Eric Gobetti - E allora le foibe?
Il 10 giugno del 1940 lo stato che occupa la penisola italiana mise fine alla "non belligeranza" nella seconda guerra mondiale e il 6 aprile 1941 aggredì il Regno di Jugoslavia. Dal 2004 lo stato che occupa la penisola italiana ha imposto per legge un "giorno del ricordo" -celebrato ogni 10 febbraio- in cui viene puntualmente diffusa e difesa una versione delle vicende belliche sul confine orientale molto vittimista e piagnucolosa fino all'irritante, della cui fondatezza qualsiasi persona seria ha il dovere di dubitare. Un "fact checking" è un lavoro di accertamento di avvenimenti e dati; in "E allora le foibe?" Eric Gobetti applica questa metodologia alla narrativa suddetta evidenziandone sia limiti sia la natura distorta, in cui non mancano tratti infondati o in aperta malafede.
Il titolo del libro riprende un intercalare comico che richiama quelli con cui i propagandisti più petulanti (con perentoria pretesa di serietà) richiamano alle loro istanze l'attenzione di uno sventurato interlocutore che abbia il torto di ignorarle. L'introduzione mette già in luce alcune fra le caratteristiche più irritanti della propaganda, prima fra tutte la delegittimazione di qualsiasi lavoro di verifica e di confutazione condotto su basi minimamente serie abbia per oggetto i centoni vittimisti, le ciarle gazzettiere e i filmetti eretti ad epopee che ne costituiscono i materiali.
Il primo capitolo fornisce un inquadramento geografico e cronologico delle vicende affrontate; il confine orientale dello stato che occupa la penisola italiana -con Trst, Pula, Gorica e Rijeka- è stato oggetto di un'assimilazione forzata a partire dal terzo decennio del XX secolo dopo essere stato multiculturale, multilinguistico e multinazionale per centinaia di anni.
Il secondo capitolo indaga uno dei tratti più cari alle operazioni propagandistiche, quello per cui gli slavocomunisti si sarebbero alzati una mattina e, metafisicamente malvagi com'erano e come sono, avrebbero deciso di eliminare fisicamente chiunque gli paresse di troppo approfittando del colliquarsi delle istituzioni successivo all'8 settembre 1943.
Sui precedenti venti anni abbondanti di assimilazione forzata -le cui pratiche vengono riassunte dall'A. in poche pagine- la stessa propaganda tende comprensibilmente a sorvolare. L'equiparazione propagandistica fra gli avvenimenti oggetto del volume e lo sterminio degli ebrei d'Europa viene confutata nel terzo capitolo: fra le vittime dei processi sommari non figurano bambini e compaiono poche donne perché poche donne ricoprivano qualche incarico nelle organizzazioni fasciste; la violenza si scatenò -relativamente, se alle duecento vittime finite nella foiba di Pazin i tedeschi risposero pochi giorni dopo facendone duemilacinquecento- contro quanti vennero percepiti, a torto o a ragione, responsabili di vent'anni di oppressione. In questo si ritorse contro i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana la loro identificazione con i sostenitori del regime fascista, che la propaganda dell'epoca aveva fatto di tutto per presentare come esente da sfumature.
Il quarto capitolo confuta la pretesa "pulizia etnica" del confine; la propaganda si è impossessata di un'espressione entrata in uso negli anni dopo il 1990 e la usa per indicare la invariabile propensione balcanica a risolvere ogni pendenza tramite lo sterminio dei gruppi percepiti come avversari. Intenzione di Gobetti è quella di sottolineare come la violenza non avesse natura etnica ma politica; il fatto che nei primi mesi del 1944 fra i venti e i trentamila combattenti provenienti dalla penisola italiana abbiano combattuto per la liberazione della Jugoslavia (un numero equivalente a quello dei partigiani combattenti nella penisola nello stesso periodo) non verrebbe solitamente preso troppo in considerazione, così come le operazioni di propaganda tendono a sorvolare sulla istituzione di un Adriatische Küstenland sotto sovranità tedesca con annesse conseguenze. L'A. sottolinea poi come le rese dei conti in tutto il confine orientale che caratterizzano gli ultimi mesi di guerra e i primi mesi successivi alla capitolazione tedesca non abbiano nulla di diverso da quelle che si verificano in tutta Europa nello stesso periodo, notando inoltre similitudini tra prassi e avvenimenti riscontrabili nell'Europa occidentale più che nei paesi liberati dall'Armata Rossa. In questo senso l'opera di criminali comuni come i membri della cosiddetta “Squadra volante”, responsabile delle uccisioni commesse presso l’Abisso Plutone sul Carso triestino non costituisce certo la regola, che è piuttosto quella di una campagna di arresti preordinata dall'alto, affidata alla polizia politica ed eseguiti in base a liste pre-stilate e ad obiettivi politici precisi.
