Articolo pubblicato su Asia Times Online il 22 ottobre 2011.
Quest'estate un ufficiale superiore saudita ha rivelato a John Hannah[1], ex capo dello staff dell'ex vicepresidente statunitense Dick Cheney, che da quando sono cominciate le sollevazioni a marzo il re pensa che un cambiamento di regime in Siria porterebbe sostanziali benefici agli interessi dell'Arabia Saudita: "Il re sa che a parte un collasso della Repubblica Islamica in sé, nulla indebolirebbe di più l'Iran della perdita della Siria", ha affermato l'ufficiale.
Questo è il grande gioco dei poteri in corso oggi, e la formula per potervi prendere parte è cambiata; le "rivoluzioni colorate" fomentate dagli Stati Uniti nelle ex repubbliche sovietiche hanno dato il via ad un processo che oggi si presenta più sanguinoso e più intricato, ma la psicologia che lo sottende è rimasta la stessa.
Le richieste tecniche per mettere in piedi un gioco tanto complesso anche in Siria sono alte ed in un certo senso stupefacenti; prestare attenzione in modo così' serrato alla tecnica e al coordinamento di interessi contrastanti in fin dei conti porta a far sì che qualche elemento importante della situazione venga perso di vista.
Gli europei e gli americani, ed anche certi paesi del Golfo, possono considerare il gioco dei poteri in Siria come il successore logico delle vicende libiche, coronate da quello che viene considerato un successo, nel processo di ridefinizione del Medio Oriente, ma gli strumenti concreti di cui essi si stanno avvalendo nel loro comportamento sono infiammabilissimi e potrebbero anche rivolgersi contro di loro, com'è successo con la "vittoria" in Afghanistan negli anni Ottanta.
Non sarebbe la prima volta che assistiamo allo spettacolo di interessi occidentali che utilizzano qualcun altro per i propri fini, solo per scoprire alla fine di esser stati essi stessi usati a loro volta.
In ogni caso l'approccio con la Siria, nonostante i grossi investimenti che vi sono stati compiuti, pare destinato al fallimento. La strategia occidentale, davanti agli eventi che si susseguono a cascata nella regione, resta curiosamente statica, ancorata a questo fomentare il risveglio popolare ma in fin dei conti legata ai fragili legami che ancora trattengono alla vita un re ottantottenne.
Non pare sia stato fatto un grosso sforzo per ipotizzare il panorama strategico che verrà alla ribalta quando questi legami si spezzeranno. Potremmo anche assistere ad un capovolgimento della maggioranza dei calcoli fatti fino ad oggi; nessuno può saperlo. Ma l'Occidente davvero pensa che mantenere i legami con quello che nel Golfo è un modello di legittimazione monarchica e di conservatorismo, in un'epoca di disaffezione popolare, sia una strada praticabile, anche se sono paesi come quello a comprare più armi occidentali?
Il grande gioco dei poteri quale nuova anatomia presenta, allora? In passato le rivoluzioni colorate sono state largamente sostenute dagli uffici dei consiglieri politici che si trovano in K Street a Washington. Nella nuova conformazione invece i "tecnici" che cercano di plasmare la regione [2] dipendono direttamente dal governo americano: secondo quanto riferito da fonti ufficiali nella regione Jeffrey Feltman, un ex ambasciatore in Libano attualmente segretario di Stato assistente con mansioni di capo coordinatore [3], insieme ai due ex ambasciatori Ron Schlicher e David Hale; quest'ultimo è anche il nuovo inviato degli Stati uniti per la pace in Medio Oriente.
Al posto di un centro operativo messo insieme da qualche organizzazione di "amici della Siria" con base a Washington, esiste un centro operativo letteralmente coperto d'oro e collocato a Doha, finanziato secondo un certo numero di fonti informate da grandi quantità di denaro provenienti dal Qatar.
Le origini del tentativo di rimodellare il Medio Oriente attualmente in atto vanno cercate nelle conseguenze del fallimento del tentativo israeliano di causare seri danni a Hezbollah, verificatosi nel 2006. Nella disamina che seguì il conflitto la Siria venne identificata come l'anello debole della catena che unisce Hezbollah all'Iran. Il principe saudita Bandar prese per primo l'iniziativa, suggerendo ad ufficiali americani che forse si poteva fare qualcosa per questo anello siriano, ma solo tramite l'utilizzo dei Fratelli Musulmani in Siria, affrettandosi ad aggiungere a mo' di risposta a prevedibili esitazioni che avrebbe pensato lui a tenere affidabili rapporti con i Fratelli in Siria e con le altre organizzazioni islamiche.
