La moschea degli Omayyadi ad Aleppo. Foto del gennaio 2006.
Gli stessi ambienti devastati dal fuoco nell'ottobre 2012. Foto: Tauseef Mustafa/AFP/Getty Images.
Traduzione da The Guardian.
Può sembrare fuori luogo lamentare i danni sofferti dal patrimonio archeologico e architettonico siriano. Ma con esso muoiono tradizioni preziose.
Poche guerre possono far danno ad un paese o a chi ci vive come una guerra civile di lunga durata.
Nel 1939 allorché le forze di Franco ebbero finito di soffocare l'ultima resistenza repubblicana in Spagna si contò più di mezzo milione di morti, mentre alcune delle più belle città d'Europa erano in macerie.
In Libano negli anni Settanta del passato secolo le cose sono andate in modo più o meno simile: centocinquantamila morti, e la distruzione quasi completa delle eleganti ville della Beirut ottomana.
In Afghanistan non sono state l'invasione sovietica o l'occupazione ad aver ucciso più gente o a ridurre Kabul in macerie, ma le lotte intestine che ad esse hanno fatto seguito, all'inizio degli anni Novanta.
In pochi anni, intanto che i missili di Massud cadevano sulle periferie pashtun di Kabul e che le milizie di Hekmatyar ne svuotavano i sobborghi tagiki, palazzi e musei venivano saccheggiati e nella pianura di Shomali i siti buddisti di Gandharan venivano sistematicamente depredati dei loro tesori.
Oggi, mentre la Siria deve affrontare la gtemenda prospettiva di una guerra civile dall'esito incerto ed è colpita da ventimila morti e duecentocinquantamila profughi che sono il prezzo in termini di vite umane di questa guerra, potrebbe sembrare fuori luogo deplorare il fatto che il suo spettacoloso patrimonio archeologico ed architettonico stia scomparendo tanto velocemente. Il fatto è che il dolore inflitto agli uomini dalle torture e dalle uccisioni è incommensurabile, e che la distruzione del patrimonio di un popolo è irreparabile; una volta distrutto un monumento, non è più possibile rimpiazzarlo. Con le armi moderne, bastano pochi mesi di fuoco concentrato perché la storia di un intero paese si riduca a nulla.
Esistono organizzazioni come il World Monuments Fund che stanno tenendo un conto delle distruzioni. Si sono verificati saccheggi sistematici dei musei siriani e dei siti archeologici, soprattutto dai musei di Idlib, Dura Europos e Palmira. Danni tremendi sono stati inferti ad alcuni dei più spettacolari monumenti della siria come i mercati coperti, le cittadelle e la moschea degli Omayyadi ad Aleppo, alle antiche città di Palmira e di Apamea e a vari siti risalenti all'epoca delle crociate sparsi in tutto il paese, compreso il più grandioso in assoluto, il Krak dei Cavalieri. La parte antica della città di Homs è stata rasa al suolo, e con essa i due musei più importanti, varie chiese cristiane antiche e molte moschee ottomane.
Come nel caso dell'Afghanistan, esistono prove del fatto che le spoliazioni sono in gran parte pianificate. Un antiquario libanese ha riferito di recente alla rivista Time che stava diventando ricco grazie a sedicenti combattenti siriani per la libertà che gli vendevano oggetti antichi dal valore inestimabile per pochi spiccioli e compravano invece armi a prezzi d'inflazione. Ma una devastazione anche peggiore di quelle che riguardano gli oggetti antichi (che almeno potenzialmente possono essere riacquistati) o i monumenti (che a volte è possibile restaurare) sta probabilmente colpendo il fittissimo mosaico settario della Siria.
Fino a due anni fa la Siria era l'ultimo paese del Medio Oriente a conservare il proprio retaggio ottomano, fatto di innumerevoli incroci. Adesso, come già successo in Grecia, in Turchia, in Egitto e nei Balcani, la guerra civile sta portando al consolidamento della comunità maggioritaria e all'esilio o all'espulsione delle minoranze.
Una delle caratteristiche peculiari della Siria prima della guerra civile era il modo in cui essa ospitava tanti gruppi etnici e religiosi che invece in altri luoghi erano scomparsi. Al gruppo dominante degli alawiti si affiancavano consistenti minoranze di curdi, armeni, circassi e drusi, assieme a gruppi meno decifrabili come gli yazidi (molti sunniti li ritengono, a torto, degli adoratori del diavolo), i mandeani (una setta gnostica che si dice discenda dai seguaci di Giovanni battista) e gli urfaliti (siriani ortodossi reduci dalla città di Edessa, di antiche tradizioni cristiane). Ci sono anche molte fratellanze sufi eterodosse, eredi di consistenti tradizioni mistiche e musicali.