Il quinto capitolo del libro è fra i più brevi e affronta lo specifico argomento delle foibe togliendo di mezzo il grand guignol della propaganda. Gobetti indica in circa diecimila le vittime delle deportazioni e degli arresti successivi al maggio 1945 e in un migliaio circa quelle effettivamente uccise e sepolte nelle cavità carsiche. La maggior parte dei decessi avvenne nei campi di internamento in Jugoslavia. Questo non cambia il giudizio morale che si può dare degli eventi ma cambia, e molto, l’immaginario di violenza primitiva veicolato dall’uso simbolico del termine “foibe” per indicare tutto il fenomeno.
Il sesto capitolo affronta la tematica dell'espulsione dei sudditi dello stato che occupa la penisola italiana dai territori al confine orientale. Al contrario di quanto accaduto in Europa orientale a dodici milioni di tedeschi, nessuno emise a riguardo alcun provvedimento formale. Nonostante questo, in circa quindici anni trecentomila abitanti lasciarono l'Istra, quasi tutti alla volta dello stato che occupa la penisola italiana. All'assenza di provvedimenti formali si accompagnò comunque la risaputa identificazione etnica con il fascismo che le nuove autorità non fecero nulla per confutare imponendo un clima di profonda diffidenza cui moltissimi finirono per cedere. Il resto lo fecero collettivizzazione forzata, nazionalizzazione delle proprietà e industrializzazione rapida, a fronte di una scarsissima attenzione ai consumi al cui paragone l'Occidente europeo sotto controllo statunitense si presentava come a dir poco opulento.
Il settimo capitolo tratta del presunto abbandono cui andarono incontro profughi ed esuli. Gobetti ricorda invece che a fronte di sporadici fenomeni di rifiuto e di situazioni drammatiche a livello individuale i profughi da Istra, Dalmacija e Primorska trovarono in pochi anni leggi che li agevolavano per l'accesso agli impieghi pubblici (e non solo) e all'edilizia popolare e istituzioni specificatamente dedicate all’accoglienza che si adoperavano per trovar loro casa e lavoro in un contesto economico in crescita e in una congiuntura politica favorevole.
L'ottavo capitolo affronta il problema delle cifre. La propaganda "occidentalista" riferisce abitualmente di totali sempre più ridicoli e nel discorso pubblico è comunque prassi parlare di diecimila morti nelle foibe e di trecentocinquantamila esuli. Secondo L'A. distinguere fra 1943 e 1945 non significa affatto cavillare sulle cifre; se nel 1943 l'insurrezione fa duecento vittime a Pazin, i tedeschi ne fanno duemilacinquecento in tutta l'Istra. La "salvezza" tedesca fa in pratica cinque morti contro uno. Nel dopoguerra furono riesumate 454 salme nel Territorio Libero e dalle province di Trst, Rijeka e Gorica risultano 2500 scomparsi. L'ordine di grandezza su cui c'è serio accordo è quello di tre o quattromila vittime, in un contesto in cui le rese dei conti sono meno sanguinose che altrove, con buona pace della propaganda. Le cifre dell'esodo sono invece dello stesso ordine di grandezza, valutate in centonovantamila "autoctoni", sessantamila giunti nelle regioni di confine durante il fascismo e almeno cinquantamila tra sloveni, croati e altre minoranze. Un totale che sfigura a fronte dei colossali trasferimenti di popolazione nell'Europa orientale del dopoguerra, e oggetto di una visibilità molto superiore a fenomeni di analoga ampiezza come l'abbandono del Dodecaneso o quello del Nord Africa francese.
In ultimo, Gobetti esamina lo stereotipo per cui ci sarebbe stata per anni una "congiura del silenzio" imposta dall'intelligencija comunista. Nel dopoguerra i partiti dominanti contribuirono di comune accordo a creare una "memoria condivisa" che presentava il paese come vittima del fascismo, con una guerra condotta con poca voglia e ancora meno mezzi da una "armata sagapò" conclusa con una Resistenza di cui si tralasciavano per quanto possibile gli aspetti rivoluzionari. Sollevare l'argomento dei crimini partigiani avrebbe messo in crisi il quadro retorico e chiamato in causa non solo il ruolo del Partito Comunista nell'appoggio alle rivendicazioni jugoslave, ma anche l’invasione del 1941, l’occupazione e i crimini di guerra; tema su cui aleggiava lo spettro di quei campi di concentramento e di sterminio che era bene lasciare appannaggio del nazionalsocialismo. Solo la fine del blocco comunista, il mercato elettorale e la ricerca di nuova legittimità da parte di tutte le formazioni politiche avrebbero permesso di affrontare nuovamente l'argomento. E di affrontarlo imponendo operazioni di propaganda all'insegna dell'arroganza, dell'incompetenza e della malafede. In chiusura del volume Gobetti presenta una bibliografia ragionata di testi assai più specifici, che termina con la citazione di alcune "opere non storiche" normale riferimento della propaganda.

Eric Gobetti, E allora le Foibe? Laterza, Bari 2021. 136 pp.