Raoul Pupo (a cura di) - La vittoria senza pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra
Nel 1918 lo stato che occupa la penisola italiana sarebbe finalmente riuscito a vincere una guerra; "nel 1848 era finita male, nel 1859 il grosso del lavoro l'avevano fatto i francesi e nel 1866 il disastro era stato totale, per terra e per mare. Per fortuna, non si combatteva ancora nei cieli", sottolinea salacemente Pupo nella premessa a un libro che tratta delle occupazioni militari successive al primo conflitto mondiale. Un tema a suo dire poco trattato dalla storiografia ancorché di una certa importanza; le occupazioni avrebbero dato corpo a quel ruolo di grande potenza che le classi dirigenti liberali e nazionaliste avevano inseguito per decenni completando il controllo sulla penisola, condizionando il neonato Regno di Jugoslavia e influenzando la geopolitica del Mediterraneo orientale. Le rivendicazioni si sarebbero basate in parte sul principio di nazionalità caro a Wilson, come quella di Rijeka, ma anche su una pretesa sicurezza strategica come nel caso della Dalmacija e del Südtirol; ne sarebbe derivato uno stallo diplomatico -che avrebbe alimentato il mito della "vittoria mutilata"- risolto solo dal ritiro di Wilson dalla politica attiva e dal costituirsi ai confini orientali di due compagini di piccola taglia che non avrebbero costituito alcuna minaccia alla sicurezza della penisola italiana. In tutti gli altri teatri dall'Albania all'Anatolia, le occupazioni non si consolidarono ed ebbero effetti negativi a livello di prestigio internazionale: lo stato che occupa la penisola italiana non aveva né le risorse né le capacità di intervento sufficienti a riempire i vuoti di potere lasciati dalla dissoluzione degli imperi, e Francia e Regno Unito non avevano né motivi né interesse a tollerarne la concorrenza in nessun contesto. Il libro intende esplorare gli effetti che la ondivaga politica estera degli esecutivi postbellici ebbero sui territori sotto amministrazione militare, e quelli che l'esperienza delle occupazioni ebbe nell'elaborazione delle strategie diplomatiche.
L'esito delle ostilità in territorio austriaco viene trattato nel primo capitolo. L'autore Andrea di Michele nota che lo stato che occupa la penisola italiana sarebbe stata l'unica tra le potenze vincitrici a vedere dissolversi il proprio nemico storico -sostituito da una Repubblica Austriaca dal peso politico insignificante e segnata da un forte contrasto fra centro e periferia- anche se avrebbe dovuto trattare per i nuovi confini orientali con la nuova realtà statuale jugoslava. Di Michele descrive la nuova repubblica come un paese rimasto priva di grosse risorse alimentari, senza fonti energetiche, con un sistema finanziario e burocratico enfiato e privo di sbocchi economici per la propria produzione industriale, vittima di forti spinte centrifughe localiste e "condannato ad esistere" dal formale divieto all'Anschluss imposto dai trattati di pace. Oltre ai territori sudtirolesi e comunque fino allo spartiacque sarebbe stata occupata Innsbruck, pur senza pretese territoriali, e un presidio militare avrebbe controllato i confini carinziani; una missione militare a Vienna sarebbe invece servita a mantenere una presenza in una Mitteleuropa costretta a ridefinire ogni aspetto della vita economica e sociale e a sottrarre influenza alla Francia, anche se nell'immediato sarebbe stata giustificata dal timore di moti rivoluzionari. Fino al luglio 1920 e alla normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Austriaca la missione Segre avrebbe raccolto informazioni, indirizzato la stampa, organizzato il rimpatrio dei prigionieri e l'acquisizione degli armamenti, e aperto pur precarie delegazioni in tutto il territorio ex austroungarico in concorrenza con gli altri paesi vincitori. Nonostante alcune iniziative concilianti la Repubblica Austriaca sarebbe stata considerata a tutti gli effetti il successore dell'impero, tenuto a pagare per la guerra scatenata e perduta. Solo nel mettere argini all'espansionismo slavo vi sarebbe stata una comunità di intenti pressoché totale: prima che un plebiscito decidesse le sorti della Carinzia, nella definizione dei confini tra Repubblica Austriaca e Regno di Jugoslavia la difesa di linee di trasporto importanti per la penisola italiana avrebbe tranquillamente fatto prescindere dal principio dello spartiacque, lo stesso che invece era stato invocato con forza per ottenere il Südtirol. A giugno 1919 lo stato che occupa la penisola italiana avrebbe inviato armi e uomini (oltre trentamila) per contrastare la presenza slovena a Klagenfurt; il loro comandante Emilio de Bono avrebbe lasciato una cronaca degli avvenimenti fortemente spregiativa nei confronti degli sloveni, contro cui avrebbero fraternizzato quelli che fino a pochi mesi prima erano stati "nemici ereditari". L'atteggiamento quasi ossessivamente antislavo avrebbe tanto avvicinato Roma all'ex nemico da infastidire gli alleati.
