Negli ultimi anni l'apprezzamento per l'estetica e per i comportamenti da feccia ricalcati di peso sull'estetica e sui comportamenti da feccia appartenuti a feccia del passato è cresciuto nella penisola italiana senza seri ostacoli. Questo scritto rappresenta un blando tentativo di rimettere alcune cose al loro posto.
Dicembre 2010. Il principale partito "occidentalista" della penisola italiana ha speso praticamente tutto l'anno in regolamenti di conti che ne hanno coinvolto tutti i livelli: ai più alti si dispone di strumenti collaudati per il linciaggio mediatico, i pesci piccoli si arrangiano come possono, dalle lame ai traditori in giù.
I traditori sono quelli che in questa elegante e costruttiva contesa sono rimasti seguaci di un tizio che a metà degli anni Novanta li tolse dalle fogne, in più di un caso in modo letterale. E non sono molti, avendo la maggior parte dei beneficiati di allora non soltanto deciso di non seguirlo, ma partecipato in prima persona alla massiccia campagna denigratrice che ha saturato mainstream e comunicazione politica in generale.
A séguito di queste vicende nel principale partito "occidentalista" della penisola italiana si è concentrato un numero rilevante di individui impresentabili da più di un punto di vista ed è tornata viva l'ostentazione per slogan, monture e propaganda del governo autoritario che nel XX secolo resse le sorti della penisola italiana per venti anni. Di quale perizia, di quale consapevolezza, di quale maturità e di quali competenze fossero capaci i protagonisti di quel periodo fu prova la reazione di molti di essi al disastro finale, prevedibile, previsto e puntualmente verificatosi, intanto che i responsabili di esso non si capacitavano nemmeno di che cosa potessero aver mai fatto per ritrovarsi in una situazione del genere.
Il governo autoritario, formalmente sottoposto alla forma monarchica assunta all'epoca da quello stato, nacque dopo una guerra che fornì ad esso uomini, giustificativi, miti fondanti e punti di partenza per la propaganda e la costruzione del consenso. Una delle invenzioni dell'autoritarismo peninsulare fu l'istituzione di un corpo armato che prese il nome di Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, noto anche come camicie nere per il colore predominante nelle uniformi. A novant'anni dalla sua fondazione, le iconografie ed i simboli della Milizia sono oggetto di un certo sfruttamento commerciale ed hanno un considerevole potere seduttivo soprattutto nei confronti degli "occidentalisti" più giovani, insieme a tutta la propaganda legata a quel periodo.
La menzogna è coessenziale all'"occidentalismo" e non è certo questo il caso che fa eccezione alla regola. Nel 1940 lo stato che occupa la penisola italiana entrò nel peggiore dei modi in una guerra mondiale. Sulle prove fornite in essa dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, nata come emanazione ed incarnazione stessa dell'autoritarismo ed in questo sua fedele rappresentante, lasciamo la parola ad un testimone di una delle più sanguinose, inutili e demenziali iniziative ideate dai vertici politici e militari del tempo. Si tratta di un esempio letterario: uno, tra le migliaia che sarebbe possibile citare.
Sono arrivati i complementi per riempire i vuoti del Vestone e anche un battaglione di camicie nere per rinforzare il nostro settore. Ho l’incarico di accompagnarli sulle posizioni e cammino lento in testa alla colonna seguito da un capitano richiamato e da un seniore della milizia. Procediamo nella pista battuta tra la neve alta; gli alpini, carichi come mai, stanno serrati e silenziosi nella fila. Agli alt posano gli zaini sulla neve, si siedono sopra e guardano senza alcun commento queste montagne cupe. Sono gli ultimi richiamati delle classi anziane [...].
Le camicie nere sono invece seminate lungo tutti i chilometri della mulattiera; malgrado la buona volontà e benché non siano caricati come gli alpini, non riescono a tenere il passo. Il loro comandante è indispettito e li incita con voce tonante; gli faccio osservare che i grecì potrebbero sentirlo e subito ammutolisce guardandomi come un arrabbiato [...].
Questi "spazzacamini" provengono dalla bassa novarese e le montagne le avranno viste da lontano quando il vento portava via la nebbia condensata sopra i loro paesi da rane, o quando andavano a fare le gite con il dopolavoro. Al vederli fanno pena, e la loro montura così irraionale e apparentemente ardita è qui ridicola: il pugnale di traverso dalla parte della milza, la camicia nera, i fasci al bavero, il fez con il fiocco nero, gli stivaletti da marciapiede. I capimanipolo sono sparpagliati tra i piccoli gruppetti che arrancano con fatica; i loro visi sono glabri, tossiscono e hanno il fiato pesante. Mah, vedremo se sono gente da sabato fascista o se si adatteranno a questa vita.
