregassero più, o se pregassero il nostro, di Dio, bighellonerebbero di meno?
Di altre cose, invece (anche), si dovrebbe vergognare. “Se sono tanto poveri, chi glieli dà i soldi per il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia? (…) Non glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo d’avviare una conquista che non è solo una conquista di anime, è anche una conquista di territorio?” Te pareva. A parte che se fosse così Bush sarebbe felice: avrebbe trovato il modo di prosciugare il pur cospicuo patrimonio di Bin Laden. Ma lo sa che una argomentazione così non l’aveva mai pensata nemmeno il disonorevole Borghezio? Lei mi dirà: e chi è? Lei è fortunata, signora, a stare a New York. Glielo dico io, chi è Borghezio: è quello che dice immigrati clandestini = terroristi. Ma questa non l’aveva ancora pensata. Gli ha dato un’idea (che non è difficile, peraltro, se lo lasci dire). Però, signora mia, si lasci dire anche questo: lo sa che le riderebbero dietro tutti i poliziotti che si occupano di queste cose: anche quello, suo amico, che avrebbe fatto sparire la famosa tenda di Firenze? (episodio che, nella epicità con cui l’ha raccontato, mi ricorda tanto “il famoso disastro del carrello del thé del ‘64” dell’impiegato contabile Bristow della Chester-Perry. Ma suppongo che lei non bazzichi questo tipo di letteratura inferiore: cartoons, puah!).
Ma non è ancora finita. Deve essersi resa conto che l’ha detta grossa, con i soldi di Bin Laden per gli emigranti. E allora aggiunge: “Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince. Anche se i nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c’è nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno che vuole mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio”. Ma per carità, signora: se la disturba, li cacciamo via. C’è altro che possiamo fare per lei? “E sbaglia chi questa faccenda la prende alla leggera”: mi domando se si riferisce all’immigrazione, o al fatto che lei è disturbata, a disagio. Per carità, signora, se possiamo fare qualcosa: che so, la disturbano i negri in genere, anche non musulmani, i terroni, i clericali, le automobili di colore scuro, i cani da passeggio, gli uomini col cappello: basta che ce lo dica, e li deportiamo tutti – non sia mai che lei dovesse sentirsi a disagio. Gradisce anche un thé, per caso? Latte o limone?
Sono d’accordo con lei, invece (è strano, nevvero?) quando dice che l’immigrazione di oggi in Europa è diversa da quella negli Stati Uniti del secolo scorso. Peccato che sia un’ovvietà che hanno già scritto cento e cento libri sull’immigrazione, al di qua e al di là dell’Atlantico. Ma il fatto che sia un fenomeno nuovo non ne fa di necessità un fenomeno catastrofico. Forse solo un fenomeno da governare e gestire in maniera diversa. Non pensa? Anche il computer è nuovo, anche internet, anche gli investimenti in Borsa in tempo reale e il turismo di massa, anche il movimento gay e le coppie di fatto, la carta di credito e i seni al silicone, il compact disc e le spedizioni su Marte, il cellulare e l’invecchiamento della popolazione: e allora? E si stava meglio quando si stava peggio, e non ci sono più le mezze stagioni… il livello è questo, signora mia: se ne è accorta?
La clandestinità è un problema, sono d’accordo con lei. Va governato, risolto, e si è fatto troppo poco. Ma a parte il fatto che almeno metà della soluzione andrebbe trovata in Italia, impedendo le assunzioni in nero e l’evasione fiscale, tanto per dire (e questo non lo vogliono nemmeno quelli che non vogliono l’immigrazione: e glielo spieghi lei, che è tanto convincente, che c’è una contraddizione…), qui c’è proprio un problema di sguardo. Ognuno vede ciò che vuol vedere. Lei dice: “Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno scorso i clandestini riempiron le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi”. Se proprio dobbiamo ragionare per slogan, che non è ragionare, posso anche raccontargliela diversamente. E dirle che io invece non dimenticherò mai quelle code in questura di centinaia di miti disgraziati, trattati come animali, certo non come cittadini, sotto la pioggia o il sole cocente, non una sedia, non una parvenza di organizzazione, non un’informazione esatta, per cui dovevi ritornare il giorno dopo: e butta via un altro giorno di lavoro, che tanto non sei nessuno. Né che a quei cortei tanta gente cantava. C’erano anche gli scout, e le suore, oltre che i giovani di Rifondazione, e i pugni alzati magari erano i loro, e certo quando si grida uno slogan la faccia si distorce, il gesto non è così fine come quando si porta in giro un barboncino al guinzaglio, e le labbra non sono così sottili e composte come quando si fuma una sigaretta col bocchino. Ma a parte questo, a differenza di lei, non penso che i cortei siano necessariamente il male assoluto, credo che siano uno dei modi in cui si pratica, e si impara anche, la democrazia: forse non il migliore, forse non il più efficace, ma è anche così, si stupirà, che ci si integra in un paese.
