Ariel Levi di Gualdo riporta nelle oltre trecento pagine di questo volume una fitta e documentata serie di considerazioni non soltanto sul sionismo propriamente detto, ma sulla vita ebraica in generale e su quella delle comunità peninsulari in particolare, il cui ambiente e le cui dinamiche devono essergli ben noti per esperienza personale. Fitti di aneddoti, citazioni e prestiti dalla panoplia psicanalitica, i sei capitoli di Erbe amare costituiscono una prodigiosa antologia di antidoti contro i luoghi comuni e le parole d'ordine di quella ebraicità edulcorata e remunerativa, e di quel sionismo d'accatto che non soltanto infarciscono l'intero mainstream mediatico, ma che stanno di fatto finendo di uccidere l'ebraismo peninsulare.
Il primo capitolo è dedicato al "ghetto dell'ebreo patologico" e vi si trova in nuce il tema di fondo di tutto il volume, quello di un ebraismo non da oggi prigioniero della propria minuziosa codificazione e dei mille irrinunciabili laccioli fondamentali per la costruzione ed il rafforzamento identitario. In più punti, l'autore ribadisce il fatto che la differenziazione identitaria rischia di far sì che l'ebreo sia veramente trattato come un "diverso", con le spaventose conseguenze note a tutti. Tra le altre cose, nelle stesse pagine si espongono brevemente anche i rapporti tra ebrei e politica peninsulare, dall'unificazione del regno al fascismo; rapporti meno lineari di quanto si potrebbe pensare.
Gli "ebrei da salotto" è un capitolo in cui l'aneddotica di cui sono protagonisti personaggi riconoscibilissimi della vita politica ed economica, oltre che del mondo dello spettacolo, serve per assestare una lunga serie di mazzate alle usanze cialtrone dell'"ebraismo alla moda", confrontando i comportamenti di chi vi si richiama con quelli della codificazione redatta da secoli di capzioso lavoro talmudistico, improntati ad un ben diverso rigore. Si trova qui, inoltre, una serrata e chiara denuncia del sionismo bellicoso di cui dànno spesso prova individui perfettamente a loro agio nella diaspora romana o milanese.
Il primo capitolo è dedicato al "ghetto dell'ebreo patologico" e vi si trova in nuce il tema di fondo di tutto il volume, quello di un ebraismo non da oggi prigioniero della propria minuziosa codificazione e dei mille irrinunciabili laccioli fondamentali per la costruzione ed il rafforzamento identitario. In più punti, l'autore ribadisce il fatto che la differenziazione identitaria rischia di far sì che l'ebreo sia veramente trattato come un "diverso", con le spaventose conseguenze note a tutti. Tra le altre cose, nelle stesse pagine si espongono brevemente anche i rapporti tra ebrei e politica peninsulare, dall'unificazione del regno al fascismo; rapporti meno lineari di quanto si potrebbe pensare.
Gli "ebrei da salotto" è un capitolo in cui l'aneddotica di cui sono protagonisti personaggi riconoscibilissimi della vita politica ed economica, oltre che del mondo dello spettacolo, serve per assestare una lunga serie di mazzate alle usanze cialtrone dell'"ebraismo alla moda", confrontando i comportamenti di chi vi si richiama con quelli della codificazione redatta da secoli di capzioso lavoro talmudistico, improntati ad un ben diverso rigore. Si trova qui, inoltre, una serrata e chiara denuncia del sionismo bellicoso di cui dànno spesso prova individui perfettamente a loro agio nella diaspora romana o milanese.
Il terzo capitolo denuncia l'uso strumentale del genocidio ebraico in Europa ai fini di giustificare l'ingiustificabile, e ridimensiona con efficacia ogni aspetto mitico dell'entità statale sionista. Una lettura importante per quanti si trovassero nella necessità di dover togliere dalle manine dei tanti, troppi difensori d'ufficio su cui l'entità statale sionista può fare affidamento nelle sedi politiche e nelle conventicole mediatiche più trafficate, molte delle loro più trite armi retoriche.
Nel quarto capitolo si trova la maggior parte della trattazione che mette in luce i limiti e finanche la pericolosità di una vita sociale improntata all'osservanza dei minuziosi precetti estrapolati da un Talmud nel quale è possibile trovare tutto ed il contrario di tutto; il consueto rinforzo aneddotico di molte asserzioni serve qui a denunciare la gamma insospettata di storture che punteggiano l'esistenza di chi vive un ebraismo ridotto al pedissequo rispetto di una codificazione identitaria; un limite non certo nuovo, se Cristo stesso lo aveva denunciato ai suoi tempi. Levi di Gualdo sottolinea anche le considerazioni tutt'altro che lusinghiere nei confronti del cristianesimo che è possibile rafforzare con citazioni talmudiche; una sorta di prodromo all'argomento principale del capitolo successivo.