Arriviamo tra i due roccioni del Papallazit dove c'è il comando del Vestone [...]. Il mio compito è finito e ritorno indietro; lungo tutta la pista e sino alle batterie incontro militi sperduti. Ultimo è un caposquadra anziano con tanti nastrini sul petto, tenta di proseguire appoggiandosi a un ramo che gli fa da bastone; mi chiede quanta strada c’è ancora per arrivare al comando del Vestone, se i greci sono vicini e se c’è pericolo che sparino. Gli faccio coraggio e lo tranquillizzo: prima di notte, se si sbriga, ci arriverà e poi, quando è buio, di solito i greci non sparano.
Ma fu il giorno dopo che i greci attaccarono. Era il 22 dicembre 1940; durante la notte il battaglione di camicie nere si era inserito tra il Verona e il Vestone e doveva tenere il tratto di linea che va dal Pupatit allo Shkalles. [...] Il colonnello era calmo ma preoccupato; temeva che in breve tempo si esaurisseto le nostre munizioni e non era certo del settore tenuto dalle camicie nere. [...]
I greci tiravano anche sulla pista immediatamente dietro le posizioni del Verona e che dovevo percorrere per arrivare al Vestone; sentivo le pallottole passarmi sopra la testa, il continuo tiro delle nostre armi automatiche e i colpi da 81 mi cadevano attorno come volessero sbrindellarmi. E io correvo, correvo come un segugio, guardandomi attorno e tendendo le orecchie per individuare l'avvicinatsi delle bombe. Ero appena passato quando i greci arrivarono sotto le postazioni delle camicie nere, e queste senza sparare un colpo o tirare una bomba a mano, abbandonarono tutto e fuggirono verso il fondo della valle del Verces, e poi giù, lungo il fiume, sino al comando della divisione dove, vedendole in quello stato, quelli delle retrovie caricarono i muli e le carrette per ritirarsi verso Elbasan. La situazione dopo il cedimento, anzi l'abbandono delle trincee da parte delle camicie nere, si era fatta preoccupante, ma gli alpini tenevano con accanimento [...]. Quando venne sera i greci smisero di attaccare e invece di proseguire per il varco lasciato libero dagli "spazzacamini" si fermarono su quelle trincee e girarono verso il vuoto le armi che questi avevano abbandonato.
Prima dell’alba due plotoni del Vestone e uno del Verona piombarono dall’alto e sorpresero i greci facendoli tutti prigionieri, riprendendo le armi che erano state abbandonate. Sul venire del giorno la situazione era così ristabilita, ma loro ripresero ad attaccare in massa, con insistenza. Smisero nelle prime ore del pomeriggio, quando le nostre munizioni erano ormai esaurite: gli ultimi colpi dei mortai di Baroni e dei 75/13 riaccompagnarono i greci superstiti alle posizioni di partenza.
Ero appena tornato dal comando della 57 di Bracchi, anche dalle altre compagnie avevo portato la situazione delle nostre perdite e delle munizioni; il colonnello stava telefonando alla divisione che l’attacco era stato definitivamente respinto. — Bene, — si senti la voce dall’altra parte, — inseguiteli! Scacciateli, vai al contrattacco!
Il colonnello diventò terreo, bestemmiò in piemontese e con voce sarcastica rispose: — Certo, li inseguo io, con il mio attendente! — e strappò il filo. Fece una smorfia che lo rese più brutto di quello che era, afferrò un bastone, il cappello: — Vieni! — mi disse. E usci. Passammo lungo tutta la nostra linea e camminava nervoso, cattivo, duro più di sempre. Nel bosco, prima di arrivare alle batterie, incontrammo due camicie nere disperse: le bastonò. — Vi faccio fucilare, — diceva sordo tra i denti. E le riaccompagnammo su tra gli alpini. [...] Il giorno di Natale mangiammo la carne di un mulo che era precipitato in un burrone. La notte del 31 dicembre il Vestone ebbe il cambio: accompagnai in linea il battaglione Val Leogra; tutto di richiamati che venivano dalla mia provincia, gente tranquilla e pacifica, di fondovalle. Il Vestone venne ad accamparsi vicino a noi; le compagnie erano più che dimezzate, l’equipaggiamento era a brandelli, tanti senza scarpe, molti i congelati; e tutti irsuti, sporchi, di pochissime parole e tetri: nauseati di una lercia patria fascista che li faceva combattere tra le tormente balcaniche oltre i duemila metri, senza munizioni, senza viveri, senza indumenti.
