Dopo le elezioni presidenziali del 2009 nella Repubblica Islamica dell'Iran non ci siamo mai curati di nascondere due cose: tutt'altro.
La prima è rappresentata dal profondo scetticismo circa le possibilità di successo dei moti di piazza di cui si è resa protagonista una costellazione di organizzazioni politiche facenti capo a Mir Moussavi, di cui tutto si può dire meno che sia uno homo novus o un rivoluzionario.
La seconda è rappresentata dall'ancor più profondo disprezzo per i passacarte "occidentalisti", che il bilancio degli scontri se lo sono augurato e continuano ad augurarselo il più alto possibile, in modo da poter continuare ad utilizzare la Repubblica Islamica come termine di paragone per i sudditi peninsulari.
Se i sudditi fossero privati dello Hannibal ad portas potrebbero addirittura farsi venire qualche strana idea, tipo chiedere conto all'esecutivo in carica delle novecentonovantanove promesse elettorali mai mantenute; l'unica che i padroni dello stato che occupa la penisola italiana stanno realizzando, e che avevano messo nero su bianco a suo tempo, riguarda la trasformazione del paese in un immenso carcere a cielo aperto.
All'inizio di febbraio un tale che fa il Primo Ministro nello stato che occupa la penisola italiana è stato ricevuto con tutti gli onori nello stato sionista. Tre giorni di ciarle roboanti, dall'auspicio di un prossimo ingresso dell'entità statale sionista nell'Unione Europea (idea rubata ai lacché del Partito Radicale, che la ebbero più di dieci anni or sono) alla definizione degli ebrei come "fratelli maggiori" (idea rubata ad un pontefice romano che nel 1986 tentò sua sponte e senza andare esente da pecche e da critiche, di ricucire millenni di incomprensioni e di odio) alla volontà di "sostenere l'opposizione iraniana" (idea rubata e basta).
Mass media e classe politica della Repubblica Islamica dell'Iran hanno lasciato dire, scrollando le spalle e sorridendo indulgenti. Nelle stesse ore in cui il Primo Ministro di una realtà statuale in piena ed inarrestabile crisi, in cui gli aspetti deteriori di una globalizzazione accettata ed imposta tacciando di terrorista chiunque ne criticasse gli aspetti più autodistruttivi e demenziali stanno facendo strame degli asset, della competenza, della ricchezza e della speranza residue andava a pietire benevolenza dai sionisti, la Repubblica Islamica dell'Iran faceva lavorare la sua diplomazia e la sua industria pesante. Risultati della giornata, il lancio di un vettore spaziale e la visita ufficiale di Hamid Karzai in occasione del newroz prossimo venturo.
Il gazzettaio "occidentalista" non perde occasione per lasciar intendere che la miglior cosa da fare sarebbe chiudere i conti una volta per tutte con la Repubblica Islamica: spazziamo via a colpi di B52 quella banda di impiccatori malvestiti e staremo tutti meglio. Purtroppo il tempo passa per tutti e mentre gli "occidentalisti" hanno sperperato il loro nei night club e nelle bische -è di questi giorni la notizia della prevista apertura di quaranta bische di stato nella sola penisola italiana- in questo seguiti a ruota da sudditi cui non pareva vero che qualcuno desse l'esempio dall'alto, qualcun altro trascorreva lo stesso tempo su trattati di fisica, di medicina e di elettronica. Il risultato è che la Repubblica Islamica dell'Iran, su quel mercato globalizzato di cui solo i terroristi osavano denunciare i rischi e le storture, è già oggi in grado di fare concorrenza all'"Occidente" in una quantità di campi, dall'industria pesante a quella farmaceutica ai voli spaziali alla produzione di energia. Nel 2007, energia alternativa in Iran significava decine di generatori eolici istallati sulla strada tra Rasht e Bandar Anzali.
Dagli anni in cui Mossadeq doveva prendere atto della dipendenza dal colonialismo per assoluta impossibilità di mandare avanti con forze proprie anche un semplice cementificio, il tempo è decisamente passato.
Molte delle nostre considerazioni sono riassunte in modo chiaro nell'articolo che qui si traduce, presentato su TomDispatch.com. Una sua lettura sarà sufficiente a capire per quale motivo l'incompetenza mangiona ed il presenzialismo d'accatto cui la comunicazione politica "occidentale" si ostina a dare coloriture positive possono avere effetti per lo meno pari a quelli dell'incompetenza sostanziale di cui gli scaldapoltrone della politica di palazzo forniscono instancabilmente prova.
