Alberto Grandi - Denominazione di Origine Inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani

La raccolta di saggi che Eric Hobsbawm pubblicò nel 1983 col titolo L'invenzione della tradizione ha fornito strumenti utili all'interpretazione di un'ampia gamma di fenomeni culturali. Alberto Grandi in Denominazione di origine inventata li applica ai prodotti alimentari e alla gastronomia ascritti alla penisola italiana. L'A. non intende denigrarne i pregi; intende dimostrare come attorno ad essi il marketing abbia edificato vere e proprie leggende dal fondamento storico opinabile, generalmente allo scopo di sottolineare una pretesa antichità che cela di solito realtà meno suggestive.
All'inizio di un primo e lungo capitolo introduttivo, Grandi sottolinea come alla crisi industriale degli anni Settanta lo stato che occupa la penisola italiana abbia reagito valorizzando le piccole imprese -ivi comprese quelle alimentari- e rinunciando in amplissima misura a un rilancio che prevedesse ricerca, investimenti e innovazione. In campo alimentare la ricerca di un "valore aggiunto", ovvero la liceità di vendere a dieci quello che vale sì e no uno, ha prodotto una fabbrica giuridica che codifica la "tradizione" per decreto; con i marchi DOC, DOCG, DOP e IGP si predende di conferire identità ai territori richiamando un mai esistito passato di fasto e di opulenza. L'A. è convinto che nella penisola italiana il passaggio alla società industriale sia stato particolarmente rapido e che questo abbia facilitato il ricorso alle tradizioni inventate come puntello identitario. L'invenzione di una tradizione gastronomica poté contare su un materiale di partenza accumulato dalla fine del XIX secolo nell'ambiente borghese dei vari Pellegrino Artusi, col contributo delle testimonianze di milioni di emigrati negli USA i cui usi furono decenni dopo divulgati da Ancel Keys e dalla sua "dieta mediterranea".
Grandi non nega affatto l'eccellenza delle produzioni peninsulari e rileva anche che secondo ogni logica potrebbero fare a meno di molte politiche protezioniste; nega invece che le si possa descrivere come frutto di una tradizione sedimentata nei secoli e radicata nella cultura e nella storia locale, dal momento che è possible dimostrare che quasi tutti i prodotti sono stati sostanzialmente inventati fra gli anni Settanta e gli anni Novanta del XX secolo. La seconda tesi del libro è che la tipicità di un prodotto andrebbe identificata non con il luogo di produzione ma con la comunità che quel prodotto consuma, perché una tradizione produttiva si può inventare facilmente, mentre inventarne una di consumo è più difficile.
Il marketing dei "prodotti tipici" fa leva sulla convinzione (per lo più ingiustificata) che un prodotto sia frutto di una lunga storia, di un rapporto equilibrato con l'ambiente e di capacità artigianali a rischio di scomparsa. Nello stato che occupa la penisola italiana assai più che altrove sarebbe inoltre diffusa la tendenza a trovare rassicurante un passato che non lo era affatto e la cui versione elegiaca spaventerebbe senz'altro meno del futuro; l'industria alimentare ne è ben consapevole e ammanta di improbabili passati anche i prodotti lanciati da pochi anni, il democratismo rappresentativo avalla (anzi, aizza) battaglie di campanile e schiera ben nutriti che si atteggiano a cavalieri medievali "per difendere l'onore di una salsiccia o di un formaggio".
Nel primo capitolo del libro, Grandi dimostra che la cultura gastronomica di oggi non affonda le radici nelle tradizioni antiche, che non è la somma di tante cucine regionali, che Pellegrino Artusi non era un grande cuoco e neppure un profondo conoscitore delle cucine regionali, che gli emigrati non portarono con sé la cultura gastronomica di origine diffondendola nel mondo e che non ci si è sempre nutriti secondo i principi della "dieta mediterranea".