Mario Rigoni Stern, prima di stesura di Quota Albania, Einaudi, Torino 1971.
I traditori sono quelli che in questa elegante e costruttiva contesa sono rimasti seguaci di un tizio che a metà degli anni Novanta li tolse dalle fogne, in più di un caso in modo letterale. E non sono molti, avendo la maggior parte dei beneficiati di allora non soltanto deciso di non seguirlo, ma partecipato in prima persona alla massiccia campagna denigratrice che ha saturato mainstream e comunicazione politica in generale.
A séguito di queste vicende nel principale partito "occidentalista" della penisola italiana si è concentrato un numero rilevante di individui impresentabili da più di un punto di vista ed è tornata viva l'ostentazione per slogan, monture e propaganda del governo autoritario che nel XX secolo resse le sorti della penisola italiana per venti anni. Di quale perizia, di quale consapevolezza, di quale maturità e di quali competenze fossero capaci i protagonisti di quel periodo fu prova la reazione di molti di essi al disastro finale, prevedibile, previsto e puntualmente verificatosi, intanto che i responsabili di esso non si capacitavano nemmeno di che cosa potessero aver mai fatto per ritrovarsi in una situazione del genere.
Il governo autoritario, formalmente sottoposto alla forma monarchica assunta all'epoca da quello stato, nacque dopo una guerra che fornì ad esso uomini, giustificativi, miti fondanti e punti di partenza per la propaganda e la costruzione del consenso. Una delle invenzioni dell'autoritarismo peninsulare fu l'istituzione di un corpo armato che prese il nome di Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, noto anche come camicie nere per il colore predominante nelle uniformi. A novant'anni dalla sua fondazione, le iconografie ed i simboli della Milizia sono oggetto di un certo sfruttamento commerciale ed hanno un considerevole potere seduttivo soprattutto nei confronti degli "occidentalisti" più giovani, insieme a tutta la propaganda legata a quel periodo.
La menzogna è coessenziale all'"occidentalismo" e non è certo questo il caso che fa eccezione alla regola. Nel 1940 lo stato che occupa la penisola italiana entrò nel peggiore dei modi in una guerra mondiale. Sulle prove fornite in essa dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, nata come emanazione ed incarnazione stessa dell'autoritarismo ed in questo sua fedele rappresentante, lasciamo la parola ad un testimone di una delle più sanguinose, inutili e demenziali iniziative ideate dai vertici politici e militari del tempo. Si tratta di un esempio letterario: uno, tra le migliaia che sarebbe possibile citare.
Sono arrivati i complementi per riempire i vuoti del Vestone e anche un battaglione di camicie nere per rinforzare il nostro settore. Ho l’incarico di accompagnarli sulle posizioni e cammino lento in testa alla colonna seguito da un capitano richiamato e da un seniore della milizia. Procediamo nella pista battuta tra la neve alta; gli alpini, carichi come mai, stanno serrati e silenziosi nella fila. Agli alt posano gli zaini sulla neve, si siedono sopra e guardano senza alcun commento queste montagne cupe. Sono gli ultimi richiamati delle classi anziane [...].
Le camicie nere sono invece seminate lungo tutti i chilometri della mulattiera; malgrado la buona volontà e benché non siano caricati come gli alpini, non riescono a tenere il passo. Il loro comandante è indispettito e li incita con voce tonante; gli faccio osservare che i grecì potrebbero sentirlo e subito ammutolisce guardandomi come un arrabbiato [...].
Questi "spazzacamini" provengono dalla bassa novarese e le montagne le avranno viste da lontano quando il vento portava via la nebbia condensata sopra i loro paesi da rane, o quando andavano a fare le gite con il dopolavoro. Al vederli fanno pena, e la loro montura così irraionale e apparentemente ardita è qui ridicola: il pugnale di traverso dalla parte della milza, la camicia nera, i fasci al bavero, il fez con il fiocco nero, gli stivaletti da marciapiede. I capimanipolo sono sparpagliati tra i piccoli gruppetti che arrancano con fatica; i loro visi sono glabri, tossiscono e hanno il fiato pesante. Mah, vedremo se sono gente da sabato fascista o se si adatteranno a questa vita.