Dilip Hiro, l'Iran nel 1979 e nel 2010
La politica dell'amministrazione Obama nei confronti dell'Iran è un mistero avvolto in un enigma e rincalzato in un ginepraio. Così tanti segnali vengono inviati in così tante direzioni che c'è da chiedersi se gli iraniani stessi, per non parlare delle altre parti in causa, abbiano una qualche idea di quello che sta succedendo. Barack Obama ha iniziato la sua presidenza impegnandosi a mettere fuori gioco l'Iran con le armi della diplomazia. In concreto l'amministrazione si è impegnata in questo compito solo per metà, e il presidente ha cominciato presto ad imporre scadenze precise alle risposte soddisfacenti per Washington che gli iraniani avrebbero dovuto fornire in merito al loro programma nucleare, pena il dover affrontare ulteriori e paralizzanti sanzioni. L'ultima di queste scadenze, il primo gennaio 2010, è trascorsa ed è evidente che si sta preparando un ulteriore passo verso nuove sanzioni, in particolare nei confronti delle imprese che hanno legami con i Guardiani della Rivoluzione che controllano una parte significativa dell'economia del paese. Solo che la Cina, che detiene per il mese di gennaio la presidenza del Consiglio di Sicurezza, ha recentemente rifiutato che la questione fosse anche soltanto dibattuta. I cinesi, così come i russi, sono profondamente coinvolti nello sviluppo di relazioni a lungo termine con l'Iran sul piano delle fonti energetiche, il che significa che nessuna sanzione che potrebbe azzoppare l'economia di quel paese potrà farlo passando dal Consiglio di Sicurezza, a prescindere da quale paese ne detenga la presidenza.
Nel frattempo continuano le voci insistenti che già circolano da anni, circa un incombente attacco israeliano sulle installazioni nucleari iraniane (che è un modo educato per indicare le difese militari iraniane di ogni tipo). Il Presidente Obama avrebbe più volte fatto presente l'impossibilità di far recedere gli israeliani da simili intendimenti al presidente cinese, per cercare di renderlo più malleabile sulla questione delle sanzioni. Le comunicazioni ufficiali dell'amministrazione ripetono invariabilmente variazioni sul tema della formula in voga ai tempi della presidenza Bush: "tutte le opzioni sono sul tavolo". Recentemente il capo dello stato maggiore ammiraglio Mike Mullen ha pubblicamente fatto alcuni vaghi riferimenti a piani del Pentagono per un attacco all'Iran ("...preparando allo stesso tempo le nostre forze, come siamo soliti fare in previsione di molti imprevisti che abbiamo l'impressione potrebbero verificarsi..."). Tuttavia l'esplicita eventualità di un operazione di questo genere non lo vedeva per nulla entusiasta. Il segretario alla Difesa di Obama, l'influente di nome Robert Gates, si è per lungo tempo opposto strenuamente all'imbocco di un simile cammino. Dalla sua interrogazione in senato del 2006 in poi, non ha mai nascosto quanto secondo lui sarebbero catastrofiche per la regione le conseguenze di un'operazione militare contro quegli impianti nucleari; le conseguenze potrebbero comportare anche un picco incontrollabile a livello mondiale del prezzo del petrolio.
L'amministrazione Obama sta ora prendendo in considerazione l'idea di sostenere in misura maggiore il "movimento verde" in Iran. Ma questo movimento dissidente, perennemente per le strade a protestare contro il presente regime e contro le elezioni fraudolente, vedrebbe la sua forza minata immediatamente sia dall'adozione di "sanzioni invalidanti" sia da un attacco contro gli impianti nucleari del paese. Tutto questo, in altre parole, fa pensare che il caos sia il sostanziale dominatore di questo tema politico.
Un "regime change" a Tehran? Ancora non è il caso di scommetterci.
Le drammatiche immagini dei manifestanti iraniani che affrontano senza paura gli attacchi brutali delle forze di sicurezza del regime, e che talvolta contrattaccano anche, si sono giustamente guadagnate l’ammirazione e la simpatia dei telespettatori in Occidente. Esse spingono anche molti occidentali a supporre che questo sia il preambolo di un cambiamento di regime a Teheran, il ripetersi di una certa storia, ma con una svolta inattesa. Dopotutto, l’Iran ha l’onore di essere l’unico Stato del Medio Oriente che ha subito un cambiamento rivoluzionario – trentun anni fa – nato da una moderata protesta di strada.
Vista oggettivamente, però, questa ipotesi è troppo ottimistica. Essa trascura essenziali differenze tra il momento attuale e gli eventi del 1978-79 che portarono al rovesciamento dello scià dell’Iran e alla fondazione di una Repubblica islamica sotto la guida dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini. La storia ci mostra che un movimento rivoluzionario trionfa solo quando due elementi fondamentali finiscono per collidere: il movimento è sostenuto da una coalizione di diverse classi sociali, ed esso riesce a paralizzare il meccanismo di governo del paese e a frammentare l’apparato repressivo dello stato.
