Il saggio di Guido Regina tratta delle origini e delle vicende del movimento sionista, fino alla nascita dello stato sionista nel 1948; i punti salienti della trattazione sono riepilogati dalla breve prefazione dello storico dell'ebraismo Riccardo Calimani. Regina propone un elaborato fitto di nomi e di relativi richiami biografici; afferma che una buona conoscenza dei prodromi del sionismo, delle sue motivazioni e della sua storia siano indispensabili a un'opinione verosimilmente equilibrata sullo stato sionista, a prescindere dai suoi "molti e criticabili" atteggiamenti politici, e che per comprendere un conflitto mediorientale tutt'ora in essere e privo di veri vincitori occorra identificarne le radici.
Nella prima parte del saggio Regina espone in un primo capitolo le diverse condizioni che in Europa occidentale avrebbero avuto un peso nella nascita e nell'orientamento del movimento sionista, identificate nel fallimento della completa assimilazione e quindi nella ascesa di un antisemitismo di impronta razzista destinato a sovrapporsi a pregiudizi antichi. L'A. nota come in pieno Illuminismo, nonostante le simpatie dei Montesquieu. dei Lessing e dei Rousseau, perdurasse generalmente verso gli ebrei un clima di più o meno aperta discriminazione, attestata e normata soprattutto in Europa centrale e abrogata solo in parte e solo dopo il 1781. Lo stesso 1781 in cui Lessing avrebbe portato all'attenzione del pubblico la figura dell'iniziatore dell'illuminismo ebraico Moses Mendhelsshon. Regina ripercorre le vicende della emancipazione ebraica promossa dalla Rivoluzione francese, la cui statuita parità di diritti avrebbe influenzato tutti i territori europei soggetti all'influenza francese dal 1791 in poi. Sarebbe stato questo rapidissimo processo di emancipazione a risvegliare negli ebrei "un primo ma profondo senso di identità, la percezione di costituire una nazione"; nel 1799 lo stesso Napoleone si sarebbe appellato ai "legittimi eredi della Palestina". Dopo il 1815 i sovrani restaurati avrebbero cercato di ripristinare i propri poteri e quelli della Chiesa cattolica; con le eccezioni del Regno Unito, della Francia, del Belgio e dell'Olanda l'emancipazione ne avrebbe risentito e l'A. ricorda la recrudescenza antisemita del 1819: considerati dei parvenu e degli arrampicatori sociali, gli ebrei avrebbero dovuto nuovamente confrontarsi con i tradizionali stereotipi tedeschi che li consideravano degli estranei al corpo sociale. L'emancipazione avrebbe comunque preso la via della cultura, tramite l'ambiente universitario berlinese cui sarebbero appartenuti i primi storiografi ebrei come Marcus Jost e Heinrich Graetz. Secondo Regina le loro opere avrebbero risposto alle richieste identitarie di un popolo disperso dagli avvenimenti del passato e che avrebbe stentato a riconoscersi nella sola appartenenza religiosa, in un ambiente dove comunque la conversione restava il percorso di integrazione principale. Giuristi come Stahl, poeti come Heine e filosofi come il precursore del sionismo Moses Hess avrebbero pagato con la conversione formale quello che Heine avrebbe chiamato "il biglietto di ingresso nella società europea". Nonostante i moti del 1848, in Europa centrale l'emancipazione sarebbe stata prevista anche per legge solo venti anni dopo. La fine della segregazione a Roma sarebbe arrivata solo nel 1870. A un "caso Mortara" nella penisola italiana, Regina mette come contraltare il sostanziale completamento dell'emancipazione avvenuto già nel 1858 nel Regno Unito e che avrebbe consentito a Lionel de Rothschild di sedere il Parlamento. L'A. scrive che con l'emancipazione avrebbe guadagnato spazio e visibilità, soprattutto in Europa centrale, un movimento riformista propenso a drastiche modifiche nelle pratiche religiose, cui si sarebbe immediatamente contrapposta una corrente favorevole all'ortodossia. Da notare l'affermazione che Regina trae dall'ortodosso Samson Raphael Hirsch, che avrebbe incoraggiato la partecipazione degli ebrei alla cultura dell'ambiente ospitante "sino a quando l’Onnipotente, nella sua impenetrabile saggezza, riterrà opportuno riunire i suoi servi dispersi in una terra e la Torah sarà il principio guida di uno Stato". Regina identifica la nascita dell'antisemitismo tedesco contemporaneo negli scritti di Wilhelm Marr, che fin dal 1879 avrebbe sostenuto -trovando molti imitatori da Adolf Stoecker a Karl Eugen During fino a a Houston Stewart Chamberlain- che l'emancipazione avrebbe consentito agli ebrei, razzialmente resistenti a qualsiasi persecuzione, di infettare i tedeschi e di controllarne le sorti prendendo in mano la finanza. L'ostilità contro gli ebrei francesi avrebbe invece avuto un picco di visibilità nell'affare Dreyfus, anch'esso ricordato da un Regina che nota come Theodor Herzl ne sarebbe stato influenzato nel suo giungere alla conclusione che il problema ebraico sarebbe stato essenzialmente un problema nazionale, da trattare come "una questione di politica universale che si dovrà regolare nel consesso dei popoli civili".
