Traduzione da Asia Times.
Immediatamente dopo l'insediamento del nuovo consiglio dei ministri, il presidente siriano Bashar al Assad ha affermato martedi scorso da un canale televisivo di stato che il suo paese si trovava "in un vero e proprio stato di guerra da ogni punto di vista". Nella retorica di Assad si è trattato di un cambiamento sostanziale, perché fino a poco tempo fa continuava a ripetere che stava soltanto combattendo delle bande di "terroristi" foraggiate dall'estero. "E quando si è in guerra, ogni politica, ogni parte ed ogni settore devono essere finalizzati alla vittoria", ha aggiunto.
Quella della guerra è una prospettiva estremamente realistica, anche se speculazioni su un imminente coinvolgimento della NATO appaiono premature ed esagerate. Martedi è stata una delle giornate più sanguinose in una ribellione che va avanti da quindici mesi, con combattimenti pesantissimi che hanno interessato anche la capitale. Secondo rapporti non confermati, un'importante base della Guardia Repubblicana sarebbe stata presa d'assalto, e i gruppi di opposizione affermano che almeno centoquindici persone sono state uccise in tutto il paese. Sembra anche che il governo siriano abbia perso il controllo di grandi aree del paese.
Anche il fronte internazionale si muove, e le tensioni si inaspriscono. Dopo aver perso un aereo da ricognizione, un Phantom F4 modernizzato che la settimana scorsa è stato abbattuto dai siriani, la Turchia ha detto martedi che avrebbe attaccato qualunque presenza militare siriana si fosse avvicinata ai confini, ed ha inviato rinforzi nella zona. Si tratta di un atto di natura essenzialmente simbolica, perché Ankara ha smesso di minacciare ritorsioni militari, come pure di invocare l'intervento della NATO sulla base dell'articolo 5 del trattato di Washington (quello sulla difesa comune), ma non per questo meno significativo. La Turchia può contare anche sul sostegno della NATO arrivato lo stesso martedi.
La cosa importante è che i ribelli siriani adesso si trovano in una posizione tale da permettere loro, almeno in teoria, di coinvolgere la Turchia negli scontri con l'esercito governativo, inducendo quest'ultimo a dar loro la caccia a ridosso del confine settentrionale. Dal punto di vista pratico è meno chiaro se questa crisi operi davvero a loro favore: in primo luogo perché non è sicuro che Ankara darà un seguito alle minacce, e poi perché certi esercizi di retorica potrebbero rivelarsi dei boomerang imprevedibili. Come spiegato dagli esperti in intelligence della Stratfor statunitense, la minaccia turca di aprire il fuoco sulle forze siriane che si avvicinassero ai confini potrebbe dissuadere anche potenziali disertori dall'avvicinarsi alla zona.
Altri aspetti di questa intricata situazione saltano all'occhio. Nonostante la Turchia affermi che l'aereo abbattuto fosse disarmato e che stesse effettuando un volo addestrativo nel corso del quale è rimasto "per breve tempo" nello spazio aereo siriano (la Turchia ha anche asserito che l'aereo è stato abbattuto mentre si trovava nello spazio aereo internazionale) Ankara non è certamente un testimone innocente della crisi siriana. La Turchia per più di un anno ha offerto sostegno ai ribelli garantendo loro basi sul proprio territorio, facilitando le defezioni degli alti quadri dell'esercito, e minacciando ripetutamente di inviare le proprie forze armate a mettere in piedi delle zone cuscinetto in cui i ribelli potessero organizzarsi senza essere presi di mira dall'esercito regolare. In altre parole, l'ultimatum dei giorni scorsi contro l'avvicinarsi alle frontiere da parte dell'esercito regolare siriano semra più che altro un aumentare la portata delle minacce già espresse, ed un ulteriore passo avanti verso l'effettiva realizzazione di queste zone cuscinetto.
Che l'aereo turco stesse sorvolando o meno il territorio siriano come affermato da Damasco (i siriani dicono di aver utilizzato per abbatterlo un missile che ha meno di due miglia di raggio operativo, e che anche un secondo aereo era coinvolto nello sconfinamento), è chiaro che l'incidente serve ad Assad per un motivo importante. Nel corso dello scorso mese i ribelli sostenuti dall'estero sono riusciti a mettere le mani su missili anticarro letali, che hanno cominciato a infliggere perdite sempre più gravi alle forze armate siriane; il governo ha così cominciato a fare sempre maggior conto su elicotteri ed aerei per i compiti che richiedono una proiezione della forza militare. Questi ultimi sviluppi hanno provocato un intensificarsi delle richieste rivolte al Consiglio di Sicurezza dell'ONU perché imponga una no fly zone sul territorio siriano su modello di quella imposta lo scorso anno alla Libia, ed ha anche gravato di ulteriori compiti le forze aeree siriane.