Due movimenti, due momenti storici
Bisogna innanzitutto esporre una breve rassegna degli avvenimenti che caratterizzarono la Rivoluzione iraniana, che ha ormai compiuto trentun anni. Nel febbraio del 1979 la monarchia autocratica dello scià crollò quando l’economia del paese si fermò a causa di scioperi compiuti non solo dai mercanti del bazar, religiosi osservanti, ma anche dai dipendenti pubblici, dai dipendenti delle fabbriche, e (elemento fondamentale) dai lavoratori del settore petrolifero, politicamente orientati a sinistra. Allo stesso tempo, i fondamenti dello Stato moderno – le forze armate, le forze speciali, la polizia armata, le agenzie di spionaggio, i media controllati dallo Stato – crollarono di schianto. Le manifestazioni di strada, iniziate nell’ottobre 1977 da intellettuali e professionisti iraniani per protestare contro le violazioni dei diritti umani da parte della SAVAK, la brutale polizia segreta dello scià, mancavano sia di concentrazione che di un insieme globale di richieste coerenti articolate da una personalità di spicco. Questa situazione cambiò quando nel gennaio 1978 Khomeini, un ayatollah ostile allo scià in modo virulento, esiliato nel vicino Iraq per quattordici anni, fu coinvolto nella questione. Da allora in poi, le schiere dei manifestanti crebbero in modo esponenziale.
Oggi, la questione fondamentale è: le recenti manifestazioni di strada, innescate dai brogli alle elezioni presidenziali dello scorso giugno, sono riuscite a coinvolgere uno o più di quei segmenti della società che all'inizio avevano ignorato la frode elettorale o respinto le asserzioni in tal senso?
L’evidenza dei fatti finora suggerisce che le proteste, anche se proseguono imperterrite e continuano la loro resistenza, sono rimaste come bloccate nel loro percorso anche se il 27 dicembre 2009, il giorno della celebrazione sciita di Ashura, si sono estese per la prima volta a città più piccole. Ciò che è rimasto immutato è il retroterra sociale dei partecipanti. Essi sono in gran parte giovani, hanno una cultura universitaria, sono ben vestiti, possiedono cellulari ed utilizzano Internet, YouTube, Facebook e Twitter.
Nella capitale, essi provengono di solito dai quartieri alti di Tehran Nord, in cui vive circa un terzo della popolazione della città, che ammonta a nove milioni di abitanti in totale. Tehran Nord è la residenza delle famiglie benestanti, molte delle quali hanno parenti in Europa occidentale o in Nord America. Spesso trascorrono le loro vacanze in Occidente, la maggior parte di loro parla fluentemente l’inglese e ci sa fare con i computer.
Naturalmente, poi, i giornalisti ed i commentatori occidentali si identificano con questo segmento della società iraniana, e si concentrano in gran parte su di esso, magari senza nemmeno rendersene conto o per altri motivi. Anche nell’autunno del 1977, persone di questo genere dominarono le proteste di piazza contro lo scià. La differenza, ora, è una differenza di scala. Dai tempi della Rivoluzione islamica c’è stata un’esplosione nel campo dell’istruzione superiore. Tra il 1979 e il 1999, mentre la popolazione è raddoppiata, il numero dei laureati è cresciuto di nove volte, da una base di 430.000 a quasi quattro milioni. Il corpo studentesco delle università e delle scuole superiori è cresciuto fino a raggiungere i tre quarti di milione di giovani iraniani. Questo spiega la vastità delle proteste e l'uniformità dell'abbigliamento di coloro che vi partecipavano.
Ora, il problema più importante per gli specialisti di questioni iraniane dovrebbe essere: negli ultimi sei mesi un numero significativo di residenti della zona povera a sud di Teheran, con i suoi sei milioni di persone, si è unito alla protesta? Stando alle immagini su Internet e sui canali televisivi occidentali, la risposta è no. Gli abitanti della zona sud di Teheran non indossano jeans alla moda, e se le loro donne protestassero apparirebbero velate dalla testa ai piedi, e senza make-up degni di nota.
E’ la zona sud di Teheran che ospita il Gran Bazar, che copre cinque miglia di vicoli tortuosi e più di una dozzina di moschee. Il bazar è la spina dorsale commerciale della nazione, con la sua intricata commistione di commercio, cultura islamica, e politica. I suoi orientamenti sono seguiti da tutti gli altri bazar dell’Iran. Siccome il Profeta Maometto era un mercante, vi è stato un rapporto simbiotico tra la classe commerciale e la moschea fin dai primordi dell'islam. L’Iran non fa eccezione, e l’importanza dell'influenza del bazar non può ancora considerarsi sovrastimata. Dopotutto, il petrolio fu scoperto per la prima volta nel paese solo un secolo fa, e l’industrializzazione ha preso piede solo dopo la seconda guerra mondiale.