Nello stesso periodo storico in Russia gli ebrei avrebbero costituito un diversivo per i problemi del Paese e un capro espiatorio da additare alla popolazione più povera. Nel secondo capitolo Regina avrebbe identificato in questa condizione il motivo dell'immigrazione che in ondate successive avrebbe portato alla formzaione dello stato sionista. Con la spartizione della Polonia la Russia avrebbe incorporato circa quattrocentomila ebrei che dopo un primo periodo di tolleranza sarebbero stati soggetti a discriminazioni sempre più pesanti, dall'obbligo di risiedere nella Zona di Residenza Coatta alla doppia tassazione. L'unità linguistica e culturale della popolazione ebraica conservata e rafforzata negli shtetlekh, se rendeva sensato il definirla una nazione, la rendeva anche soggetta a pregiudizi inveterati. Secondo l'A., l'organizzazione dell'autogoverno e della carità vigenti nello shtetl avrebbero fatto da modello per gli insediamenti in Palestina. Nello shtetl l'osservanza religiosa e la cultura sarebbero state considerate i valori predominanti; avrebbero sotteso un legame mai reciso con l'antica Israele sottolineando la condizione di un popolo che si considerava temporaneamente in esilio in attesa della redenzione e del ritorno. Alla fine del XVIII secolo una relazione allo zar di Gavriil Romanovic Derzhavin su una carestia in Bielorussia avrebbe rilanciato e consolidato gli stereotipi più deteriori e deplorato nello specifico l'organo di autogoverno e di mediazione del Kahal, che nel 1868 Jacob Brafman avrebbe presentato come a capo di una cospirazione avente lo scopo di dominare il mondo. Regina rievoca le riforme dello zar Alessandro I concretizzatesi nel 1804 in uno "statuto degli ebrei", e la lunga serie di provvedimenti repressivi e vessatori (leva obbligatoria trentennale, proibizione della stampa in yiddish, riduzione della Zona di Residenza...) promossi da Nicola I durante i trent'anni del suo regno. Regina sottolinea come la scarsa conoscenza della tradizione e della cultura ebraiche avrebbe fatto propendere il governo russo verso una visione che consierava gli ebrei come dediti a un fanatismo religioso suscettibile di minare alla base i rapporti con i sudditi cristiani; fenomeni come quello dei chassidim avrebbero quindi destato sospetto perché impenetrabili e incomprensibili. Con Alessandro II al contrario si sarebbe cercato di capire quali ostacoli avessero impedito la commistione degli ebrei alla rimanente popolazione e sarebbe stato avviato un cauto processo di allentamento delle discriminazioni contro una "popolazione sobria e industriosa". L'A. sottolinea come a tale processo sarebbe corrisposto il proliferare di dicerie antisemite riprese da certa letteratura e periodicamente destinate a sfociare nei pogrom. Accusati di costituire una "casta sociopolitica", gli ebrei avrebbero dovuto affrontare l'eliminazione delle ultime vestigia di autogoverno e di qualsiasi altra cosa potesse alimentare la loro autocoscienza e la loro coesione. L'A. ricorda come l'ingresso degli ebrei nelle scuole statali avrebbe comunque comportato una rivoluzione culturale -sia pure non priva di resistenze- diffondendo la grande letteratura e le nuove idee del positivismo scientifico, cui avrebbe contribuito la diffusione della stampa in russo, ebraico e yiddish. Sarebbe andata formandosi anche una ristretta élite ammessa al mondo delle professioni e dell'industria. Regina ricorda come invece il successore Alessandro III avrebbe sostanzialmente affossato la legislazione liberale e accentuato il carattere centralizzato, burocratico e classista del governo russo validamente sostenuto da personalità antiliberali e antisemite come Konstantin Pobedonotsev. A questa tendenza si sarebbero accompagnati i primi pogrom del 1881 in Ucraina e in Bielorussia, con centinaia di vittime ed estese devastazioni. La giustizia russa avrebbe cercato di negare il carattere antisemita del fenomeno, ne avrebbe genericamente incolpato il movimento anarchico (se non le stesse vittime) e avrebbe sanzionato i pochi colpevoli processati con pochi mesi di detenzione. Regina sottolinea come nel 1881-1882 si sarebbe avuta una prima ondata di emigranti ebrei dalla Russia quantificabile fra le trenta e le quarantamila persone, per lo più dirette verso gli USA. L'idea nazionale ebraica avrebbe iniziato a prendere forma in questo contesto grazie alla stampa e al lavoro di intellettuali convinti che occorresse lavorare alla costituzione di una nazione in grado di reinsediarsi nella terra dei padri. Convinto del carattere inesorabile dell'antisemitismo, Perez Smolenskin per primo avrebbe sostenuto la necessità di una massiccia emigrazione in Palestina sostenuta economicamente dai banchieri Rothschild e dalle organizzazioni ebraiche occidentali. Vari autori, come Smoleskin ascrivibili al gruppo dei Maskilim (aderenti alla Haskalah, l'illuminismo ebraico) sostennero la scelta nazionalista; Moses Leib Liliemblum avrebbe affermato tra i primi che gli ebrei "mantenevano un diritto storico nella terra dei loro avi che la perdita dell'indipendenza non aveva né cancellato né privato della sua validità" e che restare in Europa avrebbe significato l'attesa passiva dell'annientamento. L'A. ricorda Liliemblum e Leon Pinsker come impegnati anche nel Chibbat Zion, favorevole all'emigrazione ebraica in Palestina e creatore dei primi insediamenti nel 1882. I giovani che avrebbero rifiutato sia l'atteggiamento attendista che l'emigrazione, scrive Regina, sarebbero spesso entrati nei movimenti rivoluzionari alimentando così l'antisemitismo diffuso e in ultima analisi influenzando le "leggi di maggio" volute da Alessandro III dal 1882 in poi, con cui la vita ebraica venne strettamente irreggimentata, limitata e ostacolata per diversi anni. Regina ricorda che a dare il via alla prima aliyah verso la Palestina sarebbero stati alcuni studenti di Kharkov, partiti il 24 giugno 1882. Una svolta che Regina definisce decisiva per la storia ebraica ci sarebbe stata solo con la morte di Alessandro III nel 1894 e la fondazione del movimento socialista ebraico -il Bund- nel 1897.
Nel terzo capitolo Regina tratta dei precursori del sionismo. Negli anni fra il 1850 e il 1870 l'idea di ricostituire un nucleo nazionale nella patria ancestrale, sostenuta da un gruppo di rabbini e dal filosofo socialista Moses Hess, avesse preso forma già prima del sionismo politico. Secondo Regina il sionismo vero e proprio avrebbe potuto svilupparsi con la modernizzazione della lingua ebraica (completata a Gerusalemme da Eliezer Ben Yehuda), con la modernizazione dell'economia e con l'affermarsi di leader politici realisti e determinati influenzati dal risveglio nazionalista in Europa.
Regina ricorda la figura di Yehduah Alkalay come primo assertore di un progetto nazionale coniugato all'idea della redenzione -il ritorno in Eretz Israel avrebbe propiziato la venuta del Messia- e sostenitore della rinascita dell'ebraico, del lavoro agricolo in terre riacquistate in Palestina e della fondazione di un parlamento ebraico. Il tutto con l'aiuto finanziario di ebrei facoltosi ed autorevoli. Zvi Hirsch Kalischer avrebbe invece unito la visione ortodossa all'ideologia nazionalista intendendo l'emancipazione come segno dell'approssimarsi dell'era messianica di cui l'uomo avrebbe potuto accelerare il manifestarsi. Il ritorno operoso in Eretz Israel avrebbe costituito una "redenzione naturale", premessa a quella soprannaturale. Per primo Moses Montefiore avrebbe ascoltato l'appello di Kalischer, acquistando un aranceto in Palestina.
