Christian Raimo ha pubblicato a metà del 2019 un volumetto fittamente documentato in cui analizza la nascita e soprattutto l'involuzione del già opinabile concetto di "identità italiana", con particolare attenzione per gli ultimi decenni che ha vissuto da studente, da scrittore e da politico di amministrazione locale. L'abbondanza delle fonti documentali è una delle caratteristiche che toglie al saggio il pericolo di un rapido passaggio in desuetudine, comune agli elaborati che vengono presentati come instant book.
Nato nel 1975, l'italiano per forza Christian Raimo ha assistito a una costruzione identitaria identica a tante altre e basata sostanzialmente sulle prassi enucleate da Hobsbawm ne L'invenzione della tradizione; i paralleli a proposito vengono identificati fin dalle prime pagine del saggio citando le manipolazioni propagandistiche e politiche costruite per il rafforzamento del nazionalismo serbo. Molto in sintesi, il tratto comune a questi costrutti prevede il richiamo di un passato selezionato con cura e il proclamarsene continuatori. Nello stato che occupa la penisola italiana gli anni dopo il 1990 hanno visto cimentarsi in operazioni del genere i tre principali partiti della destra, tra i quali spiccava per originalità quello capeggiato da Umberto Bossi con l'imposizione di un'identità "nazionale" mai esistita.
Carlo Azeglio Ciampi e Carlo Giuliani rappresentano le due anime antitetiche che caratterizzano l'inizio del XXI secolo nello stato che occupa la penisola italiana. Con i fitti discorsi pubblici del primo il nazionalismo retorico e onnicomprensivo della costruzione identitaria arriva ai massimi livelli istituzionali, sostenuto da produzioni gazzettesche e pamphlet chiamati a colmare un preteso "vuoto identitario" lasciato da un collasso delle istituzioni sovranazionali considerato chissà perché imminente -per quanto l'inazione europea verso la disgregazione della Yugoslavia fornisse validi argomenti a questa tesi- e da un altrettanto presunto azzeramento della politica operato dall'inconcludente stagione di "Mani Pulite". Particolarmente spassose agli occhi dell'autore le produzioni di Ernesto Galli della Loggia, convinto assertore dell'unicità e della continuità istituzionale della chiesa cattolica e dei carabinieri [nello stato che occupa la penisola italiana sono un corpo di gendarmeria cui spetta anche e soprattutto il controllo del terrritorio, n.d.a.] come fondamenti dell'identità "nazionale".
Nato nel 1975, l'italiano per forza Christian Raimo ha assistito a una costruzione identitaria identica a tante altre e basata sostanzialmente sulle prassi enucleate da Hobsbawm ne L'invenzione della tradizione; i paralleli a proposito vengono identificati fin dalle prime pagine del saggio citando le manipolazioni propagandistiche e politiche costruite per il rafforzamento del nazionalismo serbo. Molto in sintesi, il tratto comune a questi costrutti prevede il richiamo di un passato selezionato con cura e il proclamarsene continuatori. Nello stato che occupa la penisola italiana gli anni dopo il 1990 hanno visto cimentarsi in operazioni del genere i tre principali partiti della destra, tra i quali spiccava per originalità quello capeggiato da Umberto Bossi con l'imposizione di un'identità "nazionale" mai esistita.
Carlo Azeglio Ciampi e Carlo Giuliani rappresentano le due anime antitetiche che caratterizzano l'inizio del XXI secolo nello stato che occupa la penisola italiana. Con i fitti discorsi pubblici del primo il nazionalismo retorico e onnicomprensivo della costruzione identitaria arriva ai massimi livelli istituzionali, sostenuto da produzioni gazzettesche e pamphlet chiamati a colmare un preteso "vuoto identitario" lasciato da un collasso delle istituzioni sovranazionali considerato chissà perché imminente -per quanto l'inazione europea verso la disgregazione della Yugoslavia fornisse validi argomenti a questa tesi- e da un altrettanto presunto azzeramento della politica operato dall'inconcludente stagione di "Mani Pulite". Particolarmente spassose agli occhi dell'autore le produzioni di Ernesto Galli della Loggia, convinto assertore dell'unicità e della continuità istituzionale della chiesa cattolica e dei carabinieri [nello stato che occupa la penisola italiana sono un corpo di gendarmeria cui spetta anche e soprattutto il controllo del terrritorio, n.d.a.] come fondamenti dell'identità "nazionale".