Dunque: i commercianti del bazar hanno cominciato a chiudere i loro negozi per manifestare la loro solidarietà con i manifestanti, come fecero ai tempi del movimento contro lo scià? La risposta è no, anche in questo caso.
Lasciando da parte la serrata dei negozi, se alcuni operatori del bazar avessero semplicemente creato propri blog e aderito alle proteste on-line, questo fatto in sé avrebbe sicuramente attirato l’attenzione del regime della Guida suprema Ayatollah Ali Khamenei, e avrebbe anche potuto portarlo a prendere in considerazione un compromesso con i riformisti.
I limiti del 2010
Finora, l’opposizione è stata guidata dai candidati sconfitti alle elezioni presidenziali – Mir Hussein Moussavi e Mahdi Karroubi – nessuno dei quali possiede alcunché di paragonabile al carisma ed al prestigio religioso che aveva Khomeini. Inoltre, l’opposizione soffre dell’assenza di un complesso unico di rivendicazioni. All’epoca del movimento del 1978-79, Khomeini radunò diverse forze ostili allo scià – dai chierici sciiti ai gruppi marxisti-leninisti – attorno a una rivendicazione primaria: detronizzare lo scià.
Khomeini riuscì poi a tenere insieme questa improbabile alleanza difendendo le cause di ciascuna delle classi sociali che componevano la coalizione ostile allo scià. Le classi medie tradizionali composte da commercianti e artigiani videro in lui un sostenitore della proprietà privata e un fautore dei valori islamici. Le classi medie moderne lo considerarono un nazionalista radicale, impegnato a porre fine alla dittatura monarchica e alle influenze straniere in Iran. La classe operaia urbana lo appoggiò a causa del suo ripetuto impegno in favore della giustizia sociale, che, secondo essa, poteva essere raggiunta solo trasferendo il potere e la ricchezza dai ricchi ai bisognosi. I poveri delle campagne lo videro come colui che avrebbe fornito loro terra coltivabile, impianti per l'irrigazione, strade, scuole e corrente elettrica. Khomeini svolse questo compito sovrumano mantenendo uno studiato silenzio su questioni controverse come la democrazia, la condizione della donna ed il ruolo che il clero sciita avrebbe avuto nella futura Repubblica islamica.
Oggi, lo slogan più popolare dei manifestanti è “Morte al dittatore”, riferito alla Guida Suprema Khamenei (in persiano, “Marg-bur Dik-ta-tor” suona bene). Eppure questo non è certamente ciò che vogliono, né Moussavi né Karroubi.
Sul suo sito web, Moussavi ha recentemente chiesto la liberazione di tutti i prigionieri politici e la modifica della legge elettorale, assieme all’applicazione della libertà di espressione, di assemblea, e della libertà di stampa, come indicato nella Costituzione iraniana. In breve, egli vuole riformare il sistema attuale, non sovvertirlo.
Allo stato attuale delle cose esiste un organo costituzionale che consente la rimozione della Guida suprema. L’Assemblea degli Esperti, composta da 86 membri eletti dal popolo, ha il potere di nominare o licenziare la Guida. Questa assemblea è presieduta da Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. E' stato uno stretto collaboratore dell’ayatollah Khomeini, e per questo le sue credenziali rivoluzionarie sono pari a quelle di Ali Khamenei.
Rafsanjani ha appoggiato Moussavi nella sua candidatura presidenziale fornendogli fondi e pianificazione strategica. Ora, se egli lo decidesse, potrebbe convocare l’Assemblea degli Esperti per una sessione di emergenza allo scopo di discutere l’attuale crisi causata dalle divisioni nelle alte sfere. Normalmente quest’Assemblea si riunisce solo due volte all’anno. Ma essendo un politico accorto, Rafsanjani dapprima consulterebbe i più importanti membri dell’Assemblea per sondare il terreno. Sembra che egli finora non sia riuscito ad ottenere un appoggio sufficientemente forte per la convocazione di una sessione speciale.
A livello della base, i numerosi blog e siti web di opposizione raramente trattano il quadro complessivo. Essi concentrano la loro attenzione essenzialmente sulla denuncia della repressione brutale e del fatto che a loro detta il regime di Khamenei si è allontanato drasticamente dalle sue radici islamiche e dalle sue promesse rivoluzionarie di giustizia, libertà e indipendenza.
La loro critica, però, copre solo l'aspetto più appariscente della situazione. Non è sufficiente per dedurne che un cambio di regime sia imminente nel paese. Un secondo aspetto complementare dovrebbe precisare alcuni dettagli su come i manifestanti vorrebbero vedere tradotte in pratica le loro istanze di cambiamento. Perlomeno, l’opposizione dovrebbe discutere la questione, cosa che attualmente non sta facendo; oppure potrebbe emulare Moussavi, che ha lasciato cadere la sua precedente richiesta di nuove elezioni presidenziali non più controllate dal ministero degli interni ma da un organismo non-governativo. Questo gesto potrebbe, prima o poi, aprire la strada a un compromesso con il presidente Mahmoud Ahmadinejad, il quale a sua volta potrebbe portare ad un governo di unità nazionale composto dai seguaci dell’attuale presidente e dai leader dell’opposizione.