Parla dell’identità intrisa di cristianesimo dell’Italia. E chi la nega? Ma davvero è messa in crisi da quei quattro musulmani? La sua amata America l’ha forse persa? E se sì, è forse colpa dei sei (non ventiquattro) milioni di musulmani? Lo dice anche lei, senza accorgersene, che si può appartenere ad una cultura anche in modo soft: “Ecco: vedi? Ho scritto un’altra volta ‘perdio’. Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d’esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là”. Ammesso e non concesso che questo significhi avere una cultura cattolica, sa quanti musulmani conosco che sono musulmani esattamente come lei è cattolica: inshallah, ma’shallah, hamdulillah, salam aleikum, e poco altro. E, mi consenta: non sono necessariamente questi i migliori.
E poi, torniamo al suo profondo argomentare: “Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che mi ha imposto [e via con la solita argomentazione dell’inquisizione, tanto per essere originali, ndr] (…), sebbene coi preti io non ci vada proprio d’accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore”. Come direbbe Charlie Brown, tanto per stare in tema: “oddio”. La musica delle campane le piace tanto… Lo sa che la sua concezione dell’identità cattolica sta al cristianesimo come un Bacio Perugina sta all’amore? Anche a me la musica delle campane mi accarezza il cuore: ma poi, perdio (tanto per citarla, e farle vedere che un’identità cattolica ce l’ho anch’io), mi sa citare un solo caso in cui, in Europa, la musica delle campane non si sente più perché i musulmani l’hanno impedito? Avanti: dove? E allora, di che stiamo parlando?
“E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe”. Ammettiamolo. Anche a me le cattedrali piacciono tanto: anche se questo non esclude che mi piacciano anche alcune moschee e alcune sinagoghe (sarò un relativista culturale?). Ma le sembra un discorso? Lei cita le sinagoghe, per dire che le nostre chiese sono più belle. Tanto meglio per noi: ma le sembrerebbe un motivo per mettersi a lanciar crociate contro gli ebrei? Lo stesso dice delle chiese protestanti e delle loro funzioni, così noiose, senza immagini e incenso. Ben detto: cacciamo anche loro? Già che ci siamo… Come si dice: tolto il dente, tolto il dolore, no?
Forse non ci farebbe male, a tutti, un po’ più di umiltà. Sarebbe bello che anche questa virtù (così evangelica, tanto per restare in tema), di cui potremmo andare così fieri (anche questo uno dei tanti paradossi evangelici: andare fieri dell’umiltà; come quell’altra barzelletta che gli ultimi saranno i primi…), facesse parte della nostra eredità culturale, di quello che tanti oggi chiamano il nostro DNA culturale (e sbagliano: se lo fosse, com’è che io e lei non ce l’abbiamo uguale?). Persino lei, atea, vanta le sue radici cristiane (ma a lei, come ad altri, del cristianesimo piace altro: le belle cattedrali di pietra, le Madonne di Raffaello, il suono delle campane: ma Cristo, molto meno – così plebeo, così poco inquadrabile: uno che forse, oggi, ci andrebbe a cena, con gli immigrati musulmani…). Beh, mi dispiace, ma il ‘non possiamo non dirci cristiani’ così, alla buona, è un’idiozia. Il cristianesimo non è soltanto, non è neanche primariamente, le chiese romaniche, i cristi e le madonne della pittura rinascimentale, la simbolica di quando era bambina, che tanto, e giustamente, la intenerisce. E’ anche, è soprattutto, anzi forse è solamente una persona di cui lei pare disinteressarsi alquanto (è dal nome di questa persona, Cristo, che viene la parola…), che portava un messaggio d’amore, di giustizia e di riscatto: e anche una spada – che però non divide tra i cristiani e gli altri (troppo facile), ma dentro le famiglie, anche quelle culturali e religiose, tra fratello e fratello, tra padre e figlio e madre e figlia, dentro anche ciascuno di noi. Proprio come il jihad… Ed è questo a cui servono le chiese romaniche e la pittura rinascimentale: a ripetere, a trasmettere, a incarnare questo messaggio, che è anche un messaggio di equilibrio e di armonia, in una parola di bellezza. Ed è per questo che sono belle. E incidentalmente, credo che quando sono solo belle non lo siano più: come la Cappella Sistina, e tante altre – è un museo, non un luogo di preghiera: si visita, ma senza vera emozione. Bello ma senz’anima, se viene vissuto come un museo, da guardare. Il cristianesimo non si guarda, si vive. Non è lì, in quelle pietre, in quelle figure, che abita il cristianesimo: lì, semmai, ci abita la cristianità. Che, spesso, il cristianesimo l’ha tradito (proprio come tanti musulmani, anche autorevoli, tradiscono l’islam). Ma a lei, atea, tutto ciò sembra interessare assai meno. Nelle sue invettive non ce n’è traccia, di questo cristianesimo. Lei è libera di capire il cristianesimo come crede, e di farsene paladina a modo suo. Solo sappia che altri ne hanno tutt’altra idea. E non sono per questo meno cristiani di lei: e nemmeno musulmani…
“Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un’ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori”. Forse se la nostra identità fosse così precisa, non staremmo lì ad arrovellarci tanto per definire che cos’è. Ma a parte questo: sicura che non abbiano di meglio da fare? Che passino il loro tempo libero a pensare come introdurre lo stato islamico, applicare la shari’a e imporre il chador alle donne italiane (impresa del resto disperata)? Ma se non lo fanno nemmeno nel loro paesi! Se qui sono impegnati a guadagnare quattro lire, e magari godersela un po’, e i loro figli a studiare, magari più dei nostri! E se poi alcuni preferiscono sposarsi tra di loro e si vestono in maniera stramba, lei che ci perde? Disturba il suo senso estetico? Perché: i punkabbestia no? I tangheri del sabato sera no?
