Goslar
L’immane foresta che attraversavo mi era ad un tempo familiare e ignota. Era costituita da regolari piantagioni di bosco, che la domenica brulicavano di abitanti della grande città venuti in escursione, ma vi erano disseminate anche, come isole, zone di selva primitiva, e talora s’incuneavano tratti di montagna inesplorata. Ero penetrato nel suo interno per far visita al forestaro, poiché avevo appreso che egli intendeva uccidere e cancellare dalla faccia della terra un adepto che era andato a caccia della vipera azzurra.
Lo trovai nella sua stanza di stile gotico, simile a un’armeria e piena di trofei di caccia. Tutte le pareti erano ricoperte di trappole e interamente tappezzate di tagliole, nasse da pesca, reti, calappi, forche per talpe. Dal soffitto pendeva una collezione di cappi e nodi scorsoi intrecciati con arte — un arruffato e strano alfabeto, e ogni lettera era disposta già pronta alla cattura. Anche il candelabro si adattava al senso generale dell’insieme: le sue candele erano conficcate sulle punte di una grande tagliola in forma di anello. La tagliola era di quelle che si usa nascondere d’autunno sui sentieri solitari della foresta, tra le foglie secche, e che scattano al più lieve contatto di un piede umano, serrandosi all’altezza del petto in una morsa micidiale. Quei giorno, tuttavia, i suoi denti spuntavano a mala pena visibili dalle ghirlande di vischio verde cupo e di rosso sorbo selvatico che avevano intrecciate intorno, in onore della mia visita.
Il forestaro sedeva dietro un massiccio tavolo di legno d’ontano dal colore rossastro, che nella luce crepuscolare aveva bagliori fosforici. Era occupato a pulire piccoli specchi girevoli con cui d’autunno si attirano le allodole. Mi rivolse il saluto, e subito dopo ci trovammo impigliati in un vivace colloquio il cui tema era il diritto di caccia sulle pendici abitate dalla vipera azzurra. Poiché notai che durante il colloquio egli mutava di tanto in tanto, senza dar nell’occhio, la disposizione degli specchi per le allodole, stavo in guardia. Dirò che in generale egli si comportava in modo decisamente strano; per lunghi tratti della nostra controversia, egli invece di rispondermi si limitò a tirar fuori dalla tasca alcuni zufoli da richiamo di varia specie, e con essi fischiava o pigolava o imitava il verso di un uccello. Però, nei passaggi più delicati del colloquio egli afferrava ogni volta un grande zufolo di legno adatto a rifare il verso del cuculo, e dava flato a quello strumento emettendo suoni come se egli stesso fosse stato un orologio a cucù. Capii che quello era il suo modo di ridere.
Per quanto la nostra conversazione si facesse intricata, essa tuttavia ritornava sempre al medesimo punto fermo. Egli affermava ripetutamente:
"Nelle mie foreste la vipera azzurra è l’animale più importante: essa attrae nella mia bandita la migliore selvaggina".
E ogni volta, invano, cercavo di placarlo: "Ma le pendici su cui vive la vipera azzurra non vengono mai percorse da uomini".
Questa obiezione pareva divenirlo particolarmente, poiché ogni volta che gliela replicavo egli ripeteva quasi all’infinito il suo folle richiamo del cuculo. Poiché Nigromontanus mi aveva affinato l’orecchio anche a percepire la desueta figura dell’ironia, saggiamente rinunciai a replicare.
Così discutemmo a lungo con frasi enigmatiche, di vari argomenti, e a volte il discorso sconfinava in un linguaggio di soli segni. Alla fine, il forestaro troncò la conversazione:
"Vedo bene quanto Lei è capace di tenermi testa nel gioco del domino a geroglifici. Dopo la vecchia testa pirotecnica, Lei è il primo che ci si metta. Ma salga Lei stesso, una volta, fino alle pendici, e potrà vedere che cosa sta accadendo lassù!"
Così m’incamminai, accompagnato dal secco trillo, presto svanito nel fondo del bosco d’abeti, della gallina selvatica, uno degli animali che ornano come figura araldica lo stemma dei Mauretani. In pieno mezzogiorno abbandonai la foresta ed entrai nella calda e nuda gola montana il cui brullo terreno era tutto ricoperto da una bassa vegetazione di cardi. Questi erano senza gambo, dentati come una rosa dei venti, della specie che si chiama carlina. Ai cardi era mista, più rada, l’euforbia. Molti angusti e vecchissimi sentieri traversavano la sterpaglia in ogni senso. Essi erano tutti sbarrati dalle vipere azzurre. Scorgere quelle bestie mi fece molto piacere, e pensai: « Bene, si vede proprio che la vecchia volpe si serve anche di simili mezzucci a buon mercato ». Questa mia conclusione nasceva dal fatto che il loro corpo era stato intrecciato a mo’ di nodo scorsoio, e il significato di ciò poteva sfuggire soltanto a chi fosse un principiante in simili trucchi e astuzie. Ciò nonostante, mi nascosi dietro un cespuglio e rimasi appostato l’intero pomeriggio, naturalmente senza vedere neppure un uomo.
Verso sera comparve una donna vecchissima che reggeva nelle mani una piccola spatola. Si rannicchiò in uno spazio libero dalla vegetazione e col suo strumento tracciò sul suolo un rettangolo, della grandezza pressappoco di un tavolino. Poi vi entrò, scavando con le mani prese ad ogni angolo un pugno di terra, parlò ad essa e la scagliò all’indietro, al di sopra delle sue spalle. Ad ogni getto vidi il ferro brillare come un piccolo specchio.
Questo comportamento destò in me una curiosità così torte da farmi dimenticare i nodi scorsoi delle vipere. Senza rumore strisciai dietro di lei e le sussurrai:
"Ehi. mammina, che cosa stai facendo?"
Ella si volse senza un’ombra di meraviglia, come se mi avesse atteso. Mi fissò e mi rispose sussurrando, con un risolino che mi gelò il sangue:
"Figliolo, non te ne devi preoccupare: lo saprai anche troppo presto!"
Allora con spaventosa chiarezza compresi ch’ero rimasto impigliato nella rete del forestaro. Cominciai a maledire la mia astuzia e la mia solitaria baldanza che mi avevano implicato in siffatta compagnia. Troppo tardi mi accorgevo che tutta la sottigliezza impiegata nelle mie operazioni era servita soltanto a rendere invisibili i fili della ragnatela con cui egli mi aveva imprigionato. Ma sì, io stesso ero stato l’adepto che egli voleva uccidere, l’uomo che egli voleva cancellare dalla faccia della terra, io stesso la selvaggina attratta dal richiamo della vipera azzurra!
Ernst Jünger, Il cuore avventuroso (1938)