L'A. tratta quindi di Yosef Yivo Natonek, costretto nei suoi scritti a nascondersi con vari pseudonimi a causa del suo pensiero moderno e pragmatico che lo avrebbe spinto a recarsi più volte a Istanbul per presentare al Sultano le sue proposte per un'autonomia ebraica e che si sarebbe interessato soprattutto al recupero della lingua.
Regina accenna infine a Moses Hess, considerato il principale esponente del presionismo. Sicuro che la simpatia dei "potenti popoli civili d'occidente" fosse assicurata anche al più piccolo dei popoli che rivendicasse i propri diritti e che le aspirazioni del popolo ebraico non potessero essere negate da qualsiasi popolo moderno senza entrare in una contraddizione fatale, Hess avrebbbe sostenuto il carattere nazionale della storia ebraica e visto in una pur vaga inclinazione alla giustizia il vero motore della storia. Regina considera profetiche le considerazioni di Hess sull'antisemitismo tedesco, ma considera poco pragmatico il suo Roma e Gerusalemme a paragone con la produzione sionista vera e propria.
Nel quarto capitolo Regina mostra gli sviluppi che da queste basi avrebbero portato il progetto politico sionista a forma compiuta. L'A. scrive che il fallimento della emancipazione in Russia avrebbe imposto l'elaborazione di una politica ebraica autonoma. Leon Pinsker avrebbe sostenuto già nel 1882 la inemendabilità di un antisemitismo che, da medico, avrebbe classificato tra le malattie fobiche ereditarie e incurabili. Eterni stranieri, gli ebrei sarebbero stati sottomessi ovunque agli stessi non ebrei che pure erano permanentemente accusati di sfruttare. Nell'epoca dei nazionalismi, Pinsker avrebbe pragmaticamente sostenuto un concreto risveglio nazionale ebraico destinato a rafforzare un movimento "irreversibile verso la Palestina". L'A. riporta come negli stessi anni in territorio zarista sarebbero state fondate varie organizzazioni nazionaliste -come la Chibbat Zion- corrispondenti all'auspicio di Pinsker e animate da studenti ebrei radicali ispirati dal populismo russo, in cui la cultura religiosa si mescolava alle idee liberali dell'illuminismo ebraico. Regina nota che la Palestina dell'epoca, in cui piccoli nuclei di ebrei avrebbero costituito una presenza ininterrotta, avrebbe contato ventiquattromila ebrei su quattrocentocinquantamila abitanti alla fine del XVIII secolo grazie all'arrivo di gruppi chassidici dalla Polonia. Prima della prima alyah vera e propria del 1881-1903, una ondata migratoria orientata alla nascita della nazione, ad essi si sarebbero aggiunti gruppi provenienti dal nord Africa, dalla Georgia, dalla Persia e dall'Asia centrale.
Regina tratta della prima aliyah e della organizzazione Beit Yaakov Lekhu Venelkha, diretta da giovanissimi idealisti che avrebbero cooptato giovani "istruiti, sviluppati spiritualmente e moralmente" e disposti al lavoro agricolo, alla rinuncia alla proprietà privata e alla totale dedizione alla causa. I giovani bilulim (non più di una quindicina) avrebbero cercato di conoscere con lo studio il mondo arabo, che avrebbero voluto portare dalla loro parte "con la convivenza e l'esempio". L'A. sottolinea come al di là dei pressoché nulli risultati pratici conseguiti la condizione esistenziale dei bilulim avrebbe permesso la creazione di una nuova figura di ebreo che sarebbe stata un prototipo per le future generazioni.
Regina segue Pinsker nella fondazione dei Chovevei Zion, comitati per la raccolta di denaro destinato all'acquisto di terre in Palestina e per il sostegno economico degli insediamenti già esistenti, e nella loro storia. Dal 1890 Chibbat Zion avrebbe acquistato ogni anno terreni in Palestina sufficienti alla alyah di non più di quindici famiglie, ma la stampa avrebbe iniziato a parlare di uno yishuv ("insediamento") nazionale. L'A. nota che Chibbat Zion non ricorse a strategie che permettessero di attirare simpatie dal molto più agiato ebraismo occidentale; anzi, il barone Rothschild avrebbe surclassato il Chibbat Zion finanziando con cifre venti volte superiori un apparato amministrativo totalmente dipendente da suoi funzionari, incaricati a loro volta di acquistare terre e di avviare industrie secondo uno spirito paternalistico in netto contrasto con lo spirito idealista e socialista di molti immigrati. Secondo Regina dopo la morte di Pinsker e verso il 1893 -anno in cui l'Impero Ottomano avrebbe iniziato a ostacolare l'immigrazione ebraica e l'acquisto di terre- sarebbero stati presenti in Palestina una ventina di insediamenti con circa quattromila abitanti, per la cui sopravvivenza l'aiuto di Rothschild si sarebbe comunque rivelato indispensabile. L'A. conclude ricordando che dopo il 1900 e il subentrare a Rothschild della Jewish Colonization Association -fondata a Londra nel 1891 da Maurice de Hirsch- il numero di immigrati ebrei sarebbe salito a circa diecimila persone; le restrizioni sull'acquisto di terre sarebbero state superate intestandole a ebrei ottomani, i limiti alla permanenza nel paese per i nuovi giunti ricorrendo alla corruzione.
