"...I camion hanno rallentato la corsa: forse è per farci ammirare questo lago grande e azzurro; l’acqua è limpidissima, le sponde nette e deserte; sull’altra riva le montagne cilestrine sembrano trasparenti come il cielo: ci appaiono anche delle piccole case e un minareto. Nemmeno il laghetto del presepio era così bello.
Andavo con Nino a raccogliere il muschio nel bosco del Prunno: si sceglieva quello sui sassi a nord, il più basso e intensamente verde, e a casa, in soffitta, si faceva il presepio. Grande, con tante cose. Alla vigilia di Natale chiamavamo le ragazze della contrada per ammirare. C’era anche un lago come questo: uno specchio grande era l’acqua, il muschio verdissimo i prati, i sassi rosi da piogge millenarie le montagne, e, in un’ansa, le casette bianche con il minareto. Mettevamo il minareto anche se una signorina che studiava da maestra diceva che era sbagliato, perché Gesù era venuto prima di Maometto, e non c’entrava. Ma a noi piaceva cosi."
"All’alba ripartimmo in silenzio; con le pattuglie di sicurezza in retroguardia e gli esploratori davanti. Continuammo costeggiando un laghetto paludoso e gelato e, dopo questo, ci fermammo dove c’erano quattro costruzioni basse a quadrilatero, con gli angoli aperti.
Nel mezzo del cortile, su un palo nudo, campeggiava un bucranio.
Questo luogo si chiama Tegia Duskut ed è un convento musulmano. il capo dei monaci, un gran vecchio alto e magro dalla lunga barba bianca, si fa incontro al colonnello tenendo le mani dentro le maniche e seguito con gran rispetto dai confratelli.
Anche il colonnello e il maggiore Calbo, servendosi dell’interprete albanese, trattano con rispetto. Capisco dal discorso che i monaci avrebbero lasciato questo luogo ai comando di reggimento, ma chiedono un paio d’ore di tempo per portar via la loro roba: i libri, le pecore, le due mucche, il cavallo; che avrebbero lasciato qui anche un loro converso a custodia della proprietà della comunità musulmana: quando tutto sarà finito, che si riconsegni a lui come è ora.
Il colonnello assicura rispetto e si scusa con il monaco per questa esigenza di guerra. Il vecchio si inchina profondamente, toccandosi la fronte e il petto con la mano destra.
Più tardi lo vedo salire sul cavallo tenuto alla briglia da un giovane albanese, e avviarsi in fila con i discepoli e gli animali verso altre montagne più pacifiche.
Mario Rigoni Stern, Quota Albania, 1971.
"...Un giorno i due amici giunsero in fondo alla Val di Nos, dove sui pascoli della Malga Busette speravano di trovare i tordi alle pasture. Sul primo pascolo, dove finiva il bosco che come dappertutto era massacrato dalle bombe, videro ed entrarono in un cimitero insolito perché non c’erano croci a segnare le tombe ma tavole infisse al suolo con sopra una targhetta di lamiera zincata con impressa una mezzaluna e nomi insoliti con maggioranza di Ali, Mehmet, Mahmud, Mohammed. Nel centro del cimitero c’era un tumulo di sassi cementati con sopra un’asta che sosteneva un quarto di luna in ferro battuto: — Mi sa che questi dovrebbero essere turchi, — disse Angelo.
— Ma cosa c’entravano i turchi con l’Italia? — chiese Matteo.
— Non lo so, — rispose Angelo.
— Ma perché sono venuti a morire qui?
— Per fare più ricchi i signori, — rispose una voce dietro di loro.
Si voltarono di scatto e videro un uomo irsuto di barba nera, vestito da militare ma senza distintivo alcuno, senza copricapo e le mani gialle di esplosivo:
— Questi erano soldati, bosniaci e mussulmani che sono morti da queste parti, — disse..."
Mario Rigoni Stern, L'anno della Vittoria, 1985.
Andavo con Nino a raccogliere il muschio nel bosco del Prunno: si sceglieva quello sui sassi a nord, il più basso e intensamente verde, e a casa, in soffitta, si faceva il presepio. Grande, con tante cose. Alla vigilia di Natale chiamavamo le ragazze della contrada per ammirare. C’era anche un lago come questo: uno specchio grande era l’acqua, il muschio verdissimo i prati, i sassi rosi da piogge millenarie le montagne, e, in un’ansa, le casette bianche con il minareto. Mettevamo il minareto anche se una signorina che studiava da maestra diceva che era sbagliato, perché Gesù era venuto prima di Maometto, e non c’entrava. Ma a noi piaceva cosi."
"All’alba ripartimmo in silenzio; con le pattuglie di sicurezza in retroguardia e gli esploratori davanti. Continuammo costeggiando un laghetto paludoso e gelato e, dopo questo, ci fermammo dove c’erano quattro costruzioni basse a quadrilatero, con gli angoli aperti.
Nel mezzo del cortile, su un palo nudo, campeggiava un bucranio.
Questo luogo si chiama Tegia Duskut ed è un convento musulmano. il capo dei monaci, un gran vecchio alto e magro dalla lunga barba bianca, si fa incontro al colonnello tenendo le mani dentro le maniche e seguito con gran rispetto dai confratelli.
Anche il colonnello e il maggiore Calbo, servendosi dell’interprete albanese, trattano con rispetto. Capisco dal discorso che i monaci avrebbero lasciato questo luogo ai comando di reggimento, ma chiedono un paio d’ore di tempo per portar via la loro roba: i libri, le pecore, le due mucche, il cavallo; che avrebbero lasciato qui anche un loro converso a custodia della proprietà della comunità musulmana: quando tutto sarà finito, che si riconsegni a lui come è ora.
Il colonnello assicura rispetto e si scusa con il monaco per questa esigenza di guerra. Il vecchio si inchina profondamente, toccandosi la fronte e il petto con la mano destra.
Più tardi lo vedo salire sul cavallo tenuto alla briglia da un giovane albanese, e avviarsi in fila con i discepoli e gli animali verso altre montagne più pacifiche.
Mario Rigoni Stern, Quota Albania, 1971.
"...Un giorno i due amici giunsero in fondo alla Val di Nos, dove sui pascoli della Malga Busette speravano di trovare i tordi alle pasture. Sul primo pascolo, dove finiva il bosco che come dappertutto era massacrato dalle bombe, videro ed entrarono in un cimitero insolito perché non c’erano croci a segnare le tombe ma tavole infisse al suolo con sopra una targhetta di lamiera zincata con impressa una mezzaluna e nomi insoliti con maggioranza di Ali, Mehmet, Mahmud, Mohammed. Nel centro del cimitero c’era un tumulo di sassi cementati con sopra un’asta che sosteneva un quarto di luna in ferro battuto: — Mi sa che questi dovrebbero essere turchi, — disse Angelo.
— Ma cosa c’entravano i turchi con l’Italia? — chiese Matteo.
— Non lo so, — rispose Angelo.
— Ma perché sono venuti a morire qui?
— Per fare più ricchi i signori, — rispose una voce dietro di loro.
Si voltarono di scatto e videro un uomo irsuto di barba nera, vestito da militare ma senza distintivo alcuno, senza copricapo e le mani gialle di esplosivo:
— Questi erano soldati, bosniaci e mussulmani che sono morti da queste parti, — disse..."
Mario Rigoni Stern, L'anno della Vittoria, 1985.