Le defezioni hanno fatto registrare un picco: tra di esse anche quella di un pilota militare -il colonnello Hassan Hammadeh- che avrebbe interrotto una missione di bombardamento la scorsa settimana per atterrare in Giordania col suo Mig 21 di fabbricazione russa. Alti quadri dell'aeronautica, tra i quali alcuni generali, ne hanno seguito l'esempio via terra, conducendo in Turchia le loro famiglie, e per un momento la situazione in Siria ha ioniziato a ricordare da vicino quella della Libia dello scorso anno, nel periodo immediatamente precedente l'intervento armato guidato dagli occidentali. In quel caso, tra l'altro, vi fu una defezione massiccia da parte di piloti militari e di alti quadri delle forze armate regolari.
Secondo un articolo del Daily Telegraph risalente a venerdi scorso, un certo numero di alti quadri dell'esercito siriano starebbe progettando una propria "exit strategy". Il 26 giugno la Reuters, rifacendosi a funzionari dei servizi statunitensi, ha invece sostenuto l'opposto asserendo che la cerchia di Assad ha mantenuto la propria coesione [1]. Va anche detto che l'aeronautica militare è tra le armi più fedeli ad Assad: un'ondata di defezioni che ivi si verificasse rappresenterebbe una seria minaccia al suo potere.
Abbattere l'aereo turco ha rappresentato invece un messaggio preciso sia per i nemici di Assad sia per i suoi soldati che fossero preda di qualche dubbio: il governo è forte e determinato, e non collasserà facilmente come quello libico. Con l'aiuto dei missili antiaerei di fabbricazione russa ricevuti lo scorso anno (uno dei quali è stato verosimilmente utilizzato contro il Phantom) la Siria è in grado di imporre un prezzo molto alto ad ogni violazione della propria sovranità territoriale e non avrà alcuna esitazione a comportarsi di conseguenza.
Inoltre, a quei siriani che hanno pensato che l'aereo turco fosse invece uno dell'aviazione siriana intento a cercare di disertare, l'episodio ha messo in chiaro un altro particolare: i disertori non devono attendersi alcuna indulgenza.
A margine di tutto questo va sottolineato anche il fatto che una campagna militare internazionale contro un paese del terzo mondo, anche se condotta per pretesi motivi umanitari, serve sempre come occasione per mostrare le caratteristiche degli armamenti che ciascuna delle principali potenze mondiali è disposta a vendere alle altre. La campagna contro la Libia dello scorso anno ha finito per ricordare una specie di esibizione aerea in cui i Rafale francesi sono entrati simbolicamente in competizione con i Typhoon britannici e con i vari aerei dell'arsenale statunitense. All'epoca fecero tutti una splendida figura, a fronte delle mediocri difese aeree libiche; oggi invece sono parte in causa nuovi apparati di fabbricazione russa la cui efficacia è stata dimostrata dall'abbattimento del Phantom ed è probabile che i principali esportatori di armi rifletteranno due volte prima di esporre al pericolo la loro reputazione.
Nei giorni successivi all'abbattimento si è parlato meno di no-fly zone, anche se il periodo trascorso è troppo breve per capire se davvero è cambiata la retorica su questa materia. In ogni caso, le discussioni in sede NATO sulla Siria intesa come minaccia per la Turchia mostrano che l'Occidente adesso ha una considerazione più seria della Siria rispetto a prima.
Stiamo assistendo ad un sottile ma importante cambiamento nella logica di fondo: mentre le considerazioni fin qui espresse su una no-fly zone e su un intervento militare sembravano basate sul presupposto di un crollo imminente dell'assetto siriano (la minaccia più grave sembrava diretta contro gli stessi siriani, mentre la violenza era indicata come un fattore indiretto di destabilizzazione nel contesto regionale) il dibattito ora in corso pare suggerire che la Siria sia forte abbastanza da minacciare, sul piano degli armamenti convenzionali, un importante membro della NATO. Si tratta di due posizioni non del tutto inconciliabili tra di loro -per esempio si potrebbe supporre che il crescente ricorso alle armi da parte di Assad, sia sul piano interno che nei confronti dei paesi esteri, rappresenti un segno del suo declino politico- ma tuttavia caratterizzate da divergenze significative; è importante osservare con attenzione in che modo questa retorica finirà per evolversi.
Assad ha anche altri assi nella manica. Secondo quanto riferito dalla stampa turca ad esempio, i rinforzi inviati verso la frontiera siriana nel corso degli ultimi giorni hanno dovuto usare ogni cautela per evitare gli attacchi dei guerriglieri curdi. Il governo siriano ha una forte presa sui militanti curdi in Turchia, ed il fatto che convogli pesantemente corazzati e concepiti per una proiezione militare oltrefrontiera abbiano grosse difficoltà ad attraversare in sicurezza persino i territori controllati da forze amiche dimostra quanto poco affidabile sia la situazione per Ankara e per l'Occidente. Gli stessi sistemi che vengono usati per cercare di abbattere Assad possono essere usati anche nella maniera opposta.