Nel quinto capitolo Regina presenta la figura di Theodor Herzl e la nascita del sionismo politico. Theodor Herzl avrebbe preso le mosse da Hess e da Pinsker, affidando la prospettiva del ritorno ebraico in terra di Israele a un progetto laico di vero e proprio stato nazionale, e avrebbe redatto il suo Der Judenstaat sancendo la nascita del sionismo politico non tanto e non solo come reazione per l'affare Dreyfus, ma in seguito al montare dell'antisemitismo tedesco dopo il 1880. Come Pinsker, Herzl sarebbe stato convinto che l'essenza del problema ebraico fosse nazionale e che solo l'esistenza di un territorio sotto sovranità ebraica avrebbe potuto fare degli ebrei un popolo come gli altri. L'A. descrive la difficile affermazione di Herzl (de Hirsch e Rothschild non si sarebbero degnati di riceverlo) e sulla sua costruzione insieme a Max Nordau di un sionismo politico lontano "dai desiderata della tradizione religiosa" e destinato a un popolo reso tale -che lo volesse o no- dal nemico comune di un antisemitismo diffuso ovunque. Regina tratta del contenuto del Der Judenstaat, del suo programma per la costruzione di uno stato ebraico la cui sede avrebbe potuto essere in Argentina o in Palestina, e delle traversie affrontate da Herzl per contattare, con pochissimi risultati, governanti e personaggi influenti. Il libro descrive quindi lo svolgimento del primo congresso sionista del 1897, che Herzl avrebbe organizzato a beneficio delle masse ebraiche e contro il quietismo di molti rabbini tedeschi. La proposta fondamentale del congresso sarebbe stata la creazione di una Heimstätte ebraica in Palestina garantita dal diritto pubblico. Regina specifica che Nordau avrebbe scelto con cura un vocabolo che sfumasse le vere aspirazioni del sionismo, in modo da tutelarsi dalla probabile ostilità ottomana. L'anno successivo, scrive l'A., si sarebbe tenuto nella stessa sede di Basilea un secondo e molto più partecipato congresso in cui alcuni partecipanti reduci dalla Palestina si sarebbero espressi con ottimismo sulla riuscita dell'impresa e sulla possibile convivenza con la popolazione locale: Regina nota che "l'elegante ed affermato avvocato ebreo di Londra" Herbert Bentwich avrebbe assicurato ai presenti che "la Palestina non ha ancora adottato nessun altro popolo". I sionisti politici ne avrebbero concluso che "uno Stato di Palestina non era mai esistito, mentre era esistito il regno dell’antica Israele". L'A. nota come anche i contatti con Guglielmo II resi possibili dalla grossa visibilità delle iniziative di Herzl non avrebbero portato a risultati concreti; secondo Regina l'imperatore si sarebbe davvero speso a favore della causa sionista, ricevendo però da Istanbul soltanto risposte evasive. Di qui la decisione di Herzl, comunicata a un ancor più partecipato (e meglio finanziato) congresso tenutosi l'anno seguente di rivolgersi direttamente a Abdul Hamid. Regina tratta del quarto congresso sionista tenutosi a Londra nel 1900 -notando come Herzl avrebbe compreso le potenzialità insite in un'intesa con la più grande potenza dell'epoca- e del colloquio con il sultano effettivamente tenutosi nel maggio 1901 a Istanbul senza esiti pratici, di cui Herzl avrebbe riferito a Basilea durante il quinto congresso. Per un riconoscimento ufficiale e diplomatico della presenza ebraica in Palestina Herzl avrebbe puntato a un accordo finanziario per cui gli ebrei avrebbero sostanziosamente contribuito a ridurre il debito pubblico ottomano. Il quinto congresso avrebbe delineato anche un sionismo sintetico in cui a una politica preparatoria fatta di preparazione culturale e pratica si sarebbe affiancata una politica proclamatoria centrata sulla pubblica denuncia delle rivendicazioni ebraiche. L'A. descrive le successive trattative con Abdul Hamid del 1902 e il loro insuccesso, presentando il romanzo di Herzl Alteneuland come un'opera che faceva intravedere i risultati che i sionisti avrebbero potuto ottenere con il proprio impegno: primo tra tutti la costruzione di una società laica e tollerante. Nello stesso anno si sarebbe tenuto anche un convegno sionista a Minsk, sorvegliatissimo dalle autorità russe, cui avrebbero partecipato varie personalità destinate a rivestire ruoli molto rilevanti nell'organizzazione e nello sviluppo degli insediamenti nei decenni successivi. Herzl avrebbe trascorso il periodo precedente il sesto congresso facendo affannosi tentativi di giungere a risultati concreti; l'A. descrive il suo rapporto col ministro degli interni zarista Plehve dopo un pogrom in Moldavia, e l'atteggiamento russo improntato a una certa disponibilità verso il movimento sionista diretto in Palestina e a una chiusura totale allo sviluppo di un nazionalismo ebraico in Russia. Il sesto congresso sarebbe stato quello del riepilogo dei molti dinieghi ricevuti in sede internazionale, della mezza promessa da parte britannica di un territorio in Africa Orientale come "espediente su base nazionale e politica" e soprattutto della contrapposizione di idee tra territorialisti e palestinocentrici, tra sostenitori e oppositori della linea di Herzl. Regina ricorda che la prospettiva di finire in Uganda avrebbe suscitato nei delegati una forte e sentita opposizione ben oltre la fine del congresso e che il dissenso sarebbe arrivato ad attentare alla vita di Nordau. Il libro descrive anche gli ultimi tentativi di Herzl di trovare appoggi nella penisola italiana -annotando in particolare l'antisionismo dell'alta gerarchia cattolica- e di evitare scissioni nel movimento sionista. Regina inserisce a questo punto alcuni cenni alla figura di Achad Ha'am del Chibbat Zion, uno dei più ostinati critici di un sionismo politico visto come malamente fondato e irrealistico: "difficile trovare in Palestina un terreno arabo rimasto incolto", avrebbe scritto dopo una visita ai primi insediamenti denunciando anche il comportamento "sprezzante e spesse volte violento" di alcuni coloni, che avrebbero dovuto invece ricordare "quanta cautela occorra perché non si abbatta su di noi l'ira del popolo destinato a condividere la stessa terra". Achad Ha'am avrebbe messo in guardia i coloni contro la dipendenza economica dai sussidi occidentali e raccomandato loro di curare le competenze culturali e la diversificazione dell'attività agricola ed economica. In tutta la sua lunga produzione letteraria Ha'am avrebbe scritto deplorando la mentalità assimilazionista, i comportamenti precipitosi e gli entusiasmi eccessivi, che a suo dire avrebbero portato al massimo alla costruzione di uno "stato di ebrei" invece che di un centro spiritualmente e culturalmente ebraico. Il settimo congresso, scrive l'A., si sarebbe svolto nel 1905 dopo la prematura morte di Herzl e avrebbe iniziato a muoversi verso l'acquisizione di concessioni in Palestina che "non prevedessero in alcun modo qualsiasi forma di organizzazione filantropica", interrompendo anche gli acquisti di terreni finché non fossero state ottenute norme di diritto a garanzia dell'operazione.
