Colpisce il divario crescente tra il sistema di controllo totale che è divenuto la norma in "Occidente" e la letterale dissoluzione dello Stato in molte aree del resto del mondo, in cui l'umanità si riorganizza nei modi più vari.
Traduzione da The Guardian.
Ghaith Abdul Ahad, dallo Yemen meridionale, scrive degli jihadisti che assieme alla sharia portano acqua ed elettricità gratuite
lunedi 30 aprile 2012
Sventola la bandiera nera: combattenti jihadisti ad un posto di blocco nella città di Azzan, nello Yemen meridionale. La zona, in cui sono fioriti gli emirati jihadisti di recente proclamazione, è controllata da affiliati ad Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP). Foto di Ghaith Abdul Ahad per The Guardian.
Sulla strada che da Aden va verso est abbiamo visto la bandiera nera di Al Qaeda dopo aver superato di poche centinaia di metri l'ultimo posto di blocco dell'esercito. Sventolava in cima ad un edificio parzialmente demolito da delle esplosioni.
Da questo punto in poi, in direzione delle regioni interne del paese, qualunque cosa segnalasse una presenza governativa yemenita è scomparsa. In questa zona sorgono emirati jihadisti di recente proclamazione, alla cui testa si trovano affiliati ad Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), la sezione yemenita del movimento fondato da Osama bin Laden.
L'AQAP esiste da anni in questo territorio brullo e montagnoso, ma nel corso degli ultimi dodici mesi i jihadisti sono scesi dagli altopiani, a prendere il controllo delle città in pianura. Si stanno dando da fare per edificare qui un'utopia qaedista in cui la sicurezza è garantita dagli jihadisti, la giustizia segue la legge della shari'a e anche la distribuzione dell'elettricità e dell'acqua sono regolate dall'emiro.
Azzan fino ad un anno fa era solo una cittadina di mercato nella provincia di Shabwa. Adesso rappresenta uno dei tre emirati islamici proclamati nello Yemen meridionale. Quando noi del Guardian l'abbiamo raggiunta abbiamo visto l'accesso alla città difeso da più di una dozzina di combattenti muniti di mezzi blindati sottratti alle forze governative. Tre giovani jihadisti ci sono venuti incontro e ci hanno portati nel punto in cui il figlio diciassettenne del leader spirituale dell'AQAP, Anwar Al Awlaki, è stato ucciso, probabilmente da un drone americano. Lo stesso Awlaki è stato ucciso in un altro attacco lo scorso anno.
In un negozietto a fianco della strada alcuni giovani lavorano ai computer, copiando i sermoni di Awlaki, del capo di Al Qaeda Ayman Al Zawahiri e di altri nomi familiari del jihad mondiale. Un poster sul muro pubblicizza un film chiamato The survivors che mostra i racconti dei capi sopravvissuti agli attacchi dei droni.
La vecchia stazione di polizia della cittadina è stata trasformata in un tribunale che segue la legge sacra. Dentro, il giudice siede in una stanza sulle cui pareti campeggiano i simboli del tribunale jihadista: una bandiera nera, un kalashnikov ed un lungo bastone usato per le punizioni corporali. Il giudica apre un taccuino, per mostrarci come il sistema giudiziario di Al Qaeda abbia risolto quarantadue casi in due settimane.
"Ci sono persone che si rivolgono a noi da regioni che non siamo noi a controllare, e che ci chiedono di risolvere i loro problemi", spiega. "Il sistema giudiziario basato sulla legge sacra è veloce e incorruttibile. Riusciamo a risolvere entro un giorno la maggior parte delle cause."
In quest'opera di giustizia gli è mai capitato di tagliare mani?
"Tagliare la mano ad un ladro non serve a punire il ladro, ma ad ammonire tutto il resto della società", afferma.
Dirigendoci cento miglia ad ovest di Azzan arrivamo nel centro di un altro emirato islamico, Jaar. I combattenti jihadisti ci vengono incontro con un blindato catturato di recente, con la loro insegna appena dipinta sopra e munito di bandiera nera.
Ci facciamo strada attraverso l'affollato mercato e passiamo banchi di verdure e di piolli vivi, intanto che fucilieri in moto pattugliano le strade polverose e sconnesse. Molti degli edifici della città sembrano esser stati ridotti in macerie da qualche attacco aereo.