Con buon piglio documentale e confutatorio, il quinto capitolo è dedicato a contrastare molte delle asserzioni che negli ultimi anni hanno messo in dubbio l'impegno del pontefice Pio XII per la salvezza degli ebrei peninsulari. Il filo rosso che domina tutto il volume, quello di un ebraismo per il quale l'erezione di steccati tra se stesso e il rimanente del mondo è impegno da assolvere in ogni circostanza con zelo sacerdotale, emerge anche in quest'occasione e fa concludere che in realtà la querelle storiografica messa in piedi nei confronti di Pio XII sia solo il caso particolare di una prassi estendibile a qualunque materia.
Nell'ultimo capitolo la riconsiderazione per una torà priva degli orpelli talmudici e la constatazione dell'auspicabilità di una profonda e radicale riforma di un mondo ebraico in asfissia al quale poco servizio rendono gli inventori di realtà elegiache mai esistite davvero sono accompagnate dalla constatazione e da una conclusione recisa, secondo la quale non da oggi, ma da secoli una cerchia ristretta che ha dimenticato l'essenza della carità e dell'amore per lavorare alacremente solo alla propria autoreferenzialità rappresenta un mondo dal quale si può e si deve sfuggire. Le erbe amare, il maror del titolo, sono uno dei molti esempi riportati da un autore ormai convinto che l'essenza dell'ebraismo siano (divenuti?) per gli ebrei stessi il rispetto delle minuzie rituali o il cibo kosher, piuttosto che l'esistenza o meno di un'entità superiore.
Il libro di Ariel Stefano Levi di Gualdo è scritto con una proprietà di linguaggio che è diventata piuttosto rara e presenta stile, sintassi e vocaboli a tratti addirittura arcaizzanti; una inaspettata boccata d'ossigeno nell'epoca degli xché e dei nn. Il volume, sia per gli argomenti trattati che per gli strumenti confutatori di cui costituisce un buon esempio d'uso, rappresenta una lettura costruttiva per chiunque si dedichi all'iconoclastica attività di sgonfiatore di palloni gonfiati o di ridimensionatore per entusiasmoni d'assalto.
Ariel Stefano Levi di Gualdo, Erbe Amare - Il secolo del sionismo, Bonanno 2007. 315 pp.
Nel quarto capitolo si trova la maggior parte della trattazione che mette in luce i limiti e finanche la pericolosità di una vita sociale improntata all'osservanza dei minuziosi precetti estrapolati da un Talmud nel quale è possibile trovare tutto ed il contrario di tutto; il consueto rinforzo aneddotico di molte asserzioni serve qui a denunciare la gamma insospettata di storture che punteggiano l'esistenza di chi vive un ebraismo ridotto al pedissequo rispetto di una codificazione identitaria; un limite non certo nuovo, se Cristo stesso lo aveva denunciato ai suoi tempi. Levi di Gualdo sottolinea anche le considerazioni tutt'altro che lusinghiere nei confronti del cristianesimo che è possibile rafforzare con citazioni talmudiche; una sorta di prodromo all'argomento principale del capitolo successivo.
Con buon piglio documentale e confutatorio, il quinto capitolo è dedicato a contrastare molte delle asserzioni che negli ultimi anni hanno messo in dubbio l'impegno del pontefice Pio XII per la salvezza degli ebrei peninsulari. Il filo rosso che domina tutto il volume, quello di un ebraismo per il quale l'erezione di steccati tra se stesso e il rimanente del mondo è impegno da assolvere in ogni circostanza con zelo sacerdotale, emerge anche in quest'occasione e fa concludere che in realtà la querelle storiografica messa in piedi nei confronti di Pio XII sia solo il caso particolare di una prassi estendibile a qualunque materia.
Nell'ultimo capitolo la riconsiderazione per una torà priva degli orpelli talmudici e la constatazione dell'auspicabilità di una profonda e radicale riforma di un mondo ebraico in asfissia al quale poco servizio rendono gli inventori di realtà elegiache mai esistite davvero sono accompagnate dalla constatazione e da una conclusione recisa, secondo la quale non da oggi, ma da secoli una cerchia ristretta che ha dimenticato l'essenza della carità e dell'amore per lavorare alacremente solo alla propria autoreferenzialità rappresenta un mondo dal quale si può e si deve sfuggire. Le erbe amare, il maror del titolo, sono uno dei molti esempi riportati da un autore ormai convinto che l'essenza dell'ebraismo siano (divenuti?) per gli ebrei stessi il rispetto delle minuzie rituali o il cibo kosher, piuttosto che l'esistenza o meno di un'entità superiore.
Il libro di Ariel Stefano Levi di Gualdo è scritto con una proprietà di linguaggio che è diventata piuttosto rara e presenta stile, sintassi e vocaboli a tratti addirittura arcaizzanti; una inaspettata boccata d'ossigeno nell'epoca degli xché e dei nn. Il volume, sia per gli argomenti trattati che per gli strumenti confutatori di cui costituisce un buon esempio d'uso, rappresenta una lettura costruttiva per chiunque si dedichi all'iconoclastica attività di sgonfiatore di palloni gonfiati o di ridimensionatore per entusiasmoni d'assalto.
Ariel Stefano Levi di Gualdo, Erbe Amare - Il secolo del sionismo, Bonanno 2007. 315 pp.