Una delle principali differenze tra il 1979 e il 2010 è che Internet offre una grande opportunità per un tipo di dibattito che era impensabile fino a un decennio fa. Un aspetto che invece il movimento del 1979 e quello attuale hanno in comune è l’idea di fare un uso politico delle festività religiose sciite, del costume islamico di commemorare una persona deceduta nel 40° giorno della sua scomparsa, nonché dell'idea di martirio così radicata tra gli sciiti. L’ayatollah Khomeini fu un pioniere nell'utilizzo di queste tattiche. Egli usò coerentemente il 40 ° giorno di lutto per i martiri del regime dello scià allo scopo di attirare folle sempre più numerose e sempre più entusiaste per le strade, e usò il mese sacro del Ramadan per caricare la nazione di fervore rivoluzionario.
I tentativi degli attuali leader dell’opposizione di emulare l’esempio di Khomeini non sono riusciti, soprattutto perché dalla loro parte manca un leader religioso della statura di Khomeini.
Khomeini inflisse al regime dello scià un colpo quasi mortale con una sua fatwa, in cui sentenziò che sparare ad un manifestante disarmato era come fare fuoco contro una copia del Corano. La maggior parte dei soldati dello scià, essendo sciiti e militari di leva spesso giovani di leva, accettarono l’interpretazione di Khomeini. Molti di essi avevano già perso la fiducia nei loro comandanti dopo che alcuni impiegati di banca avevano rivelato, nel settembre del 1978, che gli alti ufficiali dell’esercito stavano trasferendo ingenti somme all’estero. Non c’è da meravigliarsi che, quando lo scià lasciò l’Iran nel gennaio 1979, la forza dell’esercito fosse da trecentomila a poco più di centomila uomini, essenzialmente a causa delle diserzioni.
Al contrario di quanto successe allora non ci sono prove, fino a questo momento, del fatto che le forze di sicurezza dell’attuale regime –il pesantemente indottrinato Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, la milizia Basij, o la polizia armata– mostrino segni di cedimento quando viene ordinato loro di disperdere le manifestazioni con la forza. Da parte sua, il regime, consapevole del pericolo di creare martiri e dei precedenti storici che esistono in questo senso, ha avuto cura di fare un uso minimo delle armi da fuoco nel disperdere le folle dei manifestanti.
Nei 12 mesi del movimento rivoluzionario che si protrasse dal 1978 al 1979, l’uso indiscriminato delle armi da fuoco da parte del regime dello scià provocò tra le diecimila vittime –secondo le statistiche governative– e le quarantamila –secondo i dati dell’opposizione. Nei sei mesi della protesta di strada attuale, il totale delle vittime è, secondo l’opposizione, di centosei persone.
Il fattore del nazionalismo
Se questa interpretazione della situazione attuale in Iran si è concentrata esclusivamente sulle dinamiche politiche interne, ciò non significa che le forze esterne siano prive d'importanza. Considerata la rilevanza geo-strategica dell’Iran nella regione e nel mondo, ogni eventuale mossa da parte di governi occidentali meno che amichevoli nei confronti di Teheran è destinata a modificare la situazione interna in modo drammatico.
Se, ad esempio, le potenze occidentali dovessero riuscire ad inasprire le sanzioni economiche contro Teheran attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’opposizione probabilmente porrebbe fine alle proteste e collaborerebbe con il governo di Ahmadinejad per affrontare una comune minaccia nazionale sotto la bandiera del patriottismo. Con una storia orgogliosamente documentata che risale per più di sei millenni indietro nel passato, gli iraniani si sono trasformati in fedeli nazionalisti nell'epoca moderna. Si tratta di un fatto molto semplice, seppure di portata generale, che i leader dell’Occidente non possono permettersi di ignorare.
Dilip Hiro è autore di molti libri sul Medio Oriente, fra cui “The Iranian Labyrinth”; il suo ultimo libro, “After Empire: The Birth of a Multipolar World” (Nation Books) è stato appena pubblicato.
La prima è rappresentata dal profondo scetticismo circa le possibilità di successo dei moti di piazza di cui si è resa protagonista una costellazione di organizzazioni politiche facenti capo a Mir Moussavi, di cui tutto si può dire meno che sia uno homo novus o un rivoluzionario.