Nell'occupazione tirolese avrebbero trovato invece traduzione operazionale i diversi obiettivi della guerra: Trento per l’ideale risorgimentale, Bozen per la sicurezza dei confini, Innsbruck per l'espansione politico-economica nella Mitteleuropa. A governare provvisoriamente sarebbe stato un segretariato per gli affari civili organo ibrido organizzato fin dal 1915 presso il comando supremo retto da un alto funzionario del ministero degli affari interni e da cui dipendevano i governatori militari, coadiuvati da commissari civili equiparati a sottoprefetti. Nonostante la località di Salurn segnasse un confine linguistico, geografico e amministrativo riconosciuto da tutti gli occupanti avrebbero iniziato ad amministrare tutto il Tirolo a sud dello spartiacque alpino come se fosse una unica entità territoriale. Tra l'armistizio di Villa Giusti e il trattato di Saint Germain i circoli politici sudtirolesi avrebbero tentato di tutto, dal ricorso ai principi di Wilson alla proposta di uno stato autonomo, pur di evitare l'annessione allo stato che occupa la penisola italiana. La retorica postbellica, in un Trentino devastato e spopolato dalle ostilità, avrebbe esaltato le gesta e il martirio dei circa ottocento uomini che avevano combattuto dalla parte dei vincitori relegando a una memoria semiclandestina gli oltre cinquantamila che avevano combattuto per l'impero. A fronte dell'inefficienza mostrata da Roma nel ripristino delle condizioni minime per la vita associata, persino qualche irredentista di lungo corso avrebbe rimpianto l'amministrazione imperiale; il Partito Popolare di Alcide de Gasperi e i liberali si sarebbero fatti portavoce della difesa degli istituti amministrativi locali e del decentramento asburgico, suggerendone anzi l'adozione nel resto della penisola. Le autorità di Roma avrebbero reagito semplicemente avanzando dubbi sull'affidabilità "nazionale" di chi avanzava questi suggerimenti, e continuando con le intromissioni invasive negli organi amministrativi comunali. In un Südtirol assai meno partecipativo e compattamente ostile le azioni intromissorie negli organi locali sarebbero state piuttosto ridotte: il combattivo Julius Perathoner di Bozen sarebbe rimasto al suo posto, solo affiancato (e controllato) da un commissario civile. In ogni caso, nota l'A. prima di descrivere la estrema ostilità del clero sudtirolese verso nuovi padroni percepiti come massoni e anticlericali, sarebbe stato imposto un modello governativo e amministrativo accentrato e verticista.
Il governatore Guglielmo Pecori Giraldi avrebbe organizzato gli uffici amministrativi servendosi in primo luogo dei reduci trentini, una élite irredentista poco compatibile con la popolazione generale che avrebbe tuttavia dato prova di moderazione in Südtirol, dove avrebbero altrimenti avuto libertà di azione i fautori di una assimilazione drastica come Ettore Tolomei. Pecori Giraldi avrebbe dovuto costruire, con personale penosamente insufficiente e a volte inadeguato anche per preparazione, un'amministrazione in grado di non far rimpiangere quella imperiale. I licenziamenti nella vecchia amministrazione imperiale avrebbero quindi interessato solo le figure di vertice e quelle di dubbia affidabilità; la massa dei dipendenti rimase, con buona pace dei nazionalisti che avrebbero volentieri visto sparire gli austriacanti. Di Michele nota che Roma non avrebbe saputo gestire in modo unitario l'amministrazione provvisoria dei territori occupati e che all'interno del mondo politico e amministrativo sarebbero esistite posizioni profonddamente diverse sull'atteggiamento da tenere nei confronti dell'amministrazione e più in generale delle minoranze ai confini. L'istituzione di un "Ministero per le terre liberate" avrebbe sottratto spazio, risorse e poteri al segretariato per gli affari civili, facendo peggiorare i rapporti tra un governo centrale fautore di intromissioni decise come prodromo a un'assimilazione completa e e autorità militari inclini alla moderazione in vista delle trattative di pace. Di Michele descrive quindi la figura e l'operato di Ettore Tolomei nel trattamento del germanesimo cisalpino inteso come distruzione dello stesso, da attuarsi con la messa al bando della lingua tedesca dalla vita pubblica e dalla toponomastica. Tolomei era portavoce delle istanze dell'irredentismo nazionalista caro a Sidney Sonnino e si sarebbe aspramente scontrato col militare Pecori Giraldi, che avrebbe invaso il campo dell'esecutivo pretendendo lo scioglimento dell'organo civile di cui Tolomei era a capo. Pecori Giraldi sarebbe stato favorevole a una "penetrazione pacifica" in una provincia dotata dei soli poteri amministrativi, in modo da non lasciare alla popolazione tedesca settori fondamentali come quelli della scuola e dell'economia. L'economia avrebbe dovuto essere sostenuta da capitali finanziari tali da sostituire quelli provenienti dal mondo tedesco, la scuola organizzata in modo da non sovvertire equilibri etnici. Tra un Pecori Giraldi e un Tolomei sarebbe esistito un continuum di posizioni favorevoli a questo o a quello approccio, ma accomunate comunque dalla prospettiva di un assorbimento delle minoranze. I rappresentanti politici sudtirolesi avrebbero mantenuto l'atteggiamento rigido di chi non ammette la sconfitta e l'annessione, e si sarebbero mostrati sprezzanti sia nei confronti delle autorità peninsulari e dei loro simboli contribuendo a polarizzare le posizioni degli opposti nazionalismi.