Il sesto capitolo tratta della seconda aliyah che tra il 1904 e il 1914 avrebbe posto le fondamenta del futuro stato sionista. Regina nota che nel 1903 in Palestina "la perenne lotta contro la ingenerosità della natura, il tifo, la malaria, la mancanza di risorse economiche adeguate, avevano fiaccato il morale anche dei più idealisti e romantici". La seconda aliyah di circa quarantamila persone avrebbe enumerato alcuni giovani provenienti dal Bund e da un'esperienza politica nei partiti russi; la maggioranza dei nuovi arrivati sarebbe comunque stata costituita da giovani celibi dall'educazione tradizionale, privi di mezzi e imbevuti di populismo russo. L'A. specifica che se la prima aliyah aveva considerato i palestinesi come una società senza coscienza nazionale, la seconda avrebbe sostenuto l'esistenza di origini arabo-ebraiche comuni. Secondo Regina i membri della seconda aliyah non avrebbero considerato la loro presenza in Palestina come una impresa coloniale perché non avrebbero agito per conto di alcun impero. Avrebbero cercato solo di abbandonare paesi dove l'oppressione era la norma e di rispondere a un bisogno identitario: "La terra che si apprestavano a coltivare non era stata strappata con la forza o confiscata, ma comprata a prezzi giusti e talvolta anche esorbitanti". Con la seconda aliyah altri partiti sarebbero andati ad affiancarsi al Mizrachi nato nel 1902. Nell'impero russo Hapoel Hatzair e Poalè Zion sarebbero stati gli incubatori della futura classe politica dello stato sionista; il libro ne presenta le origini e le vicende, che avrebbero inizialmente riguardato in Palestina solo poche decine di militanti. Hapoel Hatzair in particolare avrebbe ritenuto necessaria la fondazione di un proletariato agricolo ebraico autonomo che avrebbe attestato la particolarità culturale degli ebrei e la produttività di cui erano capaci. Secondo Regina questa ideologia avrebbe approfondito in modo irrimediabile il contrasto con la società arabo-palestinese. Il lavoro manuale invece -un fondamento per la "ricostruzione della terra" accanto alla lingua ebraica che all'inizio del XX secolo sarebbe diventata di uso comune tra i partecipanti alla seconda aliyah grazie al lungo lavoro di Eliezer ben Yehuda- sarebbe stato inteso come "unica forza che lega l'uomo al suolo e gli consente di farlo proprio", spiega l'A. citando gli scritti di David Gordon. Regina presenta Gordon come un lavoratore convinto che perseveranza, pazienza, coraggio e capacità di sacrificio si saebbero rivelati decisivi anche nell'antagonismo con gli arabi. Il ritorno in Palestina come parte di una visione mistica in cui la laboriosità e la fatica avrebbero permesso la riconquista della Terra di Israele sarebbe stato inteso in questo senso anche da Ben Gurion. Nella seconda aliyah, scrive l'A., il sentimento nazionale sarebbe stato in grado di conciliare ortodossi e non ortodossi, in una generazione che avrebbe invece mal visto i protagonisti della prima ondata di emigranti diventati ricchi grazie allo sfruttamento del lavoro arabo. Un conflitto generazionale avrebbe contrapposto in Palestina gli esponenti di una società conservatrice e tradizionalista a quelli di una società radicale. Regina scrive che alla componente intellettuale della aliyah sarebbe stato evitato un difficile confronto con l'agricoltura destinandovi soprattutto gli ebrei orientali. L'A. scrive che in pochi anni, di fatto, il progressivo allontanamento della mano d'opera non ebraica avrebbe reso conflittuale il rapporto tra arabi ed ebrei; ad aggravare la situazione l'uso dei proprietari ebrei di espellere i contadini arabi dai terreni acquistati, in aperta contravvenzione a usi ancestrali. Regina indica nel 1886 la data dei primi scontri e nel 1891 la data delle prime proteste ufficiali dagli ambienti ottomani, notando come la situazione sarebbe andata nettamente peggiorando dopo il 1908 con l'ascesa dei giovani turchi: la questione della "colonizzazione sionista" (non più "immigrazione ebraica") sarebbe arrivata prima sulla stampa e poi in Parlamento; dal 1912 sarebbe stata vietata la vendita di terre agli ebrei. Negli anni successivi, continua Regina, la pubblicistica araba (per lo più in mano ad arabi cristiani) avrebbe messo in allarme il proprio pubblico circa le vere intenzioni dei sionisti. Regina descrive nel dettaglio i risultati organizzativi raggiunti nonostante tutto da quella che Shmuel Dayan aveva definito una "intossicazione da lavoro", compresa la fondazione nel 1909 dell'organizzazione di difesa Hashomer, precursore delle forze armate dello Haganah. Hashomer avrebbe offerto protezione solo agli insediamenti che si fossero dichiarati pronti ad assumere solo lavoratori ebrei e che si fossero impegnati a dimostrare "la superiorità ebraica ai vicini arabi". Regina descrive anche le forme di comunitarismo collettivista tipiche della kvutzà intesa come gruppo di pari dediti alla cooperazione nel lavoro agricolo, e la fondazione dei primi kibbutzim nel 1913. L'A. descrive poi gli sviluppi culturali della seconda aliyah accennando alla biografia e all'opera di Ben Yehuda e allo sviluppo della stampa in ebraico e del sistema di istruzione. Secondo Regina la seconda aliyah avrebbe costruito in Palestina un socialismo realistico e lontano dagli schemi dottrinali, animata come sarebbe stata da giovani ribelli, idealisti e secolarizzati convinti di poter cambiare il mondo attraverso "l'esercizio della volontà, della fede e della determinazione", che sarebbero spesso finiti con avere un ruolo di primo piano nello stato sionista.
Il settimo capitolo apre la seconda parte del libro trattando di movimenti che non avrebbero aderito al sionismo politico -come il Mizrahì e la Hagudat Israel- e di quelli in aperta contrapposizione ad esso come l'ottomanismo e il panislamismo, prima di trattare della contrapposizione fra i giovani turchi del Comitato Unione e Progresso e il movimento culturale e politico arabo, destinato a sfociare nella rivolta del 1916. In considerazione dell'atteggiamento filoarabo dell'Impero Britannico, il movimento sionista avrebbe fatto di Londra un centro di attività febbrile, premendo sul Foreign Office. Regina introduce la biografia di Chaim Weizmann e descrive le vicissitudini che lo avrebbero portato a frequentare gli ambienti dell'ebraismo altolocato londinese, a incontrare Herbert Samuel e Arthur Balfour e in sostanza a far entrare le istanze dei sionisti nell'agenda del governo anche per l'interessamento di Mark Sykes. Regina scrive che nella primavera del 1917 il sionismo sarebbe stato strettamente legato alla politica britannica.