Nel luglio del 2001 il G8 di Genova toglie ogni dubbio a chi ancora ne coltivasse: lo stato che occupa la penisola italiana si mostra, e per molte persone serie sarà da allora in poi identificato, con la pistola che ha appena sparato e i manganelli ancora sporchi di sangue.
Nei quindici anni successivi l'autore identifica la rivincita del neonazionalismo, con il ripristino della festa della Repubblica e l'istituzione del "Giorno del Ricordo", i centocinquant'anni dall'unità "nazionale" e i cento anni dalla prima guerra mondiale. Una reinvenzione del calendario a colpi di riti collettivi. Il neonazionalismo ha però un sotteso pratico e poco retorico nella legge sulla cittadinanza del 1992 e in quella per il voto all'estero del 2001. La prima facilitò di molto l'acquisizione della cittadinanza per chi poteva accampare ascendenti anche remoti e la rese parimenti difficile per gli immigrati. La seconda concesse diritto di voto a molti individui dello stesso milieu. Entrambe fanno da sfondo a quella che l'autore identifica come la prima mutazione del razzismo che fa da principale (se non unico) pilastro all'impianto ideologico e alla pratica politica della Lega, nata come formazione antimeridionale e diventata soprattutto xenofoba nel giro di pochi anni. Il lavoro alacre di fabbricazione identitaria non si arresta per tutti gli anni a seguire e con l'avvicinarsi dei centocinquant'anni dalla pretesa "unificazione nazionale" coinvolge ogni aspetto della comunicazione, fino al packaging dei prodotti di consumo. A festeggiamenti finiti, due fucilieri di marina finiti in un piccolo pasticcio nella Repubblica dell'India vengono trattati dai mass media come due nuovi Sacco e Vanzetti. Secondo Raimo il neonazionalismo non ha più alcun bisogno di mascherare una natura grottesca, vile e raccapricciante perché si muove nel vuoto pneumatico delle critiche. Procede imperterrito con operazioni ridicole e in perdita netta come il filmetto Red Land che coltivano il mito piagnucoloso del vittimismo fascista, accolte con con una sufficienza venata di scherno da qualunque fruitore minimamente obiettivo. Con altrettanto nettissimo sprezzo del ridicolo il mainstream si mostrerebbe propenso a derubricare ogni soluzione e ogni proposta, che riguardi problemi epocali o formazioni delle squadre di pallone, alla difesa di una "patria" dai confini netti.
In questo contesto non stupisce l'affermazione del virilismo dell'identità. Il quarto capitolo è probabilmente il più denso di citazioni letterarie, utili a dimostrare come il costrutto "identitario" sia stato compiuto relegando qualsiasi componente non maschile a un ruolo di comparsa sporadica. Una certa attenzione viene riservata alla figura di Dante Alighieri e alla sua aperta e incompetente decontestualizzazione.
La costruzione di una identità alternativa prosegue nelle prime pagine l'analisi iniziata nel capitolo precedente, passando poi alla denuncia della mancata metabolizzazione culturale del colonialismo e ad una rapida indagine su quanto possa servire alla costruzione di questa alternativa. Raimo indica nel collettivo Wu Ming un aggregato capace di disinnescare gran parte dei contenuti propagandistici del neonazionalismo e di metterne in luce gli aspetti più vittimistici e menzogneri.
La conclusione del volume è nettamente contro l'identità: un concetto che nei grandi dizionari sociologici della seconda metà del XX secolo compare appena, di cui il sesto capitolo denuncia la portata distruttiva ricollegandosi alle considerazioni riportate all'inizio del volume e facendo riferimento in modo particolare alle operazioni di costruzione identitaria avvenute nello stato sionista. Il concetto di identità intesa come ciò che rimane quando si smantella la cultura della convivenza aiuta il lettore a cambiare paradigma, e a non farsi ingannare da un inesistente attrazione di sapore metafisico che è invece frutto di operazioni deliberate, mosse per lo più da motivi di tornaconto politico.