John Hannah, su ForeginPolicy.com [4], scrisse che "Le mene di Bandar, prive di riferimenti agli interessi diretti degli Stati Uniti, sono chiaramente causa di preoccupazione; però il fatto che Bandar sia un nostro fiancheggiatore contro quel nemico comune che è l'Iran rappresenta un dato strategico importantissimo". Bandar finì quindi per essere ingaggiato.
Quello che era un piano ipotetico si è trasformato all'improvviso in azione concreta soltanto all'inizio di quest'anno, dopo la caduta del governo di Saad Hariri in Libano e dopo che il presidente Hosni Mubarak era stato rovesciato in Egitto. Israele è sembrato vulnerabile all'improvviso; indebolire la Siria e metterla alle prese con le sollevazioni ha acquistato ad un tratto una valenza strategica.
Nello stesso periodo il Qatar è balzato alla ribalta; Azmi Bishara, un panarabista ex parlamentare israeliano espulso dalla Knesset e adesso stabilitosi a Doha, ha messo in piedi un piano in cui un canale televisivo, come hanno riferito vari organi di stampa dei paesi arabi [5], ossia Al Jazeera, non soltanto avrebbe dato notizie sulla rivoluzione, ma l'avrebbe documentata istante per istante per fomentarla nell'intera regione. Almeno, questo era quello che c'era intenzione di fare a Doha al momento in cui esplosero l'insurrezione tunisina e quella egiziana.
Siamo davanti ad una evoluzione che supera il vecchio modello: una televisione che supera ogni limite, non pura e semplice pianificazione del funzionamento di un mezzo di comunicazione di massa. E il Qatar non ha semplicemente provato a far leva sulle sofferenze umane fino a provocare l'intervento internazionale ripetendo all'infinito che "le riforme non sono abbastanza" e che la caduta di Assad era "inevitabile"; il Qatar risulta direttamente coinvolto sia come protagonista sul campo sia come finanziatore, proprio come in Libia.
Il passo seguente consisteva nel coinvolgere nella stessa campagna il presidente francese Nikolas Sarkozy; a questo avrebbero provveduto la natura amichevole dell'emiro del Qatar ed i suoi legami con Sarkozy, sostenuti a loro volta dal lavorìo lobbystico di Feltman. Si è così formata una "squadra dell'Eliseo", composta da Jean-David Levite, Nicholas Gallet e lo stesso Sarkozy, mentre la moglie di Sarkozy pensava ad ingaggiare anche Bernard Henry-Levy, l'ideatore del modello del Consiglio di Transizione di Bengasi che tanto efficace si è rivelato per trasformare la NATO in uno strumento per il cambiamento di regime.
Alla fine, il Presidente Barack Obama ha incaricato la Turchia [6] di fare pressione ai confini siriani. Sia i turchi che Obama tuttavia non sono esenti da critiche da parte dei rispettivi apparati militari, che sono scettici circa l'efficacia di una cosa come il Consiglio di Transizione e si oppongono anche all'intervento militare.
La presidenza turca in particolare subisce pressioni di partito, che vanno in una certa direzione [7], mentre dall'altra ci sono profondi dubbi sul fatto che la Turchia debba fungere da corridoio per la NATO verso la Siria. Lo stesso Bandar ha i suoi problemi: non ha alcuna copertura politica da parte del re, ed altri membri della famiglia reale stanno giocando la carta dell'Islam a scopi differenti dai suoi.
Traducendo il tutto in termini operativi, abbiamo Feltman ed i suoi a coordinare, il Qatar che ospita il consiglio di guerra e la sala stampa oltre a tenere i cordoni della borsa, Parigi e Doha che spingono sulla questione del Consiglio di Transizione, e Bandar [8] e la Turchia che congiuntamente manovrano negli ambienti sunniti all'interno del paese, sia laddove si usano le armi sia laddove si usano altri mezzi.
La componente salafita, fatta di combattenti armati e con esperienza di guerra, avrebbe dovuto essere controllata da questa struttura; i salafiti però sono andati per la loro strada in misura sempre crescente, seguendo le loro priorità e avvalendosi di altri finanziamenti.