Dopo l'armistizio di Villa Giusti il Tirolo sarebbe diventato per qualche giorno teatro di tensioni con truppe bavaresi inviate per impedire un'eventuale invasione da sud. Occupata Innsbruck, Pecori Giraldi vi avrebbe esercitato solo poteri militari nel corso di una presenza militare che si sarebbe prolungata fino al settembre 1920 per motivi di prestigio e di ordine politico: "avere il polso di Innsbruck significava avere il polso di Bozen" e poter contrastare le iniziative sudtirolesi e quelle rivoluzionarie, suscettibili di interessare anche la truppa occupante. Le testimonianze dei protagonisti riportare dall'A. mostrano che la realtà tirolese avrebbe imposto ai vincitori un deciso ridimensionamento del loro iniziale senso di superiorità, ma anche che i rapporti con la popolazione e con le autorità locali sarebbero stati buoni fino al trattato di Saint Germain che sancì l'annessione del Südtirol.
Innsbruck si sarebbe dimostrata un utile osservatorio anche per studiare posizioni e iniziative dei diversi partiti austriaci; angustiato dal collasso economico il Tirolo avrebbe ufficialmente aderito alla Repubblica Austriaca solo dopo Saint Germain, presentando nel frattempo correnti che andavano dalla propensione per una unione con la Baviera all'organizzazione di uno stato cuscinetto di impronta conservatrice, sotto l'influenza della penisola italiana. Nel dicembre 1919 l'indigenza a Innsbruck avrebbe spinto il console Tito Chiovenda a proporre l'invio di derrate e la presa del controllo delle linee ferroviare come ulteriore mossa per incrementare l'influenza peninsulare in Tirolo e nell'intera Austria.
Raoul Pupo è autore del secondo capitolo dedicato all'occupazione della Venezia Giulia, di Rijeka e della Dalmacija, iniziata senza grossi problemi nelle ultime ore del conflitto per i centri di Trst e Zadar e con qualche problema in più per Pula e Gorica a causa della presenza di forti formazioni ammutinate e di comitati jugoslavi. L'ostilità della popolazione avrebbe reso oltremodo difficile procedere in Dalmacija, la cui occupazione sarebbe rimasta sulla carta. Pupo descrive il funzionamento del governatorato militare affidato a Carlo Petitti e il sovrapporsi delle competenze e delle velleità di varie istituzioni militari in Venezia Giulia, prima di passare alle traversie della mal tollerata presenza del governatore Enrico Millo in Dalmacija. Le poche truppe disponibili non avrebbero potuto intervenire contro l'ostile governo provvisorio regionale jugoslavo di Split, e Millo sarebbe potuto intervenire solo nel nord della Dalmacija per sostituire il personale della burocrazia imperiale. Nel sud sarebbe stato il governo regionale jugoslavo a prendere pieno controllo dell'amministrazione, interferendo anche sul rimanente del territorio e ostacolando e sabotando attivamente l'operato degli occupanti. L'aperta ostilità della magistratura -per lo più formata da croati- avrebbe reso improbo arrestare e condannare chicchessia per qualsiasi reato avesse risvolti politici anche minimi: Millo sarebbe stato costretto a ricorrere a bandi per ampliare le fattispecie ricadenti sotto la giurisdizione del tribunale militare di Zadar. Pupo descrive come oltremodo problematica anche l'occupazione di Rijeka, dove i poteri governativi e gli uffici statali erano finiti ad esponenti jugoslavi e dove il contrammiraglio Rainer avrebbe dovuto tenere un profilo basso e comportarsi in modo da consentire al governo di Roma di presentare l'occupazione della città, pur avvenuta senza consultare nessuno, come operazione interalleata. Rijeka sarebbe diventata rapidamente il punto di massimo attrito nei rapporti con la Repubblica Francese, che fece affluire in città reparti dell'Armée d'Orient e serbi cui da Roma avrebbero risposto al rialzo.
Pupo descrive le caratteristiche specifiche dell'occupazione. Su Trst nei giorni dopo la fine del conflitto si sarebbero riversati almeno centocinquantamila ex prigionieri di guerra, oltre ai reduci imperiali, ai "regnicoli" deportati e alla popolazione sfollata dalle zone di combattimento; catastrofe umanitaria e tracollo dell'ordine pubblico vi sarebbero stati evitati a fatica e Carlo Petitti avrebbe minacciato di stroncare ogni ribellione con le mitragliatrici; "come bentornato della madrepatria ai reduci dagli stenti della prigionia in mano nemica, non era davvero male". Roma d'altronde avrebbe gestito col pugno di ferro i territori "irredenti" ma abitati anche da sloveni e da cattolici non interessati (se non contrari) all'irredentismo. I "regnicoli" che l'impero aveva trattato da nemici e spesso rovinato economicamente avrebbero reagito andando a costituire una delle prime basi di massa del fascismo di confine. I nuovi occupanti avrebbero comunque dato immediato inizio a una intensa opera di ripristino degli edifici pubblici e delle infrastrutture, oltre che alla fornitura di derrate e beni di prima necessità; un veicolo di penetrazione privilegiato anche fra la popolazione slava. L'A. descrive il collasso dell'economia di Trst, Pula e Rijeka, dovuto alle distruzioni, allo stravolgimento geopolitico, alle iniziali incertezze sulle sorti della flotta mercantile e all'uso dei porti per le emergenze postbelliche, e il subentrare di capitali e dirigenti peninsulari a quelli tedeschi e cechi, ferma restando la preminenza della locale élite. Il governatorato avrebbe profuso molto impegno per integrare in modo "fermissimo ma non traumatico" le nuove province nella vita della penisola, evitando la dispersione di competenze e professionalità. In Dalmacija, scrive Pupo, la scala dei problemi da risolvere sarebbe stata assai minore; in assenza di certezze sul destino della regione, i capitali non vi sarebbero però affluiti lasciando il locale governatore a sovrintendere su piani di assai minore portata.