Nell'ottavo capitolo il saggio tratta della disputa sulla Palestina nel corso della prima guerra mondiale. Regina nota che gli sviluppi della guerra in Medio Oriente avrebbero posto i sionisti vicini al governo britannico davanti a realtà spesso sottovalutate, a cominciare dalla presenza araba in Palestina. Regina ricorda l'esistenza di un carteggio tra l'alto commissario britannico al Cairo McMahon e Husayn Ibn Ali, che dimostrerebbe secondo alcuni come la Palestina sarebbe stata compresa in un prospettato stato arabo indipendente. Per indicarne la rilevanza, scrive di come il timore di una supremazia russa nel Mediterraneo orientale avrebbe spinto Francia e Regno Unito a cercare alleanze nel mondo arabo. Regina descrive per questo il comportamento e le ambizioni di Husayn Ibn Ali, desideroso di staccare lo Hijaz dall'Impero Ottomano per farne una realtà autonoma sotto la protezione britannica, e le vicende che avrebbero portato l'Impero Britannico a sostenere la rivolta araba fomentata dalle società segrete Al Fatat e Al Ahd, rivolta che puntava alla costituzione di una federazione di terre arabe in un singolo stato indipendente e che a partire dal giugno del 1916 si sarebbe estesa fino a sottrarre al dominio ottomano quasi tutti i territori etnicamente arabi.
Regina tratta poi dell'accordo Sykes-Picot con cui Francia e Regno Unito avrebbero cercato di spartire il Medio Oriente. Mancando una soluzione soddisfacente per tutte le parti, la Palestina sarebbe rimasta sotto amministrazione internazionale ad eccezione dei porti di Acri e Haifa, assegnati al Regno Unito. Regina sottolinea -citando Sean M Meeking- come la spartizione dell'Impero Ottomano sarebbe stata decisa solo nel 1923 e che nessuno dei "famigerati confini post-ottomani" sarebbe stato tracciato da Sykes e Picot in un progetto che avrebbe previsto anche le pretese russe. Ad esasperare le tensioni nella regione non sarebbe stato solo il concetto imperialista del divide et impera ma lo stesso conflitto mondiale e l'accordo di pace che ne sarebbe seguito.
La dichiarazione Balfour con i suoi sviluppi fino al 1943 è argomento per il nono capitolo. L'accordo Sykes-Picot avrebbe preoccupato non poco i sionisti nel Regno Unito, che nel luglio 1917 avrebbero fatto pervenire a Balfour uno scritto a riguardo. Regina ripercorre la vicenda sottolineando le formule volutamente ambigue e la difficile traduzione operativa di una dichiarazione accolta da più parti con un certo scetticismo, se non con il timore (particolarmente accentuato in Lord Montagu e a quanto pare presso i benestanti di origine ebraica) che dietro l'invocazione di una National home non vi fosse in realtà un tentativo di deportazione. L'A. conclude scrivendo che la Dichiarazione Balfour sarebbe stata redatta in forma definitiva dopo mesi di trattative e resa pubblica circa un mese prima che il generale Allenby occupasse Gerusalemme. La notizia diffusa dalla stampa tedesca per cui la Germania avrebbe offerto protezione al movimento sionista avrebbe imposto una forte accelerazione all'iniziativa. Regina considera anche "innegabile" l'influenza della Bibbia sui politici che redassero il testo, e torna sulle ambiguità del testo ricordando che una National home avrebbe potuto essere tanto uno stato sovrano -cosa fattibile a detta dei britannici e di molti esponenti sionisti se e quando gli ebrei avessero costituito la maggioranza della popolazione- quanto una sorta di "Vaticano ebraico" come avrebbe preconizzato Achad Ha'am. Non sarebbe comunque mancata un'ala minoritaria che avrebbe visto nella Dichiarazione Balfour il risorgere di una Grande Israele. Molti militari britannici avrebbero invece considerato la Dichiarazione un tradimento delle promesse di indipendenza fatte agli arabi dalla Gran Bretagna. In Palestina le istituzioni ebraiche in via di fondazione o di consolidamento -come le scuole e le università- non sarebbero state percepite come piattafoma per la pace e per uno sviluppo comune: gli arabi palestinesi, senza la presenza britannica, avrebbero temuto di passare "dalla tirannia turca agli artigli degli ebrei". Regina descrive una serie di episodi di crescente violenza notando che negli anni dopo la fine della prima guerra mondiale l'ostilità contro gli ebrei in Palestina sarebbe aumentata nonostante le rassicurazioni. Dopo il trattato di pace con la Turchia, in cui la Dichiarazione Balfour era stata inclusa, Weizmann avrebbe comunque ribadito l'intenzione di "lavorare, soffrire e pregare per una Palestina ebraica" dopo una millenaria interruzione causata dalla "potenza brutale dell'antica Roma". L'A. descrive l'inizio del mandato britannico in Palestina e l'operato dell'Alto Commissario Herbert Samuel che, pur ebreo convinto, avrebbe assecondato molte richieste degli arabi -arrivando a fermare l'immigrazione ebraica dopo alcune sommosse- e contribuito a conferire anche alla Palestina un clima da colonia in cui i britannici avrebbero vissuto senza commistioni con il rimanente della popolazione. Come potenza mandataria il Regno Unito avrebbe dovuto garantire le condizioni atte alla creazione di un "focolare nazionale ebraico" e facilitare l'immigrazione ebraica. Regina descrive l'opera di risanamento e di ristrutturazione compiuta dalle decine di migliaia di immigrati della terza e della quarta aliyah fino al 1928, attestata dallo stesso Alto Commissario. Gli intellettuali sionisti el movimento HaHaluz avrebbero fondato la Histadrut, la Federazione del Lavoro, e contribuito dopo consistenti acquisti di terreni da parte del Fondo Nazionale Ebraico alla nascita e allo sviluppo degli insediamenti residenziali e produttivi, oltre che delle prime realtà industriali. Ai servizi e al terziario avrebbe provveduto una quarta aliyah -proveniente per lo più dalla Polonia- formata da artigiani e negozianti. L'A. dedica un paragrafo ai tumulti del 1928-29 descrivendo alcuni episodi efferati e sostenendo che le sommosse avrebbero dimostrato la fragilità delle speranze sioniste e l'intransigenza