Se lo scopo dei giochi in Siria -ma non dimentichiamo i molti morti (civili, militari, guerriglieri) che rendono la cosa tutt'altro che un gioco- va considerato una specie di ampliamento delle "rivoluzioni colorate", siamo davanti ad un ampliamento che amplifica anche i difetti. Il paradigma del Consiglio di Transizione, che già mostra le proprie crepe in Libia, in Siria presenta più falle ancora, perché per la Siria esiste un "consiglio" di opposizione messo insieme dai francesi, dai turchi e dai qatariani che si trova intrappolato in una situazione da Comma 22. Le strutture siriane di sicurezza sono rimaste salde [9] per sette mesi, le defezioni sono state trascurabili, e la base popolare del sostegno ad Assad è rimasta intatta.
Questo equilibrio potrebbe essere cambiato solo da un intervento esterno, ma invocare qualcosa del genere equivarrebbe per gli oppositori ad un suicidio politico, ed essi lo sanno. Doha e Parigi [10] possono andare avanti a cercare di spingere il mondo verso una qualche forma di intervento continuando a fomentare attriti, ma ora come ora sembra che l'opposizione interna tenterà di giocare la carta del negoziato.
In tutto questo il pericolo concreto, come sottolinea lo stesso John Hannah su ForeginPolicy.com [11] è dappresentato dal fatto che i sauditi, "messi con le spalle al muro", "potrebbero soffiare ancora una volta sul fuoco della vecchia rete jihadista, e orientarla in genere contro l'Iran sciita".
Di fatto, questo è quello che sta succedendo, e l'Occidente non sembra averlo notato. Come affermato la scorsa settimana dagli Affari Esteri, i sauditi e i loro alleati nel Golfo stanno "incendiando" i salafiti [12] non soltanto per indebolire l'Iran, ma soprattutto per fare quello che sembra loro necessario per la stessa sopravvivenza: scardinare ed evirare certe sollevazioni, che costituiscono una minaccia per le monarchie assolute.
I salafiti sono stati usati a questo scopo in Siria [13], in Libia, in Egitto (si ricordi la loro vistosa bandiera saudita, esibita in piazza Tahrir a luglio scorso) [14], in Libano, nello Yemen [15] ed in Iraq.
Si possono in linea generale considerare i salafiti anche come un'organizzazione malleabile e non politica, ma la loro storia, da questo punto di vista, non è confortante. Se si ripete abbastanza spesso gente di questo tipo che dovrebbe essere padrona a casa sua e le si propinano secchiate di soldi, non c'è poi da stupirsi se si trasforma, cosa già successa, in qualche cosa di molto politico e di molto radicale.
Michael Scheuer, ex capo della sezione della CIA che dava la caccia a Bin Laden, ha recentemente fatto presente [16] che rispondere al risveglio delle popolazioni arabe come vorrebbe Hillary Clinton, ossia colmare i gap lasciati dai regimi caduti impiantando in loco paradigmi occidentali e facendolo se necessario anche con la forza, verrebbe considerato come una "guerra culturale contro l'Islam" e getterebbe il seme per un ulteriore periodo di radicalizzazione.
L'Arabia Saudita è un alleato degli americani. Nel loro ruolo di amici, gli Stati Uniti dovrebbero chiedere ai sauditi se la caduta di Assad e il conflitto a sfondo settario cui quasi certamente questo porterebbe, è davvero nel loro interesse. Pensano forse che i loro alleati sunniti in Iraq ed in Libano se la caverebbero senza conseguenze? Pensano davvero che gli sciiti in Iraq non faranno due più due, prendendo aspre contromisure?
Uno dei tristi paradossi delle "voci" settarie fatte proprie dai governanti del Golfo per giustificare la loro repressione delle sollevazioni è data proprio dall'indebolimento dei sunniti moderati, presi adesso tra l'incudine dell'essere visti come uno strumento in mano all'Occidente, ed il martello dei salafiti che stanno solo aspettando l'occasione buona per toglierli di mezzo.
Alastair Crooke è fondatore e direttore di Conflicts Forum, ed è stato consigliere dell'ex segretario della politica estera della UE Xavier Solana tra il 1997 ed il 2003.