La seconda è rappresentata dall'ancor più profondo disprezzo per i passacarte "occidentalisti", che il bilancio degli scontri se lo sono augurato e continuano ad augurarselo il più alto possibile, in modo da poter continuare ad utilizzare la Repubblica Islamica come termine di paragone per i sudditi peninsulari.
Se i sudditi fossero privati dello Hannibal ad portas potrebbero addirittura farsi venire qualche strana idea, tipo chiedere conto all'esecutivo in carica delle novecentonovantanove promesse elettorali mai mantenute; l'unica che i padroni dello stato che occupa la penisola italiana stanno realizzando, e che avevano messo nero su bianco a suo tempo, riguarda la trasformazione del paese in un immenso carcere a cielo aperto.
All'inizio di febbraio un tale che fa il Primo Ministro nello stato che occupa la penisola italiana è stato ricevuto con tutti gli onori nello stato sionista. Tre giorni di ciarle roboanti, dall'auspicio di un prossimo ingresso dell'entità statale sionista nell'Unione Europea (idea rubata ai lacché del Partito Radicale, che la ebbero più di dieci anni or sono) alla definizione degli ebrei come "fratelli maggiori" (idea rubata ad un pontefice romano che nel 1986 tentò sua sponte e senza andare esente da pecche e da critiche, di ricucire millenni di incomprensioni e di odio) alla volontà di "sostenere l'opposizione iraniana" (idea rubata e basta).
Mass media e classe politica della Repubblica Islamica dell'Iran hanno lasciato dire, scrollando le spalle e sorridendo indulgenti. Nelle stesse ore in cui il Primo Ministro di una realtà statuale in piena ed inarrestabile crisi, in cui gli aspetti deteriori di una globalizzazione accettata ed imposta tacciando di terrorista chiunque ne criticasse gli aspetti più autodistruttivi e demenziali stanno facendo strame degli asset, della competenza, della ricchezza e della speranza residue andava a pietire benevolenza dai sionisti, la Repubblica Islamica dell'Iran faceva lavorare la sua diplomazia e la sua industria pesante. Risultati della giornata, il lancio di un vettore spaziale e la visita ufficiale di Hamid Karzai in occasione del newroz prossimo venturo.
Il gazzettaio "occidentalista" non perde occasione per lasciar intendere che la miglior cosa da fare sarebbe chiudere i conti una volta per tutte con la Repubblica Islamica: spazziamo via a colpi di B52 quella banda di impiccatori malvestiti e staremo tutti meglio. Purtroppo il tempo passa per tutti e mentre gli "occidentalisti" hanno sperperato il loro nei night club e nelle bische -è di questi giorni la notizia della prevista apertura di quaranta bische di stato nella sola penisola italiana- in questo seguiti a ruota da sudditi cui non pareva vero che qualcuno desse l'esempio dall'alto, qualcun altro trascorreva lo stesso tempo su trattati di fisica, di medicina e di elettronica. Il risultato è che la Repubblica Islamica dell'Iran, su quel mercato globalizzato di cui solo i terroristi osavano denunciare i rischi e le storture, è già oggi in grado di fare concorrenza all'"Occidente" in una quantità di campi, dall'industria pesante a quella farmaceutica ai voli spaziali alla produzione di energia. Nel 2007, energia alternativa in Iran significava decine di generatori eolici istallati sulla strada tra Rasht e Bandar Anzali.
Dagli anni in cui Mossadeq doveva prendere atto della dipendenza dal colonialismo per assoluta impossibilità di mandare avanti con forze proprie anche un semplice cementificio, il tempo è decisamente passato.
Molte delle nostre considerazioni sono riassunte in modo chiaro nell'articolo che qui si traduce, presentato su TomDispatch.com. Una sua lettura sarà sufficiente a capire per quale motivo l'incompetenza mangiona ed il presenzialismo d'accatto cui la comunicazione politica "occidentale" si ostina a dare coloriture positive possono avere effetti per lo meno pari a quelli dell'incompetenza sostanziale di cui gli scaldapoltrone della politica di palazzo forniscono instancabilmente prova.
Dilip Hiro, l'Iran nel 1979 e nel 2010
La politica dell'amministrazione Obama nei confronti dell'Iran è un mistero avvolto in un enigma e rincalzato in un ginepraio. Così tanti segnali vengono inviati in così tante direzioni che c'è da chiedersi se gli iraniani stessi, per non parlare delle altre parti in causa, abbiano una qualche idea di quello che sta succedendo. Barack Obama ha iniziato la sua presidenza impegnandosi a mettere fuori gioco l'Iran con le armi della diplomazia. In concreto l'amministrazione si è impegnata in questo compito solo per metà, e il presidente ha cominciato presto ad imporre scadenze precise alle risposte soddisfacenti per Washington che gli iraniani avrebbero dovuto fornire in merito al loro programma nucleare, pena il dover affrontare ulteriori e paralizzanti sanzioni. L'ultima di queste scadenze, il primo gennaio 2010, è trascorsa ed è evidente che si sta preparando un ulteriore passo verso nuove sanzioni, in particolare nei confronti delle imprese che hanno legami con i Guardiani della Rivoluzione che controllano una parte significativa dell'economia del paese. Solo che la Cina, che detiene per il mese di gennaio la presidenza del Consiglio di Sicurezza, ha recentemente rifiutato che la questione fosse anche soltanto dibattuta. I cinesi, così come i russi, sono profondamente coinvolti nello sviluppo di relazioni a lungo termine con l'Iran sul piano delle fonti energetiche, il che significa che nessuna sanzione che potrebbe azzoppare l'economia di quel paese potrà farlo passando dal Consiglio di Sicurezza, a prescindere da quale paese ne detenga la presidenza.