Pupo riferisce di come per l'integrazione politica Petitti avesse pensato di interloquire con il partito liberalnazionale un tempo egemone. I nuovi occupanti avrebbero scoperto che lo stravolgimento della situazione politica ne aveva rese inattuali le istanze; a renderlo inadeguato come mediatore avrebbero poi pensato i personalismi e le incomprensioni generazionali. Il ricompattamento delle forze favorevoli a Roma sarebbe invece nato dal basso, dal combattentismo nazionalista e da quadri delle forze armate largamente politicizzatisi decisi a mantenere ad ogni costo quanto ottenuto con la vittoria all'inssegna dello sciovinismo e dell'antibolscevismo. Pupo accenna a un irredentismo democratico dalla storia pluridecennale, alla "estrema sinistra liberale" dei repubblicani, ai fasci di combattimento ben radicati tra i "regnicoli", definisce il panorama nazionalista e descrive l'esordio del fascismo a Trst sotto la guida di Francesco Giunta, capace di saldare squadrismo e istituzioni con la teoria e la prassi antisocialiste e antislave del fascismo di confine. Un Ufficio informazioni truppe operanti comandato da Cesare Finzi e fitto di personale proveniente da territori "redenti" avrebbe iniziato a organizzare e dirigere attività di sovversione contro la Jugoslavia, sovrapponendosi quasi alla perfezione con la più grossa organizzazione nazionalista presente in città e costituendo con essa un "blocco d'ordine" autorappresentatosi come baluardo antislavo e antibolscevico e al tempo stesso una "centrale eversiva" che per i propri scopi avrebbe operato senza e se necessario contro le istituzioni. In questa atmosfera insofferente delle mediazioni, su cui Petitti avrebbe avuto poco controllo, la spedizione di Gabriele d'Annunzio a Rijeka avrebbe dovuto costituire l'innesco di un piano eversivo destinato a concludersi con un colpo di stato. Nel luglio 1919 il governatore avrebbe proceduto a smantellare l'Ufficio informazioni truppe operanti affidandone le competenze a commissari civili, senza riuscire a troncarne né le attività né l'influenza. La moderazione e la gradualità degli intenti ufficiali sarebbero risultate nei fatti affidate a ex combattenti che avrebbero portato sul terreno politico l'esperienza della guerra e la propria nulla propensione ai compromessi. Pupo scrive che a Rijeka i sostenitori dell'annessionismo guidati da Nino Host Venturi -che dovevano vedersela anche con una corrente autonomista- avrebbero ben visto il ricorso a un'azione di forza. A prepararla, nell'estate del 1919, sarebbero stati i nazionalisti di Trst con una campagna di raccolta fondi e con il reclutamento di volontari. L'esercito regolare si sarebbe prestato di fatto all'operazione, fornendo armi e logistica, con l'esplicito assenso dell'esecutivo purché nulla suscitasse "recriminazioni" da parte degli alleati.Il nuovo Primo Ministro Nitti avrebbe intrapreso la smobilitazione -mal tollerando le ingerenze dei militari- e sostituito senza successo le truppe di presidio a Rijeka; la politicizzazione ormai compiuta sarebbe stata alla base di una sedizione militare senza precedenti.
In Dalmacija la prospettiva di annessioni definitive sarebbe rimasta opinabile; il governatore Millo, consciente del fatto che con le autorità jugoslave sarebbe stato necessario convivere, avrebbe avviato verso il retroterra slavo una intensa campagna propagandistica in previsione di un eventuale plebiscito. Altissimo ufficiale con responsabilità vitali, Millo avrebbe tuttavia accolto nel migliore dei modi Gabriele d'Annunzio a Zadar nel novemnbre 1919, incarnando un atteggiamento che sarebbe culminato nella benevola neutralità dei militari nei confronti del fascismo. Fuori da Zadar la mobilitazione spasmodica a favore dell'annessione, priva di numeri sufficienti, si sarebbe rivelata controproducente e sarebbe finita col provocare il rifiuto di una lingua e di una cultura che in epoca asburgica erano state patrimonio comune dei dalmati, quale che fosse la loro origine.
L'A. nota che la popolazione slovena e croata avrebbe avuto orientamenti pesantemente ostili che i servizi militari non avrebbero mancato di rilevare, e la politica jugoslava di attizzare. Secondo l'irredentista Francesco Luigi Ferrari, Roma avrebbe dovuto assimilare le popolazioni slovene e croate isolandole dalla minoranza borghese foriera di atteggiamenti nazionalisti. La sottovalutazione della solidità e della diffusione della nazionalizzazione slovena e croata sarebbe stata fatta propria dal fascismo, che avrebbe intrapreso una "bonifica etnica" con risultati "assai poco corrispondenti alla radicalità dei propositi e all’asprezza dei metodi applicati per conseguirli". Le élites culturali slovene e croate si sarebbero spese oltremodo per l'annessione dell'Istra e della Primorska appellandosi ai principi di Wilson e recuperando i temi della propaganda austriaca; alle intenzioni conciianti di Petitti avrebbe corrisposto una pratica opposta, con lo scioglimento dei comitati jugoslavi e una sorveglianza dell'attivismo sloveno e croato lasciata alla discrezione più o meno vessatoria delle singole autorità. Il bilinguismo sarebbe stato mantenuto nell'amministrazione, mentre nella scuola i nuovi padroni presentarono la propria politica come quella di un "riequilibrio" rispetto alle forzature imperiali in favore delle componenti slave. Nel centro di Trst, a Gorica, a Pazin e infine a Zadar sarebbero stati chiusi istituti superiori sloveni e croati con il pretesto della prevalenza linguistica. Pupo sottolinea come in Venezia Giulia la disposizione di chiusura di tutte le scuole private andasse a colpire direttamente il nesso tra clericalismo e nazionalismo che aveva distinto la costruzione dell'identità slovena e croata nella Primorska.