Questo è il grande gioco dei poteri in corso oggi, e la formula per potervi prendere parte è cambiata; le "rivoluzioni colorate" fomentate dagli Stati Uniti nelle ex repubbliche sovietiche hanno dato il via ad un processo che oggi si presenta più sanguinoso e più intricato, ma la psicologia che lo sottende è rimasta la stessa.
Le richieste tecniche per mettere in piedi un gioco tanto complesso anche in Siria sono alte ed in un certo senso stupefacenti; prestare attenzione in modo così' serrato alla tecnica e al coordinamento di interessi contrastanti in fin dei conti porta a far sì che qualche elemento importante della situazione venga perso di vista.
Gli europei e gli americani, ed anche certi paesi del Golfo, possono considerare il gioco dei poteri in Siria come il successore logico delle vicende libiche, coronate da quello che viene considerato un successo, nel processo di ridefinizione del Medio Oriente, ma gli strumenti concreti di cui essi si stanno avvalendo nel loro comportamento sono infiammabilissimi e potrebbero anche rivolgersi contro di loro, com'è successo con la "vittoria" in Afghanistan negli anni Ottanta.
Non sarebbe la prima volta che assistiamo allo spettacolo di interessi occidentali che utilizzano qualcun altro per i propri fini, solo per scoprire alla fine di esser stati essi stessi usati a loro volta.
In ogni caso l'approccio con la Siria, nonostante i grossi investimenti che vi sono stati compiuti, pare destinato al fallimento. La strategia occidentale, davanti agli eventi che si susseguono a cascata nella regione, resta curiosamente statica, ancorata a questo fomentare il risveglio popolare ma in fin dei conti legata ai fragili legami che ancora trattengono alla vita un re ottantottenne.
Non pare sia stato fatto un grosso sforzo per ipotizzare il panorama strategico che verrà alla ribalta quando questi legami si spezzeranno. Potremmo anche assistere ad un capovolgimento della maggioranza dei calcoli fatti fino ad oggi; nessuno può saperlo. Ma l'Occidente davvero pensa che mantenere i legami con quello che nel Golfo è un modello di legittimazione monarchica e di conservatorismo, in un'epoca di disaffezione popolare, sia una strada praticabile, anche se sono paesi come quello a comprare più armi occidentali?
Il grande gioco dei poteri quale nuova anatomia presenta, allora? In passato le rivoluzioni colorate sono state largamente sostenute dagli uffici dei consiglieri politici che si trovano in K Street a Washington. Nella nuova conformazione invece i "tecnici" che cercano di plasmare la regione [2] dipendono direttamente dal governo americano: secondo quanto riferito da fonti ufficiali nella regione Jeffrey Feltman, un ex ambasciatore in Libano attualmente segretario di Stato assistente con mansioni di capo coordinatore [3], insieme ai due ex ambasciatori Ron Schlicher e David Hale; quest'ultimo è anche il nuovo inviato degli Stati uniti per la pace in Medio Oriente.
Al posto di un centro operativo messo insieme da qualche organizzazione di "amici della Siria" con base a Washington, esiste un centro operativo letteralmente coperto d'oro e collocato a Doha, finanziato secondo un certo numero di fonti informate da grandi quantità di denaro provenienti dal Qatar.
Le origini del tentativo di rimodellare il Medio Oriente attualmente in atto vanno cercate nelle conseguenze del fallimento del tentativo israeliano di causare seri danni a Hezbollah, verificatosi nel 2006. Nella disamina che seguì il conflitto la Siria venne identificata come l'anello debole della catena che unisce Hezbollah all'Iran. Il principe saudita Bandar prese per primo l'iniziativa, suggerendo ad ufficiali americani che forse si poteva fare qualcosa per questo anello siriano, ma solo tramite l'utilizzo dei Fratelli Musulmani in Siria, affrettandosi ad aggiungere a mo' di risposta a prevedibili esitazioni che avrebbe pensato lui a tenere affidabili rapporti con i Fratelli in Siria e con le altre organizzazioni islamiche.
John Hannah, su ForeginPolicy.com [4], scrisse che "Le mene di Bandar, prive di riferimenti agli interessi diretti degli Stati Uniti, sono chiaramente causa di preoccupazione; però il fatto che Bandar sia un nostro fiancheggiatore contro quel nemico comune che è l'Iran rappresenta un dato strategico importantissimo". Bandar finì quindi per essere ingaggiato.