Ai bei tempi antichi dell'Europa preindustriale, specifica l'A., "si mangiava come si riusciva, quel che si produceva, quando c'era, senza pensare al gusto e senza la possibilità di procurarsi ingredienti particolari" riservati alle élite, ai cui occhi la "tipicità" era quindi una caratteristica poco apprezzata. La fama dei cuochi peninsulari e dei loro compendi si oscurò e tramontò rapidamente col mutare della storia economica lasciando un filo esilissimo in qualche ricettario implausibile e venendo sostituita anche nelle terre di origine dall'influenza e dalla supremazia francese, peraltro destinata a perdurare almeno fino alla fine del XIX secolo dalla penisola iberica agli Urali. Realtà marginali e pellagrose, la penisola italiana e la sua gastronomia finirono oggetto di esplicite lamentele da parte dei giovani agiati impegnati nel Grand Tour. Rintracciabili a fatica erano i capisaldi della pizza -peraltro comune a tutta l'area mediterranea- e della pasta, confinata alle Due Sicilie.
L'unificazione della penisola fu condotta da una destra liberale piuttosto convinta che essa potesse progredire imitando le potenze esistenti e non certo esaltando i propri elementi caratteristici. La francesizzazione delle élite continuò per decenni senza scosse, le masse in compenso furono travolte dalla politica fiscale. L'inizio della cucina peninsulare come viene presentata ancora oggi viene indicato dal Grandi nella pubblicazione de La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene avvenuta nel 1891 ad opera del già settantunenne Pellegrino Artusi. Manuale pratico per la borghesia urbana vecchia e nuova cui l'A. dedica diverse pagine, il libro si presenta come un'opera poco sistematica, come lo work in progress ventennale di un anziano non professionista aperto alle collaborazioni dei lettori. La scienza in cucina non aveva legami reali e consapevoli con gli usi codificati in precedenza e neppure aveva intenti nazionalistici se non nella esplicita opposizione agli usi francesi. Il successo editoriale del libro tuttavia registrò e al tempo stesso indirizzò i mutamenti in atto: da sottolineare il duraturo successo editoriale presso gli emigrati negli USA, che usarono i contenuti del libro come elemento di coesione. Il vero catalizzatore fu quello statunitense, e funzionò grazie alla disponibilità di prodotti e ingredienti fino a quel momento inaccessibili. La cucina peninsulare del XX secolo è frutto di un sincretismo di usi renitrodotti dall'emigrazione e di abitudini borghesi; il fatto che gli emigrati dalla penisola italiana fossero in generale più di quelli greci, spagnoli o turchi aiutò l'affermazione della "tipicità" di prodotti e preparazioni altrimenti di incerta attribuzione.
In questo contesto iniziò a funzionare la macchina propagandistica del fascismo, propensa ad enfatizzare ogni riferimento al passato che potesse dimostrare primati di un qualche genere. Il consenso venne costruito atorno a concetti e valori che si riferivano alla tradizione agricola, portando a elevare a simboli prodotti e preparazioni che potevano apparire come caratterizzanti. La disconferma arriverà solo con la sconfitta in guerra e il disastroso impatto con lo strapotere economico e alimentare dei vincitori, che portarono a un totale rifiuto del passato e a "un'adesione quasi religiosa ai nuovi modelli economici e di consumo arrivati dai salvatori" statunitensi destinata a rafforzarsi nei decenni dell'industrializzazione e di cui Grandi illustra vari esempi.
Il grande balzo in avanti verso una compiuta invenzione della tradizione avvenne secondo Grandi negli anni Settanta, ad opera di pochi personaggi (per lo più gente di cultura) che per lo più senza alcun seguito avevano cercato di individuare usi da contrapporre ai modelli proposti dalla pubblicità, piegando (a volte con sorprendente successo) la storia a uso e consumo delle necessità contingenti, andando anche a "scovare piatti e vini nelle più sperdute trattorie di campagna". Fino a trovare un crescente numero di seguaci con la crisi dello sviluppo industriale.