Pupo ricorda l'uso asburgico di affidare cariche civili a rappresentanti della gerarchia ecclesiastica, in assenza di una separazione netta tra Stato e Chiesa; la contrapposizione fra "vescovi austriacanti e governatori massoni" sarebbe stata la norma nei territori occupati per tutto il tempo in cui la legge austriaca vi rimase vigente. I rapporti sarebbero stati complicati anche dal ruolo da protagonista che il clero sloveno e croato aveva avuto nella nazionalizazione slava della Primorska, e nell'atteggiamento apertamente contrario all'occupazione e all'annessione da esso dimostrato. L'A. ricorda l'introduzione, voluta dal Leone XIII, della cosidetta "messa glagolitica" in paleoslavo; l'intenzione di guadagnare terreno sugli ortodossi si sarebbe invece tradotta nel rafforzamento dell'identità slovena e croata, di concerto con l'operato dell'attivismo laico. Petitti e Millo avrebbero dovuto mostrarsi concilianti per volere del comando supremo, ma avrebbero cercato di controbilanciare ricorrendo al fitto corpo dei cappellani militari, che in alcuni casi aprì duri contenziosi con gli episcopati locali cercando il "riequilibrio" nei posti vacanti. Sotto attacco concentrico da parte dei cappellani e dello stesso Vaticano timoroso di un'avanzata ortodossa, i vescovi dei territori occupati avrebbero reagito in modi compresi tra la completa condiscendenza e la dura opposizione. Nel secondo caso, forti anche di una sostanziale accettazione da parte del Vaticano, le autorità di occupazione avrebbero mostrato un ampio grado di condiscendenza verso i contestatori che passavano a vie di fatto. Ed avrebbero ostacolato l'insegnamento scolastico della religione.
L'A. descrive le caratteristiche del movimento socialista fortissimo a Trst e radicato in Istra come rigorosamente internazionalista e voce di una classe operaia fiera di agire nel cuore pulsante dell'economia imperiale. Ostili all'irredentismo e al nazionalismo sloveno e croato, i socialisti adriatici sarebbero stati pronti a sperimentare nella Primorska "forme di convivenza basate sulla piena articolazione delle nazioni culturali" se la guerra non avesse comportato l'allineamento di tutti i partiti socialisti europei alle rispettive cause nazionali. Il movimento socialista avrebbe attraversato la guerra senza indebolirsi; i nuovi padroni avrebbero dovuto tenerne conto pur tenendo il socialismo in pessimo concetto. Petitti avrebbe evitato di andare allo scontro, e si sarebbe servito dei quadri del partito -alieni da tentazioni rivoluzionarie- per lavorare all'inserimento del socialismo giuliano nell'agone politico della penisola. La diversa natura del socialismo peninsulare avrebbe messo in difficoltà la dirigenza riformista locale e dato agibilità agli elementi più estremisti. Nella primavera del 1919 l'atteggiamento di Petitti sarebbe cambiato, con l'avallo dell'operato di giovani nazionalisti e irredentisti che sarerbbero finiti in pochi mesi con l'aggregare e col dominare le forze moderate in funzione antibolscevica e antislava.
L'epurazione contro gli austriacanti si sarebbe scatenata a Trst subito dopo l'occupazione ad opera di elementi locali. Solo la magistratura sarebbe andata esente dai comitati di epurazione sorti immediatamente nelle amministrazioni e nelle aziende, peraltro sciolti da un Petitti fermamente contrario alla caccia alle streghe dopo poche settimane, nonostante il parere contrario dello stesso Presidente del Consiglio. Il clima politico avrebbe favorito un rapido abbandono dei territori occupati da parte della popolazione tedesca, per lo più costituita da militari e da impiegati nella pubblica amministrazione, anche in assenza di iniziative deliberate in questo senso. Appellandosi ai margini di ambiguità della normativa asburgica sul diritto di permanenza gli occupanti avrebbero impedito il ritorno di moltissime persone ritenute poco affidabili politicamente. Contro qualche centinaio di personalità accusate di alimentare l'insofferenza verso l'occupazione, specie negli ambienti religiosi, l'amministrazione militare si sarebbe avvalsa dell'internamento o dell'espulsione. A Rijeka "la saldatura fra irredentismo, nazionalismo, arditismo, volontà di protagonismo politico del corpo degli ufficiali e adesione entusiasta alla causa" da parte delle truppe di presidio avrebbe portato a scontri con i militari francesi e all'impossibilità di avvicendare gli effettivi. Il solo tentativo di farlo avrebbe dato il via alla ribellione e all'impresa di D'Annunzio. Proprio l'impresa dannunziana a Rijeka e un fallito colpo di mano a Trogir il 27 settembre 1919 avrebbero diffuso voci allarmistiche sulla mobilitazione jugoslava, che avrebbero indotto i governatori militari a dare ulteriori ritocchi una serie di piani controffensivi già pronti da mesi, nonostante le condizioni economiche della penisola imponessero la smobilitazione e nonostante l'espressa volontà dello Stato Maggiore di ricomporre le dispute con strumenti diplomatici. Al di là di sporadici incidenti, le uniche azioni su vasta scala sarebbero rimaste quelle che avrebbero posto fine, col "Natale di sangue", all'occupazione di Rijeka capeggiata da Gabriele d'Annunzio.