Quello che era un piano ipotetico si è trasformato all'improvviso in azione concreta soltanto all'inizio di quest'anno, dopo la caduta del governo di Saad Hariri in Libano e dopo che il presidente Hosni Mubarak era stato rovesciato in Egitto. Israele è sembrato vulnerabile all'improvviso; indebolire la Siria e metterla alle prese con le sollevazioni ha acquistato ad un tratto una valenza strategica.
Nello stesso periodo il Qatar è balzato alla ribalta; Azmi Bishara, un panarabista ex parlamentare israeliano espulso dalla Knesset e adesso stabilitosi a Doha, ha messo in piedi un piano in cui un canale televisivo, come hanno riferito vari organi di stampa dei paesi arabi [5], ossia Al Jazeera, non soltanto avrebbe dato notizie sulla rivoluzione, ma l'avrebbe documentata istante per istante per fomentarla nell'intera regione. Almeno, questo era quello che c'era intenzione di fare a Doha al momento in cui esplosero l'insurrezione tunisina e quella egiziana.
Siamo davanti ad una evoluzione che supera il vecchio modello: una televisione che supera ogni limite, non pura e semplice pianificazione del funzionamento di un mezzo di comunicazione di massa. E il Qatar non ha semplicemente provato a far leva sulle sofferenze umane fino a provocare l'intervento internazionale ripetendo all'infinito che "le riforme non sono abbastanza" e che la caduta di Assad era "inevitabile"; il Qatar risulta direttamente coinvolto sia come protagonista sul campo sia come finanziatore, proprio come in Libia.
Il passo seguente consisteva nel coinvolgere nella stessa campagna il presidente francese Nikolas Sarkozy; a questo avrebbero provveduto la natura amichevole dell'emiro del Qatar ed i suoi legami con Sarkozy, sostenuti a loro volta dal lavorìo lobbystico di Feltman. Si è così formata una "squadra dell'Eliseo", composta da Jean-David Levite, Nicholas Gallet e lo stesso Sarkozy, mentre la moglie di Sarkozy pensava ad ingaggiare anche Bernard Henry-Levy, l'ideatore del modello del Consiglio di Transizione di Bengasi che tanto efficace si è rivelato per trasformare la NATO in uno strumento per il cambiamento di regime.
Alla fine, il Presidente Barack Obama ha incaricato la Turchia [6] di fare pressione ai confini siriani. Sia i turchi che Obama tuttavia non sono esenti da critiche da parte dei rispettivi apparati militari, che sono scettici circa l'efficacia di una cosa come il Consiglio di Transizione e si oppongono anche all'intervento militare.
La presidenza turca in particolare subisce pressioni di partito, che vanno in una certa direzione [7], mentre dall'altra ci sono profondi dubbi sul fatto che la Turchia debba fungere da corridoio per la NATO verso la Siria. Lo stesso Bandar ha i suoi problemi: non ha alcuna copertura politica da parte del re, ed altri membri della famiglia reale stanno giocando la carta dell'Islam a scopi differenti dai suoi.
Traducendo il tutto in termini operativi, abbiamo Feltman ed i suoi a coordinare, il Qatar che ospita il consiglio di guerra e la sala stampa oltre a tenere i cordoni della borsa, Parigi e Doha che spingono sulla questione del Consiglio di Transizione, e Bandar [8] e la Turchia che congiuntamente manovrano negli ambienti sunniti all'interno del paese, sia laddove si usano le armi sia laddove si usano altri mezzi.
La componente salafita, fatta di combattenti armati e con esperienza di guerra, avrebbe dovuto essere controllata da questa struttura; i salafiti però sono andati per la loro strada in misura sempre crescente, seguendo le loro priorità e avvalendosi di altri finanziamenti.
Se lo scopo dei giochi in Siria -ma non dimentichiamo i molti morti (civili, militari, guerriglieri) che rendono la cosa tutt'altro che un gioco- va considerato una specie di ampliamento delle "rivoluzioni colorate", siamo davanti ad un ampliamento che amplifica anche i difetti. Il paradigma del Consiglio di Transizione, che già mostra le proprie crepe in Libia, in Siria presenta più falle ancora, perché per la Siria esiste un "consiglio" di opposizione messo insieme dai francesi, dai turchi e dai qatariani che si trova intrappolato in una situazione da Comma 22. Le strutture siriane di sicurezza sono rimaste salde [9] per sette mesi, le defezioni sono state trascurabili, e la base popolare del sostegno ad Assad è rimasta intatta.