Nel frattempo continuano le voci insistenti che già circolano da anni, circa un incombente attacco israeliano sulle installazioni nucleari iraniane (che è un modo educato per indicare le difese militari iraniane di ogni tipo). Il Presidente Obama avrebbe più volte fatto presente l'impossibilità di far recedere gli israeliani da simili intendimenti al presidente cinese, per cercare di renderlo più malleabile sulla questione delle sanzioni. Le comunicazioni ufficiali dell'amministrazione ripetono invariabilmente variazioni sul tema della formula in voga ai tempi della presidenza Bush: "tutte le opzioni sono sul tavolo". Recentemente il capo dello stato maggiore ammiraglio Mike Mullen ha pubblicamente fatto alcuni vaghi riferimenti a piani del Pentagono per un attacco all'Iran ("...preparando allo stesso tempo le nostre forze, come siamo soliti fare in previsione di molti imprevisti che abbiamo l'impressione potrebbero verificarsi..."). Tuttavia l'esplicita eventualità di un operazione di questo genere non lo vedeva per nulla entusiasta. Il segretario alla Difesa di Obama, l'influente di nome Robert Gates, si è per lungo tempo opposto strenuamente all'imbocco di un simile cammino. Dalla sua interrogazione in senato del 2006 in poi, non ha mai nascosto quanto secondo lui sarebbero catastrofiche per la regione le conseguenze di un'operazione militare contro quegli impianti nucleari; le conseguenze potrebbero comportare anche un picco incontrollabile a livello mondiale del prezzo del petrolio.
L'amministrazione Obama sta ora prendendo in considerazione l'idea di sostenere in misura maggiore il "movimento verde" in Iran. Ma questo movimento dissidente, perennemente per le strade a protestare contro il presente regime e contro le elezioni fraudolente, vedrebbe la sua forza minata immediatamente sia dall'adozione di "sanzioni invalidanti" sia da un attacco contro gli impianti nucleari del paese. Tutto questo, in altre parole, fa pensare che il caos sia il sostanziale dominatore di questo tema politico.
Un "regime change" a Tehran? Ancora non è il caso di scommetterci.
Le drammatiche immagini dei manifestanti iraniani che affrontano senza paura gli attacchi brutali delle forze di sicurezza del regime, e che talvolta contrattaccano anche, si sono giustamente guadagnate l’ammirazione e la simpatia dei telespettatori in Occidente. Esse spingono anche molti occidentali a supporre che questo sia il preambolo di un cambiamento di regime a Teheran, il ripetersi di una certa storia, ma con una svolta inattesa. Dopotutto, l’Iran ha l’onore di essere l’unico Stato del Medio Oriente che ha subito un cambiamento rivoluzionario – trentun anni fa – nato da una moderata protesta di strada.
Vista oggettivamente, però, questa ipotesi è troppo ottimistica. Essa trascura essenziali differenze tra il momento attuale e gli eventi del 1978-79 che portarono al rovesciamento dello scià dell’Iran e alla fondazione di una Repubblica islamica sotto la guida dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini. La storia ci mostra che un movimento rivoluzionario trionfa solo quando due elementi fondamentali finiscono per collidere: il movimento è sostenuto da una coalizione di diverse classi sociali, ed esso riesce a paralizzare il meccanismo di governo del paese e a frammentare l’apparato repressivo dello stato.