Il terzo capitolo del libro curato da Giulia Caccamo riguarda quell'esserci a qualsiasi costo che si sarebbe tradotto operativamente in occupazioni in Albania e nel Mediterraneo orientale. Priva di risorse e di infrastrutture, l'Albania sarebbe stata fondamentale solo per controllare il canale di Otranto e i relativi traffici commerciali e fin dal XIX secolo sarebbe stata oggetto di politica di influenza sia da parte peninsulare che da parte dell'impero austroungarico; le due compagini anzi avrebbero sostenuto l'indipendenza dell'Albania nel 1912 per sottrarla alle mire annessionistiche dei vicini. Lo stato che occupa la penisola italiana avrebbe proceduto all'occupazione del sud del paese già a dicembre del 1914, in attesa di una spartizione dell'Albania formalizzata in sede diplomatica a fronte dell'instabilità endemica del paese. Dopo la anabasi dell'esercito serbo nel 1916 e le numerose profferte di tutela e di autonomia giunte da più parti, che avevano portato a contrasti anche gravi tra paesi pur alleati, lo stato che occupa la penisola italiana avrebbe patrocinato l'esistenza di un'Albania indipendente sotto la propria influenza, che avrebbe servito meglio i suoi fini di qualsiasi piccolo protettorato circondato da vicini ostili. L'A. descrive la difficile situazione degli occupanti, alle prese con pessime condizioni di vita e stretti fra alleati per nulla condiscendenti, assemblee di notabili poco inclini ai compromessi e scarsezza di effettivi e mezzi, coi quali da Roma si sarebbe voluta una impossibile occupazione dell'intero paese. Le forze presenti avrebbero comunque organizzato bande armate nel sud in opposizione all'espansionismo greco e dall'inizio del 1920 si sarebbero opposte direttamente a quello jugoslavo. In sede di conferenza di pace Roma avrebbe avallato la cessione di territori e la trasformazione dell'Albania in un protettorato, tradendo la parola data e levando una sempre crescente ondata di ostilità tra la popolazione albanese. Nel giugno 1920 gli ultimi presidi, ad eccezione di quello del porto di Vlorë sulla cui annessione neppure Wilson aveva mosso obiezioni, sarebbero stati circondati da migliaia di armati e per solito distrutti. Due mesi dopo, riconosciuta da Giolitti la "enorme passività senza alcun utile" del mandato sull'Albania, l'integrità territoriale del paese sarebbe stata riconosciuta. Unica contropartita, l'occupazione dell'isola di Sazan.
Il lungamente atteso, auspicato, provocato e controllato tracollo dell'impero ottomano sarebbe stato contemplato fin dal patto di Londra del 1915, con relative concessioni alle ambizioni di Roma in Asia minore rimaste lettera morta per la mutata situazione internazionale e cui Londra avrebbe comunque posto ostacoli continui. A differenza dell'occupazione francese in Cilicia che aveva almeno il plausibile pretesto di proteggere la popolazione armena, o della presenza greca addotta da Venizelos per procedere all'occupazione di Izmir, per Roma non sarebbero esistite giustificazioni plausibili per prendere possesso di Antalya. L'idea di "stimolare" richieste di protezione dal notabilato locale e la necessità di calmare il malcontento causato dal cattivo andamento delle trattative alla conferenza di pace avrebbero portato all'occupazione di Antalya nell'aprile del 1920, in aperto disaccordo con gli alleati. Il teatrale e scriteriato abbandono della conferenza di pace nel maggio 1920 sarebbe servito solo a far sì che gli alleati continuassero nelle trattative, procedendo come se lo stato che occupa la penisola italiana non esistesse neppure. Al loro (precipitoso) rientro i delegati avrebbero solo potuto prendere atto di quanto deciso e segnatamente della presenza greca a Izmir e nell'interno dell'Anatolia. L'esecutivo avrebbe cercato di imporsi mettendo greci e alleati davanti al fatto compiuto con uno sbarco a Kusadasi, in pratica facendosi largo con l'arbitrio in un teatro bellico in cui aveva partecipato con contingenti simbolici. L'intento dell'esecutivo Nitti sarebbe stato quello di ottenere legittimazione all'occupazione in Anatolia e sopratutto le ex concessioni minerarie e ferroviarie tedesche e austriache. La presenza in Anatolia sarebbe stata intesa anche come compensazione ai deludenti esiti delle occupazioni in altri teatri. Le regole d'ingaggio per lo meno vaghe e l'attivismo della resistenza turca avrebbero peggiorato i rapporti già tesi con un Venizelos già alle prese con l'aggressività turca. Nei mesi successivi britannici e francesi avrebbero cercato di imporre ai turchi clausole tali da essere verosimilmente applicabili solo col massiccio ricorso alla forza -un impegno che a smobilitazione avviata nessuno avrebbe potuto sostenere- e che non avrebbero tenuto in alcun conto la situazione sul terreno. Il nuovo esecutivo guidato da Giolitti avrebbe provato a non irritrare il potenziale alleato Kemal; il successivo governo Bonomi (primavera del 1921) avrebbe assecondato la sua richiesta di ritirare i già esigui contingenti rimasti.