In questa landa desolata, l'AQAP ed i suoi ppartenenti stanno cercando di costruire una società nuova. A differenza di quanto fatto in Somalia, in Iraq ed in Afghanistan, nello Yemen essi stanno cercando di instaurare la legge sacra conquistando il cuore e la razionalità delle persone.
A Jaar l'amministrazione jihadista ha abolito le tasse, fornito acqua ed elettricità gratuitamente e sistemato le fognature. Sono le sue autocisterne a distribuire acqua nei villaggi e nei campi dei beduini.
Gente che vive nel deserto attorno alla cittadina racconta che i jihadisti hanno connesso i loro villaggi alla rete elettrica per la prima volta in assoluto. L'amministrazione islamica ha persino lasciato che le persone continuassero a masticare lo stimolante qat. Hanno solo insistito affinché il mercato del qat si svolgesse fuori dalla città.
Uno jihadista giovane e dall'aria timida di nome Fouad ci conduce in un edifico abbandonato, dove ci sono cose da mangiare sparse sul pavimento. "Mangiate, mangiate, questi sono tempi di abbondanza", dice spezzettando con le grosse dita tozze della carne di montone.
"I tempi sono cambiati, le cose vanno molto meglio" dice Fouad, "Sono finiti i giorni in cui pativamo ogni pena e ci dovevamo nascondere sulle montagne".
Un altro combattente vestito all'uso afghano si siede con noi, ma il suo pancione e le giberne stracolme gli impediscono di mettersi in ginocchio e di prendere il riso con le mani, così si limita a raccogliere un osso e a tenerlo inclinato, succhiandolo come farebbe un bambino contento e facendolo fischiare.
"Sia reso grazie ad Allah", dice il combattente.
Fouad una volta studiava inglese alla facoltà di lettere dell'università di Sana'a, ma adesso si veste e si atteggia come uno jihadista. In testa porta un grosso fazzoletto bianco tirato sulla fronte, che mantiene in ombra le sue fattezze emaciate. Parla sottovoce in arabo classico, ma quello che dice è roba dei nostri giorni ed ha poco a che fare con le caverne dell'Afghanistan.
"I mass media si sforzano di ritrarre i mujahedin come degli ignoranti falliti, che si mettono su questa strada perché sono dei reietti della società", dice. "In realtà molti mujahedin hanno studiato ed hanno anche dei diplomi superiori, ma hanno abbandonato gli studi per prendersi cura del loro paese. Hanno visto il loro paese insultato e costretto sotto l'oppressione, e credono che sia loro dovere intraprendere questo percorso".
Secondo Fouad la "democrazia", un vocabolo che per lui indica i leader arabi autocratici che nei loro paesi tengono elezioni truccate ha mostrato di non funzionare.
"La democrazia ha fallito nel mondo arabo", afferma. "Ha fallito in Tunisia, ha fallito in Egitto, ha fallito in Libia, ha fallito nello Yemen. La gente su questo è d'accordo".
"La democrazia ci ha portato soltanto ingiustizia, ignoranza, arretratezza e il desiderio di scimmiottare l'occidente. Ed i primi a rivoltarsi contro questi governi ignobili sono stati i mujahedin. All'inizio la gente non li seguiva perché lo stato di polizia era forte. La gente li temeva. Alla fine, però, ha cominciato a ribellarsi quando ha visto che si trattava di scegliere tra l'ingiustiza e la schiavitù da una parte e la libertà dall'altra. Così la gente si è ribellata. E noi sosteniamo ogni rivoluzione, come faceva lo sceicco Osama".
"Anche noi abbiamo tratto benefici da queste rivoluzioni. Ci hanno portato la libertà, siamo potuti scendere in campo aperto".
Secondo Fouad le rivoluzioni hanno indebolito gli stati di polizia e gli jihadisti si sono mostrati in grado di trarre profitto dalla situazione. "Siamo riusciti a prendere il controllo di certe città e di certe regioni. Siamo riusciti a parlare alla gente della nostra missione. Tutto questo è successo durante l'ultima rivoluzione".
"Abbiamo cercato fin da principio di arrivare a controllare città e regioni. Controllare il territorio con la legge sacra è il nostro obiettivo fondamentale. Nient'altro. Vogliamo solo servire il popolo, dando ad esso quello che per tanto tempo gli è mancato".
Gli jihadisti avevano già cercato di prendere Jaar svariate volte, riuscendo in qualche caso a tenere la città per qualche settimana prima di venirne cacciati. Ma lo scorso anno la rivoluzione che ha rovesciato il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh ha scavato delle divisioni nell'esercito e messo un reparto contro l'altro indebolendo così le forze di sicurezza. Gli jihadisti hanno tratto vantaggio dalla cosa e stavolta pare che abbiano avuto un duraturo successo.