In questo contesto Grandi colloca l'invenzione delle "cucine regionali", fino agli anni Settanta letteralmente inesistenti come offerta commerciale (con l'eccezione di qualche riferimento a Bologna e a Napoli) e consolidate dagli emuli di Carnacina e Veronelli ampiamente foraggiati dai rispettivi assessorati alla cultura e al turismo. Un esempio dell'artificiosità deliberata di tutto questo è dato secondo l'A. dal fatto che il volume di Ancel Keys e signora sulla "dieta mediterranea" rimase pressoché sconosciuto nella penisola italiana per dieci anni, pur tradotto e distribuito. Dalla metà degli anni Ottanta, scrive Grandi non senza una punta di giustificatissimo e ben fondato scherno, "il cocktail esplosivo di regionalismo, salutismo e crisi del modello industriale mise in moto la macchina dell’invenzione della tradizione" senza più fermarsi. "Ogni sindaco, ogni presidente di provincia e ogni governatore di regione voleva il suo piatto tipico, la sua sagra -generalmente antichissima- e la sua associazione per difendere (da chi?) quel determinato prodotto". Grazie alla incentivata realtà della piccola impresa la penisola "si riempì di eccellenze delle quali avevamo ignorato l’esistenza fino a pochi giorni prima e la cui perdita sarebbe stata una tragedia nazionale, o quanto meno regionale, provinciale e comunale". In altre parole, e secondo la prassi che Hobsbawm ha illustrato tanto bene, dopo gli anni Settanta sono stati presi pezzi di consuetudini e storie ormai perdute e li si è innestati in una società nuova che con quelle consuetudini e con quelle storie non aveva pià nulla a che fare, servendosene per costruire un mito a uso e consumo dei potenziali clienti.
L'operazione è riuscita al punto da oscurare l'effettivo declino complessivo della penisola italiana, e da far identificare nella gastronomia e nel turismo gli elementi centrali di una risposta ad esso. Secondo l'A., questo eviterebbe ancora una volta di mettere in discussione le convinzioni economiche correnti, a costo di ridurre la penisola a una realtà in cui "il residente canta le odi e la poesia della Tradizione a uso e consumo del danaroso turista".
I successivi quindici capitoli del libro sono dedicati alla verifica -ovvero alla confutazione, per lo più condotta con toni che vanno dall'ironico allo scherno vero e proprio- di una nutrita serie di tradizioni inventate. Uno scritto che si intitola Una Colonnata di frottole non fa certo presagire buone conclusioni sulla pretesa antichità di un certo lardo, a tutti gli effetti esistente come tale dal 2003. Ancora peggio va al Pomodoro di Pachino, nato nel 1989 con gli incroci e le ibridazioni condotte dalla Hazera Genetics. Una paternità ingombrante, fatta dimenticare dall'Indicazione Geografica Protetta. Può sembrare paradossale invece che fino a qualche anno fa, come spiega Grandi nel capitolo seguente, l'origine del prodotto non avesse alcuna importanza nella commercializzazione dell'olio di oliva; una situazione radicalmente cambiata solo col cambiare delle politiche agricole dell'Unione Europea, che imposero la ricollocazione del prodotto in una fascia commercialmente più alta rispetto agli analoghi greci e spagnoli e il generosissimo ricorso al marketing territoriale.
L'antica e documentata storia del formaggio parmigiano, rileva l'A., presenta un "buco" di oltre un secolo chiusosi solo all'inizio del XX secolo grazie alla ripresa della zootecnia. Che ne fece un prodotto molto diverso da quello noto storicamente, disciplinato solo dal 1938 e destinato a evolversi in proprio solo dagli anni Sesssanta, differenziandosi sensibilmente da un parmesan statunitense prodotto da immigrati secondo metodi che per ironia sono senza dubbio maggiormente fedeli a quelli pretesamente antichi.
Il vino Marsala inizia la carriera come prodotto contraffatto. Alcol aggiunto a una partita spedita in Inghilterra nel 1773, e rivendita del prodotto finale come ricercatissimo madera. Per decenni i suoi produttori furono britannici, le tecniche impiegate spagnole o portoghesi, e la propaganda contraria alle "democrazie plutocratiche" sorvolò con noncuranza su questi e altri dettagli non da poco.
Stando a pubblicità e siti web, "ogni tipo di prosciutto... sarebbe nato o in età antica o nel Medioevo; fa eccezione solo il Cuneo, dove, chissà perché, si sono messi a fare prosciutti con qualche secolo di ritardo", sogghigna Grandi nel capitolo successivo, schernendo le pretese di esclusività e di eccellenza di certi consorzi. Un po' quello che succede con certe denominazioni vinicole, dove i 17 (diciassette) dolcetto piemontesi coesistono nella "solita orgia di richiami storici, di documenti medievali, di reperti archeologici e di memorie orali a giustificare queste tipicità al cubo".