L'occupazione del Dodecaneso iniziata nel 1912, scrive la Caccamo, sarebbe stata decisa per tagliare i rifornimenti ai combattenti arabi in Cirenaica, avere territori da spendere in sede negoziale e per controllare le coste dell'Egeo; sarebbe stata accolta con fastidio da britannici e francesi, intenzionati a mantenere gli imperi centrali lontano dai Dardanelli. Le successive vicende avrebbero conferito carattere di permanenza a un'occupazione che avrebbe dovuto essere temporanea e in cui la popolazione turca ed ebraica avrebbe iniziato a temere l'arrivo delle truppe greche, anche perché dal 1919 Roma avrebbe ventilato l'ipotesi di una cessione alla Grecia di quasi tutte le isole -economicamente insignificanti- pur di avere mani più libere in Anatolia. Ogni intenzione in questo senso sarebbe venuta meno a fronte della situazione sul terreno negli altri territori occupati; dal giorno stesso della firma del trattato di Sèvres lo stato che occupa la penisola italiana avrebbe sottoposto il Dodecaneso a un'amministrazione civile.v Gli esecutivi in carica a Roma avrebbero sottovalutato le ragioni della rivoluzione bolscevica, mostrato una nulla comprensione della realtà russa e mantenuto una linea di rigido rifiuto per qualsiasi apertura verso i rivoluzionari. Pur nell'ambiguità della situazione, britannici e francesi si sarebbero accordati per sostenere ogni separatismo antibolscevico in risposta alle trattative di Brest-Litowsk tra bolscevichi e imperi centrali; in questo contesto lo stato che occupa la penisola italiana avrebbe inviato a Murmansk e poi in Siberia una spedizione di millecinquecento uomini per avviare nella penisola i prigionieri "irredenti" trentini e giuliani, evitare che diventassero veicoli di proselitismo rivoluzionario e soprattutto per cercare di estromettere i bolscevichi dalla Siberia di concerto col governo di Omsk capeggiato dall'ammiraglio Kolčak. L'A. nota che da una parte le potenze occidentali avrebbero favorito i separatismi, dall'altra si sarebbero alleate con personalità accentratrici e nazionaliste in completo contrasto con qualsiasi autonomismo. In questo quadro l'esecutivo di Roma sarebbe rimasto per mero antibolscevismo, non avendo interessi economici imprescindibili nell'area; l'onerosissima occupazione del Caucaso avrebbe però fatto pensare alla diplomazia britannica di poter interessare il governo di Roma a inviare militari in Georgia. L'esecutivo, contando su naviglio britannico poi mai concesso, avrebbe destinato all'occupazione un intero corpo d'armata la cui partenza per il Mar Nero fu annullata solo per la decisione di ritirare tutti i contingenti dalla Russia.
In ultimo l'A. tratta anche della partecipazione alla Armées alliées en Orient con quarantamila uomini di presidio in Bulgaria, agli ordini di un Franchet attentissimo a evitare ingerenze in una zona destinata alla influenza francese. Franchet avrebbe avuto cura di disseminare i contingenti in tutto il paese; stanti i problemi logistici e quelli legati alla smobilitazione, oltre all'illusoria prospettiva di più lucrosi impieghi delle truppe ancora disponibili, l'esecutivo di Roma avrebbe ritirato i propri militari nel luglio del 1919.
Il trattato di pace con la Germania avrebbe previsto lo svolgimento di plebisciti per la definizione del confine con la Polonia in Alta Slesia. Lo stato che occupa la penisola italiana avrebbe inviato propri militari -circa tremila, a fronte di diecimila francesi- a sostegno della commissione interalleata responsabile della regione. L'A. descrive la missione di disarmo dei militari e dei paramilitari tedeschi e polacchi come parziale e inefficace, la missione come allestita frettolosamente e con rilevanti carenze in termini di equipaggiamenti e dotazioni. A livello politico la predominanza francese si sarebbe ridotta in una gestione antitedesca dei problemi, destinata ad avallare di fatto la violenta insurrezione polacca che nel marzo del 1921 avrebbe accolto i risultati del plebiscito favorevoli alla Germania. L'A. sottolinea come la diplomazia, intenzionata a riavvicinarsi alla Francia e ad attirare la Polonia in un'alleanza antiasburgica, andasse in direzione opposta a quella del contingente, che per mesi si sarebbe invece opposto agli insorti polacchi.