“Sto dicendoti che da noi non c’è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei”. Ma lei chi è, signora: il nostro santo patrono? Capirei ci fosse un argomento: ma, in drammatica mancanza di essi, ci dobbiamo fidare solo della sua parola? “Significherebbe regalargli l’Italia. E io l’Italia non gliela regalo”. A parte che non significherebbe affatto questo: al massimo significherebbe affittargli – non regalargli, ché non gli regaliamo niente – un cantuccio dove pregare insieme. Ma il suo argomentare mi ricorda tanto quanto Pietro Scoppola scriveva della chiesa cattolica negli anni Cinquanta: essa aveva paura che il nemico fosse il comunismo, e lo combatteva, lo scomunicava persino; e non si accorgeva che il nemico veniva da dietro, da dentro: e si chiamava secolarizzazione, laicizzazione, individualismo, consumismo. Nemico, voglio dirlo, che non è detto fosse negativo, in prospettiva: nemmeno per la chiesa. Ma, appunto, era dentro e dietro di noi, anche se era percepito come nemico esterno, come antagonista all’ultimo sangue. Tanti discorsi sull’identità italiana, come il suo, virulenti ma vuoti (a differenza di altri, assai seri), mi fanno pensare che oggi stia accadendo la stessa cosa.
Lieto del suo patriottismo, signora. Facile, me lo lasci dire, dall’America. E’ più difficile, glielo assicuro, essere italiano, e fiero di esserlo, in Italia, specie in periodi come questi, anche senza che gli italiani d’America vengano a farci la lezione. Ma lieto, davvero, del suo patriottismo. Che lei stessa ammette, dichiara, essere un patriottismo legato a un’Italia ideale. Si tranquillizzi, è così anche per noi: a guardar quella reale viene meno bene, e allora anche noi, per tirarci su il morale, pensiamo a Dante e a Verdi (a Verdi un po’ meno da quando del coro del Nabucco se ne è fatta un inno tutto suo la Lega, che di patriottismo come noto ne ha da vendere). Ma non dica che quella non patriottica, alla sua maniera, “è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità”. Primo perché – e so che questo esercizio le è particolarmente difficile – il suo pensiero, per quanto importante, non è la verità: al massimo un tentativo, fra i tanti, di rifletterci sopra. E non dei meglio riusciti. Poi perché anche chi non sarà d’accordo con lei non è detto che la odi (altro modo di essere presuntuosi: chi non è con me è contro di me, chi non mi ama mi odia. Così ragionano i bambini: lo sa signora? O gli inviati di Dio. Lei, per età, come dice lei stessa, non appartiene più alla prima categoria. Non sarà mica, anche lei, della seconda? Nel caso non lo sapesse, la informo: c’è già tanta concorrenza in giro…). Io per esempio, che come avrà capito non sono d’accordo quasi su niente, con lei, non la odio per nulla. Semplicemente, non sono d’accordo. In una sana democrazia è ancora possibile. E’ dove si demonizza l’altro, dove lo si dipinge come non è, dove si scontrano gli opposti fondamentalismi, insomma è nel mondo che descrive lei, per come lo descrive lei, con le parole che usa lei, che questo non è più possibile.
“Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t’avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse e a polemica vane”. Comodo, dopo averne scatenata una, e gigantesca. Ma lo sa, signora, che le sue parole sono e saranno armi che altri useranno per bastonare i vostri comuni nemici? Ne è consapevole, di questa responsabilità? Non ha il diritto di chiamarsene fuori, signora: gliene chiederemo conto.
“Ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata”. Ecco, caro Ferruccio, lasciala lavorare (immagino che finora anche lei sia consapevole di avere fatto altro, che questo suo scrivere non fosse degno di essere chiamato lavoro). Non disturbarla più. “Punto e basta”, come chiude lei. In fondo, si è trattato di una parentesi. Per riprendere il titolo di un suo libro: Niente e così sia.