del mondo arabo, dei cui timori il Regno Unito avrebbe preso atto, pur senza fermare l'immigrazione ebraica. Dopo il 1933 una quinta aliyah avrebbe portato in Palestina dalla Germania una immigrazione qualificata formata da professionisti e accademici, che Regina valuta in circa centosettantamila persone e di cui descrive le conseguenze sociali ed economiche, non ultima il radicamento definitivo nella popolazione araba del timore di essere soverchiata numericamente. La resistenza si sarebbe strutturata attorno alla figura di Izz al Din al Qassam -che per alcuni anni avrebbe guidato la guerriglia- e al partito Istiqlal. Regina scrive che in questo clima -che non avrebbe comunque impedito a Ben Gurion di definire "eroi nazionali" i ventisei manifestanti arabi uccisi a Jaffa dalla polizia britannica nell'ottobre del 1933- sarebbe avvenuta l'ascesa del sionismo revisionista di Jabotinsky, il cui scopo sarebbe stato la fondazione di uno stato ebraico vero e proprio senza e se del caso contro la potenza mandataria. Secondo Regina la situazione di montante guerriglia avrebbe portato lo Yishuv -l'insieme degli ebrei stanziatisi in Palestina- a rendersi conto che attendere di essere maggioranza avrebbe richiesto troppo tempo; negli stessi anni gli arabi palestinesi sarebbero stati gli unici a non ottenere alcuna forma di autodeterminazione da parte delle potenze mandatarie in Medio Oriente, probabilmente perché una concessione del genere avrebbe potuto vanificare qualsiasi tentativo di attuare la Dichiarazione Balfour. Il testo tratta quindi dei prodromi dell'insurrezione del 1936, a cominciare dalla progressiva politicizzazione della popolazione araba che avrebbe portato a una vasta campagna di disobbedienza civile che sarebbe sfociata in aperta e violentissima guerriglia dopo il rigetto delle richieste arabe da parte della potenza mandataria. La rivolta avrebbe ratificato la "completa inconciliabilità" del nazionalismo ebraico e di quello arabo palestinese. Regina nota come sul piano pratico questa inconciliabilità avrebbe facilitato l'affermarsi di due economie distinte e poco comunicanti. Una commissione d'inchiesta britannica avrebbe prodotto un lunghisimo rapporto sull'accaduto di cui Regina tratta nel dettaglio. In esso tra l'altro sarebbe stato rilevato un tale contrasto fra il "carattere democratico ed europeo dello Yishuv ed il mondo arabo" da non lasciar sperare in "alcuna fusione tra le due culture" e da non far pensare a nulla di positivo circa i risultati di un eventuale autogoverno del Paese. Il rapporto avrebbe raccomandato alle autorità di ricorrere alla legge marziale in caso di ulteriori disordini e di tutelare i diritti degli arabi in materia di proprietà fondiaria, pur ritenendo infondata l'asserzione per cui agli ebrei sarebbero sistematicamente andati gli appezzzamenti migliori. Tra le raccomandazioni anche l'adozione di limiti all'immigrazione ebraica, che sarebbe stata quella di "una razza molto intelligente e intraprendente" sostenuta anche da buone risorse finanziarie. La commissione avrebbe chiuso il rapporto auspicando la partizione della Palestina, indicandone anche le frontiere e considerando i problemi che uno scambio di terre e di popolazioni avrebbe comportato. Regina descrive quindi la situazione al ventestimo congresso sionista del 1937, in cui si sarebbero opposte fin da subito alla partizione -sia pure per motivi diversi e spesso opposti- le formazioni ebraiche Hashomer Hatzair, il Jewish State Party di Grossman, l'ala conservatrice Ha Tzionim Ha Klaliym, il partito religioso Mizrahì e quello ultraortodosso Agudat Israel. I revisionisti non avrebbero accettato nulla di meno di "uno Stato su ambedue le rive del Giordano". Di parere pragmaticamente favorevole, invece, Chaim Weizmann e Ben Gurion. L'A. descrive anche lo sdegnoso rigetto che la prospettiva avrebbe incontrato da parte araba. Nei mesi e negli anni successivi -continua il testo- i britannici avrebbero fatto ampio ricorso alla repressione sciogliendo organizzazioni politiche arabe, deportandone gli attivisti e distruggendo le case dei rivoltosi. Regina presenta anche un excursus sui motivi che avrebbero indotto il Regno Unito a considerare strategica la Palestina nell'imminenza della seconda guerra mondiale, ad evitare scontri con il mondo arabo e ad accentuare la repressione di ogni forza antigovernativa. In queste circostanze il sionismo revisionista sarebbe passato alla lotta armata formando lo Irgun, presto entrato in conflitto con la stessa Haganah che i britannici avrebbero cooptato per la repressione. In queste circostanze sarebbe stato pubblicato un Libro Bianco con le nuove linee per la gestione del mandato britannico; l'A. vi nota in particolare il limite stabilito per l'immigrazione ebraica, fissato in settantacinquemila ingressi per cinque anni e accompagnato da severe restrizioni sulla vendita di terre. Anche se non ritenuto accettabile dalla Società delle Nazioni, il Libro Bianco avrebbe comunque indicato la svolta filoaraba della politica britannica: nel 1939 l'ingresso clandestino di ebrei in fuga dall'Europa avrebbe anzi spinto la potenza mandataria a sospendere la concessione di visti e a tenere un atteggiamento ondivago nei confronti delle formazioni armate ebraiche, ora disarmandole, ora organizzandole (come il Palmach) in funzione antitedesca. L'atteggiamento britannico avrebbe infine alienato irrimediabilmente al Regno Unito le simpatie dello Yishuv; già propenso da mesi a iniziative in questo senso, Ben Gurion avrebbe iniziato a rivolgersi agli USA esortando una aliyah in grado di portare in Palestina due o tre milioni di ebrei: il "Programma di Biltmore" avrebbe sdegnato lo Hashomer Hatzair e quanti puntavano alla convivenza con la popolazione araba. Nel 1943, scrive Regina, le necessità dell'accoglienza degli ebrei in fuga dall'Europa avrebbero riproposto come soluzione più immediata quella che era anche la più discutibile sul piano etico: il trasferimento degli arabi in Iraq o in Transgiordania.