Questo equilibrio potrebbe essere cambiato solo da un intervento esterno, ma invocare qualcosa del genere equivarrebbe per gli oppositori ad un suicidio politico, ed essi lo sanno. Doha e Parigi [10] possono andare avanti a cercare di spingere il mondo verso una qualche forma di intervento continuando a fomentare attriti, ma ora come ora sembra che l'opposizione interna tenterà di giocare la carta del negoziato.
In tutto questo il pericolo concreto, come sottolinea lo stesso John Hannah su ForeginPolicy.com [11] è dappresentato dal fatto che i sauditi, "messi con le spalle al muro", "potrebbero soffiare ancora una volta sul fuoco della vecchia rete jihadista, e orientarla in genere contro l'Iran sciita".
Di fatto, questo è quello che sta succedendo, e l'Occidente non sembra averlo notato. Come affermato la scorsa settimana dagli Affari Esteri, i sauditi e i loro alleati nel Golfo stanno "incendiando" i salafiti [12] non soltanto per indebolire l'Iran, ma soprattutto per fare quello che sembra loro necessario per la stessa sopravvivenza: scardinare ed evirare certe sollevazioni, che costituiscono una minaccia per le monarchie assolute.
I salafiti sono stati usati a questo scopo in Siria [13], in Libia, in Egitto (si ricordi la loro vistosa bandiera saudita, esibita in piazza Tahrir a luglio scorso) [14], in Libano, nello Yemen [15] ed in Iraq.
Si possono in linea generale considerare i salafiti anche come un'organizzazione malleabile e non politica, ma la loro storia, da questo punto di vista, non è confortante. Se si ripete abbastanza spesso gente di questo tipo che dovrebbe essere padrona a casa sua e le si propinano secchiate di soldi, non c'è poi da stupirsi se si trasforma, cosa già successa, in qualche cosa di molto politico e di molto radicale.
Michael Scheuer, ex capo della sezione della CIA che dava la caccia a Bin Laden, ha recentemente fatto presente [16] che rispondere al risveglio delle popolazioni arabe come vorrebbe Hillary Clinton, ossia colmare i gap lasciati dai regimi caduti impiantando in loco paradigmi occidentali e facendolo se necessario anche con la forza, verrebbe considerato come una "guerra culturale contro l'Islam" e getterebbe il seme per un ulteriore periodo di radicalizzazione.
L'Arabia Saudita è un alleato degli americani. Nel loro ruolo di amici, gli Stati Uniti dovrebbero chiedere ai sauditi se la caduta di Assad e il conflitto a sfondo settario cui quasi certamente questo porterebbe, è davvero nel loro interesse. Pensano forse che i loro alleati sunniti in Iraq ed in Libano se la caverebbero senza conseguenze? Pensano davvero che gli sciiti in Iraq non faranno due più due, prendendo aspre contromisure?
Uno dei tristi paradossi delle "voci" settarie fatte proprie dai governanti del Golfo per giustificare la loro repressione delle sollevazioni è data proprio dall'indebolimento dei sunniti moderati, presi adesso tra l'incudine dell'essere visti come uno strumento in mano all'Occidente, ed il martello dei salafiti che stanno solo aspettando l'occasione buona per toglierli di mezzo.
Alastair Crooke è fondatore e direttore di Conflicts Forum, ed è stato consigliere dell'ex segretario della politica estera della UE Xavier Solana tra il 1997 ed il 2003.
Note
1. Cfr. shadow.foreignpolicy.com
2. Cfr. thecable.foreignpolicy.com
3. Cfr. www.champress.net and www.haaretz.com
4. Cfr. shadow.foreignpolicy.com
5. Qataris seeking alternative for Waddah Khanfar to manage Al-Jazeera, Al-Intiqad, 20 settembre 2011.
6. Cfr. www.foreignaffairs.com
7. Cfr. en.rian.ru
8. Cfr. shadow.foreignpolicy.com
9. Cfr. www.joshualandis.com
10. Cfr. euobserver.com
11. Cfr. shadow.foreignpolicy.com
12. Cfr. www.foreignaffairs.com
13. Cfr. euobserver.com
14. Cfr. www.washingtonpost.com
15. Cfr. www.foreignaffairs.com
16. Cfr. nationalinterest.org