Christian Raimo, Contro l'identità italiana. Torino 2019, pp. 134.
Nei quindici anni successivi l'autore identifica la rivincita del neonazionalismo, con il ripristino della festa della Repubblica e l'istituzione del "Giorno del Ricordo", i centocinquant'anni dall'unità "nazionale" e i cento anni dalla prima guerra mondiale. Una reinvenzione del calendario a colpi di riti collettivi. Il neonazionalismo ha però un sotteso pratico e poco retorico nella legge sulla cittadinanza del 1992 e in quella per il voto all'estero del 2001. La prima facilitò di molto l'acquisizione della cittadinanza per chi poteva accampare ascendenti anche remoti e la rese parimenti difficile per gli immigrati. La seconda concesse diritto di voto a molti individui dello stesso milieu. Entrambe fanno da sfondo a quella che l'autore identifica come la prima mutazione del razzismo che fa da principale (se non unico) pilastro all'impianto ideologico e alla pratica politica della Lega, nata come formazione antimeridionale e diventata soprattutto xenofoba nel giro di pochi anni. Il lavoro alacre di fabbricazione identitaria non si arresta per tutti gli anni a seguire e con l'avvicinarsi dei centocinquant'anni dalla pretesa "unificazione nazionale" coinvolge ogni aspetto della comunicazione, fino al packaging dei prodotti di consumo. A festeggiamenti finiti, due fucilieri di marina finiti in un piccolo pasticcio nella Repubblica dell'India vengono trattati dai mass media come due nuovi Sacco e Vanzetti. Secondo Raimo il neonazionalismo non ha più alcun bisogno di mascherare una natura grottesca, vile e raccapricciante perché si muove nel vuoto pneumatico delle critiche. Procede imperterrito con operazioni ridicole e in perdita netta come il filmetto Red Land che coltivano il mito piagnucoloso del vittimismo fascista, accolte con con una sufficienza venata di scherno da qualunque fruitore minimamente obiettivo. Con altrettanto nettissimo sprezzo del ridicolo il mainstream si mostrerebbe propenso a derubricare ogni soluzione e ogni proposta, che riguardi problemi epocali o formazioni delle squadre di pallone, alla difesa di una "patria" dai confini netti.
In questo contesto non stupisce l'affermazione del virilismo dell'identità. Il quarto capitolo è probabilmente il più denso di citazioni letterarie, utili a dimostrare come il costrutto "identitario" sia stato compiuto relegando qualsiasi componente non maschile a un ruolo di comparsa sporadica. Una certa attenzione viene riservata alla figura di Dante Alighieri e alla sua aperta e incompetente decontestualizzazione.
La costruzione di una identità alternativa prosegue nelle prime pagine l'analisi iniziata nel capitolo precedente, passando poi alla denuncia della mancata metabolizzazione culturale del colonialismo e ad una rapida indagine su quanto possa servire alla costruzione di questa alternativa. Raimo indica nel collettivo Wu Ming un aggregato capace di disinnescare gran parte dei contenuti propagandistici del neonazionalismo e di metterne in luce gli aspetti più vittimistici e menzogneri.
La conclusione del volume è nettamente contro l'identità: un concetto che nei grandi dizionari sociologici della seconda metà del XX secolo compare appena, di cui il sesto capitolo denuncia la portata distruttiva ricollegandosi alle considerazioni riportate all'inizio del volume e facendo riferimento in modo particolare alle operazioni di costruzione identitaria avvenute nello stato sionista. Il concetto di identità intesa come ciò che rimane quando si smantella la cultura della convivenza aiuta il lettore a cambiare paradigma, e a non farsi ingannare da un inesistente attrazione di sapore metafisico che è invece frutto di operazioni deliberate, mosse per lo più da motivi di tornaconto politico.
Christian Raimo, Contro l'identità italiana. Torino 2019, pp. 134.