Arriviamo tra i due roccioni del Papallazit dove c'è il comando del Vestone [...]. Il mio compito è finito e ritorno indietro; lungo tutta la pista e sino alle batterie incontro militi sperduti. Ultimo è un caposquadra anziano con tanti nastrini sul petto, tenta di proseguire appoggiandosi a un ramo che gli fa da bastone; mi chiede quanta strada c’è ancora per arrivare al comando del Vestone, se i greci sono vicini e se c’è pericolo che sparino. Gli faccio coraggio e lo tranquillizzo: prima di notte, se si sbriga, ci arriverà e poi, quando è buio, di solito i greci non sparano.
Ma fu il giorno dopo che i greci attaccarono. Era il 22 dicembre 1940; durante la notte il battaglione di camicie nere si era inserito tra il Verona e il Vestone e doveva tenere il tratto di linea che va dal Pupatit allo Shkalles. [...] Il colonnello era calmo ma preoccupato; temeva che in breve tempo si esaurisseto le nostre munizioni e non era certo del settore tenuto dalle camicie nere. [...]
I greci tiravano anche sulla pista immediatamente dietro le posizioni del Verona e che dovevo percorrere per arrivare al Vestone; sentivo le pallottole passarmi sopra la testa, il continuo tiro delle nostre armi automatiche e i colpi da 81 mi cadevano attorno come volessero sbrindellarmi. E io correvo, correvo come un segugio, guardandomi attorno e tendendo le orecchie per individuare l'avvicinatsi delle bombe. Ero appena passato quando i greci arrivarono sotto le postazioni delle camicie nere, e queste senza sparare un colpo o tirare una bomba a mano, abbandonarono tutto e fuggirono verso il fondo della valle del Verces, e poi giù, lungo il fiume, sino al comando della divisione dove, vedendole in quello stato, quelli delle retrovie caricarono i muli e le carrette per ritirarsi verso Elbasan. La situazione dopo il cedimento, anzi l'abbandono delle trincee da parte delle camicie nere, si era fatta preoccupante, ma gli alpini tenevano con accanimento [...]. Quando venne sera i greci smisero di attaccare e invece di proseguire per il varco lasciato libero dagli "spazzacamini" si fermarono su quelle trincee e girarono verso il vuoto le armi che questi avevano abbandonato.
Prima dell’alba due plotoni del Vestone e uno del Verona piombarono dall’alto e sorpresero i greci facendoli tutti prigionieri, riprendendo le armi che erano state abbandonate. Sul venire del giorno la situazione era così ristabilita, ma loro ripresero ad attaccare in massa, con insistenza. Smisero nelle prime ore del pomeriggio, quando le nostre munizioni erano ormai esaurite: gli ultimi colpi dei mortai di Baroni e dei 75/13 riaccompagnarono i greci superstiti alle posizioni di partenza.
Ero appena tornato dal comando della 57 di Bracchi, anche dalle altre compagnie avevo portato la situazione delle nostre perdite e delle munizioni; il colonnello stava telefonando alla divisione che l’attacco era stato definitivamente respinto. — Bene, — si senti la voce dall’altra parte, — inseguiteli! Scacciateli, vai al contrattacco!
Il colonnello diventò terreo, bestemmiò in piemontese e con voce sarcastica rispose: — Certo, li inseguo io, con il mio attendente! — e strappò il filo. Fece una smorfia che lo rese più brutto di quello che era, afferrò un bastone, il cappello: — Vieni! — mi disse. E usci. Passammo lungo tutta la nostra linea e camminava nervoso, cattivo, duro più di sempre. Nel bosco, prima di arrivare alle batterie, incontrammo due camicie nere disperse: le bastonò. — Vi faccio fucilare, — diceva sordo tra i denti. E le riaccompagnammo su tra gli alpini. [...] Il giorno di Natale mangiammo la carne di un mulo che era precipitato in un burrone. La notte del 31 dicembre il Vestone ebbe il cambio: accompagnai in linea il battaglione Val Leogra; tutto di richiamati che venivano dalla mia provincia, gente tranquilla e pacifica, di fondovalle. Il Vestone venne ad accamparsi vicino a noi; le compagnie erano più che dimezzate, l’equipaggiamento era a brandelli, tanti senza scarpe, molti i congelati; e tutti irsuti, sporchi, di pochissime parole e tetri: nauseati di una lercia patria fascista che li faceva combattere tra le tormente balcaniche oltre i duemila metri, senza munizioni, senza viveri, senza indumenti.
Mario Rigoni Stern, prima di stesura di Quota Albania, Einaudi, Torino 1971.