Se ci basiamo su quanto successo in altri paesi un tempo parte dell'impero ottomano, è verosimile pensare che queste minoranze siano destinate a scomparire in pochi mesi. Già si riferisce in toni tragici, da Aleppo distrutta, sull'emigrazione al completo dell'antica comunità armena alla volta di Erevan.
Le cose stanno andando molto male anche per i sufi. Il cantante sufi più famoso di aleppo era Sheikh Habbboush; di solito teneva il suo spettacoloso zikr ogni mercoledi sera. Era anche un influente membro dello Al Kindi Ensemble, una formazione di primo piano nella musica araba classica. "Nessuno sa più nulla di Sheikh Habbboush da tre mesi", mi ha detto per telefono da Istanbul, dove ha trovato rifugio, il direttore del gruppo Julien Jâlal Eddine Weiss. "E' scomparso ed è possibile che sia morto. Il suo teke è stato colpito in pieno da una bomba ed il piano superiore è rimasto distrutto. Nessuno sa se si è trattato di un tiro diretto dei salafiti, che odiano i sufi e vogliono chiudere le confraternite come hanno fatto a Timbuktu. Adesso, ad Aleppo, si possono vedere le loro bandiere nere. Molti dei nostri musicisti sono rimasti senza casa ed il nostro derviscio rotante si ritrova con le gambe piene di schegge".
Sono sotto tiro anche i musicisti della comunità cristiana urfalita. I musicologi pensano che i canti urfaliti siano i più antichi ancora in uso in tutto il mondo cristiano. Sono stati composti nel terzo secolo da Sant'Efrem, che si basò su precedenti melodie ebraiche; divennero così noti che furono adottati nelle chiese d'Occidente. Se i musicologi sono nel giusto, gli urfaliti custodiscono le radici del cantus planus occidentale e della musica sacra ortodossa orientale. Oggi, il quartiere dove vivono gli urfaliti è sulla linea del fronte che divide i governativi dai ribelli.
L'insurrezione siriana è iniziata nel momento in cui l'ottimismo per gli esiti della primavera araba stava raggiungendo il suo punto più alto; si sperava che essa sarebbe culminata in una nuova alba di libertà e di democrazia. Oggi il futuro appare senza paragoni più gramo, e sono pochi quelli che provano anche solo il desiderio di immaginare come sarà la Siria che rimarrà in piedi quando le armi taceranno. Alcuni dei siti architettonici danneggiati possono ancora essere salvati. Ma il danno senza rimedio è quello che ogni giorno viene inflitto alle tradizioni vive della Siria, molte delle quali sembrano essere sul punto di sparire per sempre da quella terra.
Può sembrare fuori luogo lamentare i danni sofferti dal patrimonio archeologico e architettonico siriano. Ma con esso muoiono tradizioni preziose.
Poche guerre possono far danno ad un paese o a chi ci vive come una guerra civile di lunga durata.
Nel 1939 allorché le forze di Franco ebbero finito di soffocare l'ultima resistenza repubblicana in Spagna si contò più di mezzo milione di morti, mentre alcune delle più belle città d'Europa erano in macerie.
In Libano negli anni Settanta del passato secolo le cose sono andate in modo più o meno simile: centocinquantamila morti, e la distruzione quasi completa delle eleganti ville della Beirut ottomana.
In Afghanistan non sono state l'invasione sovietica o l'occupazione ad aver ucciso più gente o a ridurre Kabul in macerie, ma le lotte intestine che ad esse hanno fatto seguito, all'inizio degli anni Novanta.
In pochi anni, intanto che i missili di Massud cadevano sulle periferie pashtun di Kabul e che le milizie di Hekmatyar ne svuotavano i sobborghi tagiki, palazzi e musei venivano saccheggiati e nella pianura di Shomali i siti buddisti di Gandharan venivano sistematicamente depredati dei loro tesori.
Oggi, mentre la Siria deve affrontare la gtemenda prospettiva di una guerra civile dall'esito incerto ed è colpita da ventimila morti e duecentocinquantamila profughi che sono il prezzo in termini di vite umane di questa guerra, potrebbe sembrare fuori luogo deplorare il fatto che il suo spettacoloso patrimonio archeologico ed architettonico stia scomparendo tanto velocemente. Il fatto è che il dolore inflitto agli uomini dalle torture e dalle uccisioni è incommensurabile, e che la distruzione del patrimonio di un popolo è irreparabile; una volta distrutto un monumento, non è più possibile rimpiazzarlo. Con le armi moderne, bastano pochi mesi di fuoco concentrato perché la storia di un intero paese si riduca a nulla.