Un muezzin chiama alla preghiera e tutta la città inizia a dirigersi verso la moschea.
Fouad cammina con noi attraverso il mercato, facendoci notare la perfezione e la devozione di una città dove i negozianti lasciano le loro botteghe incustodite intanto che si recano a pregare.
"Guardate: le merci vengono lasciate incustodite e nessuno ruba", dice.
Che cosa succede a chi non vuole prendere parte alla preghiera?
"Ci limitiamo a prenderlo in disparte e ad ammonirlo su uqanto la preghiera sia importante", spiega.
E se qualcuno proprio non vuole saperne?
"Allora li rinchiudiamo da qualche parte in un posto tranquillo e gli diamo da leggere delle cose, fino al momento in cui non capisce fino a che punto si trovava nel torto".
Fouad ci chiede, scusandosi con un sorriso gentile, di dargli i cellulari. Poi veniamo bendati e portati in macchina a vedere i detenuti.
Quando Fouad ci toglie la benda dagli occhi ci troviamo davanti ad un piccolo complesso di costruzioni circondato da uomini pesantemente armati; alcuni portano i sarong locali, altri il salwar kameez. Due tra di loro tengono il viso coperto con la kefiah.
Montano la guardia davanti a porte di metallo chiuse con un lucchetto. Ci portano nella prima stanza, dove una dozzina di soldati catturati siede sul pavimento, i piedi nudi legati con catene di metallo nuove fiammanti con un piccolo lucchetto di rame. Sono stanchi, alcuni hanno la barba lunga.
C'è un uomo in mezzo alla stanza che parla con voce monotona mentre i militari lo stanno a sentire: "Siamo soldati, abbiamo combattuto per difendere il nostro paese... abbiamo combattuto valorosamente fino a quando non siamo rimaasti senza munizioni... adesso chiediamo al fratello presidente di prendere in considerazione la nostra situazione e di ottemperare alle richieste dei nostri fratelli di Ansar al Sharia e di scambiare noi con i loro prigionieri..."
Ci portano in un'altra cella, dove un altro soldato in piedi racconta una storia molto simile mentre intanto qualcuno lo riprende con una telecamera.
Nella quarta sala chiediamo ad uno degli uomini accovacciati sul pavimento quale trattamento venga loro riservato.
"Ci trattano come detenuti. Come detenuti", ripete fissandomi ad occhi bene aperti.
Dopo la visita ai prigionieri, un uomo acquattato per terra e carico di armi ci dice: "Sono dei poveracci, gli danno un caricatore per uno, vale a dire... quanto? Trenta proiettili? Ognuno di noi invece porta dieci caricatori: quanti proiettili sono? Fate il calcolo: e poi pensate che noi possiamo anche rifornirci durante la battaglia; usiamo Google Maps e mandiamo degli esploratori in avanscoperta prima di attaccare. Loro sono dei poveracci".
In macchina, sulla via del ritorno, un uomo che per il suono della voce si capisce essere il comandante, dice: "Chiediamo una risposta al governo, e che si proceda con lo scambio dei prigionieri".
E cosa succede se il governo non si mostra d'accordo?
"La Shari'a ci concede tre modi per trattarli: rilasciarli, cosa che non faremo, scambiarli o ucciderli", dice.
Più tardi possiamo andare un po' da soli in giro per Jaar. C'è un contadino con il viso incorniciato da una sottile barba bianca che sta todnando dai campi che ci sono nei pressi della città. Cosa ne pensa del governo degli jihadisti?
"Hanno preso tre uomini da tre posti diversi e gli hanno tagliato la mano", dice.
Avevano rubato? "Sì, ma che cosa? Un condizionatore d'aria, un po' di roba varia... ma adesso a Jaar nessuno si azzarda nemmeno ad alzare la voce, figuriamoci a rubare. Questa città è diventata un posto tranquillo: persino al mercato non c'è nessuno che urla. Al Qaeda ha imposto la sicurezza, ma se sospettano che qualcuno stia facendo la spia, lo fanno sparire".
I terreni fertili attorno a Jaar sembrano deserti. I canali di irrigazione, lasciati quasi un anno senza cure, si sono asciugati e la terra giallastra è crepata e polverosa. Laddove crescevano i manghi e le papaya, adesso ci sono alberi rinsecchiti e mulinanti nuvole di polvere.