Tutto questo non significa che la pressione su Assad sia diminuita o che le sue possibilità di rimanere al potere nel lungo termine siano significativamente aumentate. Al momento attuale un intervento straniero diretto è poco verosimile, tanto più dopo l'abbattimento del Phantom turco, ma l'inasprirsi della guerra civile nel paese e l'accanirsi dei ribelli contro le minoranze che sostengono il governo potrebbe far sì che i calcoli strategici cambino nel prossimo futuro.
Inoltre, dal momento che la cerisi sirana è inestricabilmente legata all'equilibrio di forza tra Iran ed Occidente, qualche sorpresa è sempre possibile. Il crollo di Assad indebolirebbe l'Iran in maniera significativa e questo potrebbe per qualche tempo placare l'insoddisfazione di certi alleati degli Stati Uniti come lo stato sionista e l'Arabia Saudita, che se questo non si verificasse potrebbero invece cercare di coinvolgere Washington in uno scontro diretto con Tehran. Il costro di una guerra con l'Iran sarebbe maggiore di quello di una guerra con la Siria, quindi gli americani e gli europei potrebbero finire per prendere in considerazione la cosa.
A questo proposito, la visita di lunedi scorso del presidente russo Vladimir Putin nello stato sionista -si tratta della prima visita ufficiale in Medio Oriente dopo il suo reinsediamento, avvenuto il mese scorso- ha rinfocolato le speculazioni. La maggior parte degli analisti dà per scontato che Russia e stato sionista abbiano posizioni assai diverse sulla questione siriana e pensa che i russi sostengano il governo siriano e che i sionisti siano indirettamente -e secondo alcuni rapporti anche direttamente, sia pure in segreto- schierati con i ribelli.
Esistono tuttavia alcune voci discordanti, o meno allineate a questa concezione. Secondo un altro rapporto curato dalla Stratfor, per esempio,
La visita di Putin serve a fare pressione sugli Stati Uniti, e a cercare di preparare il terreno ad un cambiamento della qualità delle relazioni diplomatiche tra Russia e stato sionista in un modo che alla lunga finirebbe per pagare. I sionisti hanno bisogno di alcune cose da Putin. Non possono controllare il regime change in Siria, e invece i russi possono farlo, almeno in una certa misura. E su questo punto gli interessi russi e quelli sionisti finiscono per coincidere. I sionisti tollererebbero la sopravvivenza di Assad a patto che la Siria non diventi un satellite iraniano, e la Russia potrebbe controbilanciare l'influenza dell'Iran nel caso Assad riuscisse a rimanere in sella. Se invece Assad cadesse, sia i sionisti che i russi sarebbero interessati a vederlo sostituito da un governo sunnita moderato [2].
Una cosa di cui i sionisti avrebbero molto bisogno da Putin, in qualunque modo vadano a peggiorare le cose in Siria, è di essere aiutati a fare in modo che Assad non lanci missili sul territorio dello stato sionista. In passato, per esempio nell'imminenza dell'attacco sionista contro un reattore nucleare siriano, avvenuto nel 2007, è stata la Turchia a fare da mediatore; adesso Ankara è troppo compromessa sia nei confronti dei sionisti sia nei confronti dei siriani.
La minaccia è significativa, qualunque sia l'atteggiamento sionista nei confronti di Assad, perché ufficiali siriani hanno minacciato di "incendiare tutta la regione" nel caso dovessero trovarsi all'angolo; si teme che facciano quello che fece Saddam Hussein durante la prima guerra del golfo. All'epoca l'ex dittatore iracheno pensò che gli attacchi allo stato sionista avrebbero infranto la coesione che i paesi arabi avevano dimostrato contro il suo governo, e a detta di molti pare fosse arrivato vicino a riuscirci: soltanto il fatto che gli Stati Uniti esercitarono forti pressioni affinché i sionisti non rispondessero agli attacchi impedì al piano di funzionare.
Assad si trova oggi in una situazione pressappoco simile; lo stato sionista sta guardando con preoccupazione ad eventuali effetti secondari.
Mentre non sembra imminente un intervento straniero in Siria, la guerra civile si sta inasprendo e i maneggi internazionali stanno sviluppandosi; tutte le parti in causa si stanno febbrilmente preparando ad ogni evenienza. Una lunga estate calda, per dirla con un luogo comune, attende il Medio Oriente.
Note.
[1] How Libya is a showcase in the new arms race, Reuters, 4 aprile 2011
[2] Putin's Visit and Israeli-Russian Relations,
Stratfor, 26 giugno 2012
Viktor Kotsev è giornalista ed analista politico.
Viktor Kotsev è giornalista ed analista politico.
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