Le occupazioni e le presenze militari del primo dopoguerra, si legge nelle considerazioni finali, avrebbero presentato caratteri differenti per finalità, ritmi e spazi. Südtirol, Primorska e Dalmacija sarebbero stati trattati con un atteggiamento che avrebbe coniugato la fermezza nel favorire l'annessione di tutti i territori con l'eortazione a procedere con cautela e con rispetto tanto delle minoranze quanto degli ordinamenti locali. I vertici delle forze armate si sarebbero comunque mossi all'interno di una visione mononazionale dello stato, e una disamina delle diverse situazioni farebbe concludere che le minoranze tedesche e quelle slave sarebbero state trattate in modo diverso, a tutto vantaggio delle prime per motivi storici e culturali, oltre che per motivi demografici che nel Südtirol erano difficili da eludere. Nei confronti di sloveni e croati sarebbe esistito invece un profondo complesso di superiorità non scevro da venature di razzismo culturale. Un atteggiamento che avrebbe trovato decisamente ben disposti i comandi delle truppe di occupazione. Secondo gli AA. questo avrebbe tendenzialmente portato a una "nazionalizzazione liberale" nel primo caso e a una "nazionalizzazione estremista" nel secondo, considerate le eccezioni e i contrasti presentati nel testo. Un atteggiamento diverso nei due contesti sarebbe riscontrabile anche nel clero cattolico, nel secondo caso decisamente contrario a ogni annessione e per questo spesso disciplinato manu militari. Il movimento socialista avrebbe avuto invece problemi ad assumere qualche peso in Trentino, laddove nella Venezia Giulia sarebbe stato invece l'unica forza politica organizzata e influente a sopravvivere alla fine della guerra. A farlo percepire come una minaccia avrebbe contribuito il prevalervi di una linea massimalista, oltre che la sempre più stretta contiguità a Trst fra gli ambienti militari e quelli nazionalisti. Nel contesto sudtirolese la "nazionalizzazione liberale" si sarebbe avvalsa di trentini irredentisti per il "riequilibrio" della macchina amministrativa; in Trentino invece la contrapposizione sarebbe stata quella fra i pochi "irredenti" le decine di migliaia di quelli che sarebbero stati sbrigativamente definiti come "austriacanti", suscettibili di essere considerati con sospetto -quantomeno di irriducibile provincialismo- anche nei decenni successivi. A Trst un ruolo fondamentale nella direzione della vita politica e sociale sarebbe andato invece alle centrali dell'associazionismo nazionalista legate al combattentismo e ai quadri politicizzati delle forze armate. A Rijeka queste caratteristiche si sarebbero rivelate ancora più radicali; la politicizzazione delle truppe,impegnate insieme a quelle francesi, vi avrebbe prevalso sulla disciplina. In Dalmacija la scarsa o nulla base per la creazione di un clima favorevole all'annessione avrebbe portato a conseguenze gravi su diversi piani, dalla insubordinazione del governatore Millo agli incidenti di Split. L'A. anzi ricorda come l'iniziale appoggio di Millo a D'Annunzio sarebbe servito dapprima a evitare colpi di mano anche su Split, e come il successivo voltafaccia del governatore avrebbe contribuito a scongiurare eventuali tentativi dello stesso genere da parte di un D'Annunzio isolato nel clima politico successivo agli accordi con il Regno di Jugoslavia. Il testo nota come in genere, non esistendo soggetti politici in grado di sfidare le truppe di occupazione, i governatori avrebbero potuto reprimere il dissenso con i soli strumenti dell'internamento, dell'espulsione e dell'epurazione. Le conseguenze della repressione sarebbero state eclatanti a Trst, che avrebbe rapidamente perso il proprio carattere cosmopolita. Consapevoli di rappresentare un potere ostile, governatori militari come Pecori Giraldi e Petitti avrebbero saputo attenuare gli effetti dell'occupazione sulle società locali e avrebbero cercato di procedere costruttivamente, secondo gli AA. riuscendoci solo in parte. Altri soggetti decisionali coevi infatti si sarebbro comportati in modo diverso se non opposto, dando l'impressione che dal nuovo potere venissero segnali contraddittori e confusi. Dopo i trattati di pace le nuove amministrazioni civili strette fra il disprezzo dei governati e le violenze fasciste avrebbero adottato posizioni sempre più rigide e chiuse, di fatto sconfessando l'inclusività dei progetti iniziati dai governatori militari. L'annessione non avrebbe comportato una pacificazione nei territori occupati, ma anzi una radicalizzazione dei conflitti su cui il fascismo avrebbe imposto opprssione politica, centralismo e "semplificazione nazionale".
Laddove non esistevano prospettive di annessione le truppe di occupazione avrebbero dovuto porre le basi per l'esercizio di un condizionamento politico o economico, oppure mostrare bandiera (come in Slesia o in Bulgaria) per ragioni di prestigio. Il tracollo di quattro imperi tuttavia avrebbe provocato l'arrivo sulla scena di attori geopolitici non facilmente ignorabili e un certo (per non dire drastico) ridimensionamento di molte aspirazioni, soprattutto a fronte dei costi inaffrontabili delle occupazioni e dei problemi logistici. Gli AA. sostengono che se gran parte della classe dirigente aveva sperato che "il tornaconto economico e politico di una presenza militare così estesa avrebbe di gran lunga superato i costi", coloro che avrebbero potuto smentire le aspettative non avrebbero saputo o potuto opporsi. Anche le iniziative meno realistiche come l'occupazione della Georgia avrebbero ottenuto dinieghi ininfluenti, data la convinzione che ne andasse quantomeno del prestigio. In chiusura gli AA. considerano il comportamento del Regno di Jugoslavia in Kärnten e quello della Repubblica Francesce in Alsazia. Nel primo caso il comportamento degli occupanti avrebbe alienato al Regno di Jugoslavia la simpatia di parte degli sloveni chiamati al plebiscito. Nel secondo caso una sorta di "catasto etnico" basato sull'antichità della residenza sarebbe servito ai francesi per espellere in pochi giorni oltre centodiecimila persone. In tutte le circostanze, conclude il testo, un clima postbellico avvelenato non avrebbe consentito attenzioni per i diritti di minoranze spesso appartenenti a compagini nemiche fino al giorno prima.


Raul Pupo (a cura di) - La vittoria senza pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra. Bari, Laterza 2014. 288 pp.