Molta gente se n'è andata per i bombardamenti dell'artiglieria governativa e per gli attacchi aerei. Decine di migliaia di profughi si ammucchiano nelle scuole di Aden, dove vivono tra immondizie non raccolte, fogne a cielo aperto e povertà.
"La gente se ne è andata: ogni famiglia ha lasciato un solo figlio maschio a casa, e tutti gli altri sono scappati ad Aden", spiega il vecchio contadino.
Faisal è tra i fuggitivi. Una mattina l'anno scorso si è svegliato e ha scoperto che i jihadisti avevano preso il controllo della città. "Non fu sparato un solo colpo", dice.
Gli abitanti cercarono di formare dei cortei per le strade di Jaar, protestando contro l'occupazione della città. Qualcuno gli ha sparato addosso e la folla ha finito per disperdersi. Allora Faisal si è unito ad una carovana di profughi alla volta di Adent, dove adesso vive in un campo di raccolta.
Pochi mesi dopo la conquista di Jaar gli jihadisti si sono spinti nella vicina città di Zinjibar. Hanno circondato la caserma della polizia e quella dei servizi. Le forze delle temute unità di sicurezza del governo centrale hanno abbandonato subito il campo; il giorno successivo anche l'esercito ha fatto lo stesso. Gli jihadisti vincitori hanno saccheggiato i depositi delle armi pesanti e i magazzini di munizioni. I pesanti bombardamenti e i combattimenti verificatisi a Zinjibar nei mesi successivi hanno spedito ad Aden altre decine di migliaia di profughi, col risultato che Aden ha oggi l'aspetto di una città assediata.
A marzo le infittite schiere degli jihadisti hanno ottenuto un'altra vittoria tattica nell'attacco ad un accampamento militare alla periferia della stessa Aden. Invece di attaccare le ben protette trincee e le postazioni dei tank, gli jihadisti si sono mossi lungo un sentiero di montagna ed hanno preso l'esercito alle spalle. in poche ore hanno ucciso centoottantadue soldati, ne hanno presi prigionieri settantadue, hanno fatto razzia di armi e sono scomparsi.
A Sana'a e ad Aden sono stati in parecchi a non credere che l'esercito dello Yemen potesse essere così facilmente sconfitto da una banda tribale. Dov'erano le unità antiterrorismo appoggiate dagli americani?
Ad Aden, The Guardian ha incontrato un giovane tenente dai capelli corti e dai baffi appena accennati. Ancora prendeva la paga dell'esercito ma era più di un mese che non indossava l'uniforme. Faceva parte del corpo di ricognizione della venticinquesima brigata corazzata, quella che nel corso dell'ultimo anno ha preso parte a quasi tutti gli scontri nella provincia di Abyan.
"Ci sono parecchie teorie della cospirazione sul perché abbiamo perso Zinjibar", diceva. "Molti pensano che Saleh abbia fatto un accordo coi jihadisti, ma la verità è più semplice: gli alti gradi dell'esercito sono putrefatti e corrotti. Perché mai un soldato dovrebbe combattere, se è a Sana'a che l'eserito è in dissoluzione?
"Sapete in quanti sono stati ad attaccare quell'accampamento? Qualcosa tra i cinquantacinque e i sessantacinque uomini".
La stima che il tenente fa della forza degli jihadisti corrisponde a quello che ci ha detto Fouad. Per vent'anni le vicende della provincia di Abyan e di altre zone dello Yemen meridionale si sono intrecciate strettamente alla storia dello jihad mondiale. In migliaia sono andati a combattere in Afghanistan. In seguito nuove ondate di yemeniti jihadisti sono partiti per l'Afghanistan, per l'Iraq e la Somalia, e Abyan ha rappresentato uno dei percorsi preferiti per i giovani sauditi che cercavano di ottenere addestramento militare per poi raggiungere l'Iraq.
"I nostri comandanti hanno un nuovo modo di comandare, nuove tattiche ed un nuovo modo per finanziarsi" diceva Fouad. "L'esercito dello Yemen è molto più debole di quanto si pensi. Non hanno alcuna ragione per combattere. [L'esercito] combatte solo per denaro e il denaro è comunque a servizio degli interessi stranieri, che i soldati ne siano consapevoli o meno. Loro seguono gli ordini dei loro comandanti".
"Noi invece abbiamo imparato", diceva Fouad.