Il panettone? Inventato da Angelo Motta nel 1919, trasformando radicalmente una preparazione preesistente e soprattutto industrializzandone la produzione. In una penisola "che si stava ubriacando col mito dell'Impero, lanciata verso un vaneggiante futuro fatto di autarchia, mirabolanti conquiste e primati industriali solo sognati" il successo fu immediato; il panettone poteva rappresentare qualcosa di nuovo, di evidentemente industriale ma che al tempo stesso aveva un legame con la (presunta) tradizione. Altro paradosso, il panettone come "prodotto artigianale" nasce veramente solo negli anni Ottanta del XX secolo, con il declino dell'industrializzazione.
Il consumo di pasta cresce e si generalizza nella penisola italiana con il ritorno di emigrati da oltreoceano, dopo la prima guerra mondiale, e con la disponibilità di grani selezionati partendo soprattutto da varietà nordafricane. Attualmente la fabbricazione richiede varietà importate per oltre un terzo perché la produzione locale non risponde agli standard, con buona pace del protezionismo.
L'aceto balsamico tradizionale ha costi molto alti ed è sempre stato realizzato per l'autoconsumo da poche case nobili e borghesi. L'aceto balsamico di Modena prodotto dagli anni Settanta non è che aceto con mosto e caramello e costa un centesimo di quello tradizionale. L'effetto di sovrapposizione di immagine ha finito per avvantaggiare entrambi i prodotti, e in qualsiasi supermercato è possible trovare "con poca spesa gli antichi romani, Matilde di Canossa, Lodovico Ariosto e quasi tutto il Rinascimento", conclude Grandi con evidente soddisfazione.
Con ancora maggiore sarcasmo il libro passa a trattare del cioccolato di Modica, ideato come tale attorno al 1990 e tutelato dal 2003, ma corredato di origini mitiche talmente astruse che fanno raccomandare all'A.: "Quando una storia non sta in piedi, infilateci, a martellate se serve, gli Aztechi o i Templari e il gioco è fatto".
Interrotto alla C di Calabria il conto (arrivato a sessanta) dei "Prodotti Agroalimentari Tradizionali" a base di maiale, Grandi spiega che dal 1875 circa i suini allevati nella penisola sono per lo più Large White di origine britannica. Un punto di partenza non troppo agevole per chi si atteggia a custode delle tradizioni, al pari della assenza di codificazioni in una materia che era retaggio del singolo norcino e non certo di un'area geografica.
Il quattordicesimo capitolo illustra dettagliatamente il quarantennale operato dei baldi difensori della tradizione della focaccia di Recco -coronato nel 2015 dalla tutela dell'Unione Europea- sostanzialmente volto alla costruzione artificiale di un monopolio. Un monopolio talmente ben riuscito che fuori da quattro comuni liguri la focaccia non solo non può essere prodotta, ma neppure venduta; nel 2015 la presenza a una fiera in Lombardia fruttò agli stessi responsabili del consorzio una denuncia per frode in commercio...
Negli anni Sessanta De Gaulle affermava che in Francia esistevano duecentoquarantasei varietà di formaggio; nella penisola italiana quelli tipici erano forse una trentina. Che sono diventate trenta al quadrato col collasso dei grandi marchi e il differenziarsi di una miriade di piccoli produttori in seguito al mutare delle politiche europee. Produttori che hanno sentito il dovere di nobilitarsi: "si va dal Caciocavallo Silano, che secondo la storia ufficiale era già noto e celebrato da Ippocrate... per arrivare alla Casciotta d’Urbino apprezzata anche da Michelangelo, il quale, quando finiva le scorte di Lardo di Colonnata, si gettava avido sul famoso formaggio marchigiano..."
Il prodotto tipico, conclude Grandi, andrebbe definito non tramite il territorio o le tradizioni, l'uno definito arbitrariamente e le altre inventate, ma tramite la sua domanda e la stabilità delle caratteristiche nel tempo, parametro molto difficile da riscontrare. Conclusione, i prodotti tipici non posssono che essere quelli normalmente considerati industriali; l'A. espone una lunga serie di esempi fra i più noti, illustrando nuovamente l'aspetto paradossale per cui in vari casi l'affermazione di un prodotto industriale ha aperto la strada ad analoghi prodotti artigianali.
Il volume si chiude con l'esposizione delle principali tipologie di denominazione protetta, e con una bibliografia divisa in due: una parte per chi si fida dell'Autore, un'altra (molto più corposa) per chi non si fida.


Alberto Grandi - Denominazione di Origine Inventata - Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani. Milano, Mondadori (2018), 162 pp.