Nell'ultimo capitolo il testo ripercorre in modo puntuale gli avvenimenti che dal 1945 avrebbero portato alla proclamazione dello stato sionista tre anni dopo. I vincitori del secondo conflitto mondiale avrebbero dovuto affrontare il problema dei milioni di displaced persons in Europa tenendo conto delle pressioni dei sionisti, dell'atteggiamento filoarabo del Dipartimento di Stato statunitense e dell'ostilità di un mondo arabo propenso a vedere negli ebrei "una popolazione mista e straniera" sostenuta da un politica "razziale e imperialistica di matrice europea". Regina descrive l'operato dei Dodici apostoli della commissione anglostatunitense che avrebbe identificato nella Palestina l'unica soluzione possibile per gli ebrei intenzionati a lasciare l'Europa e l'atteggiamento favorevole di Truman, contrapposto all'intransigenza britannica -che sarebbe arrivata al punto di internare a Cipro gli ebrei provenienti dall'Europa- e alla propensione per il mondo arabo che avrebbe caratterizzato la sua stessa amministrazione. Regina descrive l'attentato dello Irgun allo Hotel David come segno della totale rottura tra lo Yishuv e una potenza mandataria determinata a cancellare le aspirazioni dei sionisti. Il testo descrive il successivo Morrison Grady Plan per un sistema di partizioni e autonomie in Palestina (puntualmente rifiutato da tutte le parti interessate) come un tentativo britannico di non perdere comunque il controllo di un'area diventata strategica, su cui sarebbe stato messo anche un blocco navale per impedire una immigrazione ebraica che esulasse dagli stretti parametri numerici imposti. L'A. ripercorre gli avvenimenti del 1946 citando l'atteggiamento dell'amministrazione Truman -che avrebbe auspicato nel la fine dei limiti all'immigrazione verso la Palestina- e il ripudio della lotta armata da parte del ventiduesimo congresso sionista di Basilea, in cui il filobritannico Weizmann avrebbe definito le formazioni armate ebraiche irregolari come "un cancro" da eliminare "prima che distrugga tutto quello che è stato costruito". Regina descrive il comportamento del laburista ministro degli esteri Ernest Bevin come improntato a un antisionismo incoercibile; un orientamento che la vicenda della nave Exodus avrebbe confermato nel 1947. Lo stesso Bevin, a fronte dei nulli progressi diplomatici, avrebbe portato all'attenzione dell'ONU il problema palestinese dopo aver incolpato Truman dei fallimenti in questo senso, data la sua esplicita propensione alla divisione del paese e alla creazione di uno stato ebraico. Regina cita l'intervento sovietico all'Assemblea Generale del 14 maggio 1947 in cui Andrej Gromyko si espresse in favore della partizione. Descrive quindi l'istituzione e il funzionamento della commissione speciale dell'ONU sulla Palestina -formata anche da rappresentanti di paesi non direttamente coinvolti nel problema- destinata a prendere atto della esplicita ostilità araba alla divisione del paese, nondimeno approvata a maggioranza dopo mesi di colloqui, consultazioni e visite a tutte le parti e a tutte le istituzioni interessate. Regina riporta anche i confini tra le due istituende compagini statali come indicati dallo svedese Paul Mohn, vicepresidente della commissione, e la loro accettazione da parte di una Agenzia Ebraica interessata a limitare la popolazione araba compresa nel territorio del futuro stato sionista e consapevole in ogni caso di poter contare su una Haganah ben equipaggiata e diretta. Il piano per la partizione della Palestina sarebbe stato approvato dall'Assemblea Generale dell'ONU il 29 novembre 1947 col peso determinante dell'Unione Sovietica e nonostante la perdurante contrarietà del Dipartimento di Stato statunitense. L'A. specifica che per esplicito boicottaggio britannico la commissione che avrebbe permesso la costituzione dei due stati e della loro unione economica non sarebbe mai diventata operativa.
Regina ripercorre le vicende della guerra civile accesasi il 30 novembre 1947 e destinata a diventare una guerra vera e propria con la fine del mandato britannico del 14 maggio 1948. L'atteggiamento della potenza mandataria, sottolinea l'A., sarebbe stato tutto meno che imparziale e le forze armate britanniche sarebbero intervenute a protezione degli insediamenti e della popolazione ebraica solo in casi estremi, chiudendo spesso entrambi gli occhi sulle iniziative dei corpi armati arabi e soprattutto sul loro costante rafforzarsi. Solo con la raccolta di fondi negli Stati Uniti e acquistando armi in Europa -inviandole in Palestina aggirando un embargo sostenuto anche da Washington- la Haganah sarebbe riuscita a consolidare e sfruttare vittoriosamente la propria superiorità addestrativa e organizzativa. Regina difende in particolare il piano Dalet elaborato per la difesa del territorio destinato allo stato sionista ma a suo dire considerato da alcuni autori come orchestrato da Ben Gurion per iniziare una cinica pulizia etnica. Del piano Dalet Regina non tace le efferatezze, ricordando come il massacro di Deir Yassin -a sua volta motivo principale dell'attacco arabo al convoglio medico diretto al Monte Scopus- non sarebbe stato ricordato soltanto "come un atto ignominioso di abdicazione alla violenza, ma anche e soprattutto come un forte acceleratore dell’esodo degli Arabi di Palestina" cui avrebbero fattivamente contribuito le formazioni irregolari dello Irgun e della Banda Stern. Regina ricorda in questo contesto l'esodo della popolazione araba di Haifa, di Jaffa, di Safed e di altri centri, la cui percezione di pericolo sarebbe stata accentuata dai disaccordi tra i capi militari e dalla scarsità di mezzi per la difesa.
In ultimo, Regina descrive gli eventi del 14 maggio 1948 chiudendo con la considerazione che il ritorno alla Terra dei Padri comunque realizzatosi avrebbe significato per gli arabi palestinesi un'altra diaspora.
Guido Regina - Lo Stato di Israele. Dalle origini al conflitto israelo-palestinese (1850-1948). Mimesis, Milano 2023. 364 pp.
Guido Regina - Lo Stato di Israele. Dalle origini al conflitto israelo-palestinese (1850-1948)
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