Esistono organizzazioni come il World Monuments Fund che stanno tenendo un conto delle distruzioni. Si sono verificati saccheggi sistematici dei musei siriani e dei siti archeologici, soprattutto dai musei di Idlib, Dura Europos e Palmira. Danni tremendi sono stati inferti ad alcuni dei più spettacolari monumenti della siria come i mercati coperti, le cittadelle e la moschea degli Omayyadi ad Aleppo, alle antiche città di Palmira e di Apamea e a vari siti risalenti all'epoca delle crociate sparsi in tutto il paese, compreso il più grandioso in assoluto, il Krak dei Cavalieri. La parte antica della città di Homs è stata rasa al suolo, e con essa i due musei più importanti, varie chiese cristiane antiche e molte moschee ottomane.
Come nel caso dell'Afghanistan, esistono prove del fatto che le spoliazioni sono in gran parte pianificate. Un antiquario libanese ha riferito di recente alla rivista Time che stava diventando ricco grazie a sedicenti combattenti siriani per la libertà che gli vendevano oggetti antichi dal valore inestimabile per pochi spiccioli e compravano invece armi a prezzi d'inflazione. Ma una devastazione anche peggiore di quelle che riguardano gli oggetti antichi (che almeno potenzialmente possono essere riacquistati) o i monumenti (che a volte è possibile restaurare) sta probabilmente colpendo il fittissimo mosaico settario della Siria.
Fino a due anni fa la Siria era l'ultimo paese del Medio Oriente a conservare il proprio retaggio ottomano, fatto di innumerevoli incroci. Adesso, come già successo in Grecia, in Turchia, in Egitto e nei Balcani, la guerra civile sta portando al consolidamento della comunità maggioritaria e all'esilio o all'espulsione delle minoranze.
Una delle caratteristiche peculiari della Siria prima della guerra civile era il modo in cui essa ospitava tanti gruppi etnici e religiosi che invece in altri luoghi erano scomparsi. Al gruppo dominante degli alawiti si affiancavano consistenti minoranze di curdi, armeni, circassi e drusi, assieme a gruppi meno decifrabili come gli yazidi (molti sunniti li ritengono, a torto, degli adoratori del diavolo), i mandeani (una setta gnostica che si dice discenda dai seguaci di Giovanni battista) e gli urfaliti (siriani ortodossi reduci dalla città di Edessa, di antiche tradizioni cristiane). Ci sono anche molte fratellanze sufi eterodosse, eredi di consistenti tradizioni mistiche e musicali.
Se ci basiamo su quanto successo in altri paesi un tempo parte dell'impero ottomano, è verosimile pensare che queste minoranze siano destinate a scomparire in pochi mesi. Già si riferisce in toni tragici, da Aleppo distrutta, sull'emigrazione al completo dell'antica comunità armena alla volta di Erevan.
Le cose stanno andando molto male anche per i sufi. Il cantante sufi più famoso di aleppo era Sheikh Habbboush; di solito teneva il suo spettacoloso zikr ogni mercoledi sera. Era anche un influente membro dello Al Kindi Ensemble, una formazione di primo piano nella musica araba classica. "Nessuno sa più nulla di Sheikh Habbboush da tre mesi", mi ha detto per telefono da Istanbul, dove ha trovato rifugio, il direttore del gruppo Julien Jâlal Eddine Weiss. "E' scomparso ed è possibile che sia morto. Il suo teke è stato colpito in pieno da una bomba ed il piano superiore è rimasto distrutto. Nessuno sa se si è trattato di un tiro diretto dei salafiti, che odiano i sufi e vogliono chiudere le confraternite come hanno fatto a Timbuktu. Adesso, ad Aleppo, si possono vedere le loro bandiere nere. Molti dei nostri musicisti sono rimasti senza casa ed il nostro derviscio rotante si ritrova con le gambe piene di schegge".
Sono sotto tiro anche i musicisti della comunità cristiana urfalita. I musicologi pensano che i canti urfaliti siano i più antichi ancora in uso in tutto il mondo cristiano. Sono stati composti nel terzo secolo da Sant'Efrem, che si basò su precedenti melodie ebraiche; divennero così noti che furono adottati nelle chiese d'Occidente. Se i musicologi sono nel giusto, gli urfaliti custodiscono le radici del cantus planus occidentale e della musica sacra ortodossa orientale. Oggi, il quartiere dove vivono gli urfaliti è sulla linea del fronte che divide i governativi dai ribelli.
L'insurrezione siriana è iniziata nel momento in cui l'ottimismo per gli esiti della primavera araba stava raggiungendo il suo punto più alto; si sperava che essa sarebbe culminata in una nuova alba di libertà e di democrazia. Oggi il futuro appare senza paragoni più gramo, e sono pochi quelli che provano anche solo il desiderio di immaginare come sarà la Siria che rimarrà in piedi quando le armi taceranno. Alcuni dei siti architettonici danneggiati possono ancora essere salvati. Ma il danno senza rimedio è quello che ogni giorno viene inflitto alle tradizioni vive della Siria, molte delle quali sembrano essere sul punto di sparire per sempre da quella terra.