Due movimenti, due momenti storici
Bisogna innanzitutto esporre una breve rassegna degli avvenimenti che caratterizzarono la Rivoluzione iraniana, che ha ormai compiuto trentun anni. Nel febbraio del 1979 la monarchia autocratica dello scià crollò quando l’economia del paese si fermò a causa di scioperi compiuti non solo dai mercanti del bazar, religiosi osservanti, ma anche dai dipendenti pubblici, dai dipendenti delle fabbriche, e (elemento fondamentale) dai lavoratori del settore petrolifero, politicamente orientati a sinistra. Allo stesso tempo, i fondamenti dello Stato moderno – le forze armate, le forze speciali, la polizia armata, le agenzie di spionaggio, i media controllati dallo Stato – crollarono di schianto. Le manifestazioni di strada, iniziate nell’ottobre 1977 da intellettuali e professionisti iraniani per protestare contro le violazioni dei diritti umani da parte della SAVAK, la brutale polizia segreta dello scià, mancavano sia di concentrazione che di un insieme globale di richieste coerenti articolate da una personalità di spicco. Questa situazione cambiò quando nel gennaio 1978 Khomeini, un ayatollah ostile allo scià in modo virulento, esiliato nel vicino Iraq per quattordici anni, fu coinvolto nella questione. Da allora in poi, le schiere dei manifestanti crebbero in modo esponenziale.
Oggi, la questione fondamentale è: le recenti manifestazioni di strada, innescate dai brogli alle elezioni presidenziali dello scorso giugno, sono riuscite a coinvolgere uno o più di quei segmenti della società che all'inizio avevano ignorato la frode elettorale o respinto le asserzioni in tal senso?
L’evidenza dei fatti finora suggerisce che le proteste, anche se proseguono imperterrite e continuano la loro resistenza, sono rimaste come bloccate nel loro percorso anche se il 27 dicembre 2009, il giorno della celebrazione sciita di Ashura, si sono estese per la prima volta a città più piccole. Ciò che è rimasto immutato è il retroterra sociale dei partecipanti. Essi sono in gran parte giovani, hanno una cultura universitaria, sono ben vestiti, possiedono cellulari ed utilizzano Internet, YouTube, Facebook e Twitter.
Nella capitale, essi provengono di solito dai quartieri alti di Tehran Nord, in cui vive circa un terzo della popolazione della città, che ammonta a nove milioni di abitanti in totale. Tehran Nord è la residenza delle famiglie benestanti, molte delle quali hanno parenti in Europa occidentale o in Nord America. Spesso trascorrono le loro vacanze in Occidente, la maggior parte di loro parla fluentemente l’inglese e ci sa fare con i computer.
Naturalmente, poi, i giornalisti ed i commentatori occidentali si identificano con questo segmento della società iraniana, e si concentrano in gran parte su di esso, magari senza nemmeno rendersene conto o per altri motivi. Anche nell’autunno del 1977, persone di questo genere dominarono le proteste di piazza contro lo scià. La differenza, ora, è una differenza di scala. Dai tempi della Rivoluzione islamica c’è stata un’esplosione nel campo dell’istruzione superiore. Tra il 1979 e il 1999, mentre la popolazione è raddoppiata, il numero dei laureati è cresciuto di nove volte, da una base di 430.000 a quasi quattro milioni. Il corpo studentesco delle università e delle scuole superiori è cresciuto fino a raggiungere i tre quarti di milione di giovani iraniani. Questo spiega la vastità delle proteste e l'uniformità dell'abbigliamento di coloro che vi partecipavano.
Ora, il problema più importante per gli specialisti di questioni iraniane dovrebbe essere: negli ultimi sei mesi un numero significativo di residenti della zona povera a sud di Teheran, con i suoi sei milioni di persone, si è unito alla protesta? Stando alle immagini su Internet e sui canali televisivi occidentali, la risposta è no. Gli abitanti della zona sud di Teheran non indossano jeans alla moda, e se le loro donne protestassero apparirebbero velate dalla testa ai piedi, e senza make-up degni di nota.
E’ la zona sud di Teheran che ospita il Gran Bazar, che copre cinque miglia di vicoli tortuosi e più di una dozzina di moschee. Il bazar è la spina dorsale commerciale della nazione, con la sua intricata commistione di commercio, cultura islamica, e politica. I suoi orientamenti sono seguiti da tutti gli altri bazar dell’Iran. Siccome il Profeta Maometto era un mercante, vi è stato un rapporto simbiotico tra la classe commerciale e la moschea fin dai primordi dell'islam. L’Iran non fa eccezione, e l’importanza dell'influenza del bazar non può ancora considerarsi sovrastimata. Dopotutto, il petrolio fu scoperto per la prima volta nel paese solo un secolo fa, e l’industrializzazione ha preso piede solo dopo la seconda guerra mondiale.
Dunque: i commercianti del bazar hanno cominciato a chiudere i loro negozi per manifestare la loro solidarietà con i manifestanti, come fecero ai tempi del movimento contro lo scià? La risposta è no, anche in questo caso.
Lasciando da parte la serrata dei negozi, se alcuni operatori del bazar avessero semplicemente creato propri blog e aderito alle proteste on-line, questo fatto in sé avrebbe sicuramente attirato l’attenzione del regime della Guida suprema Ayatollah Ali Khamenei, e avrebbe anche potuto portarlo a prendere in considerazione un compromesso con i riformisti.
I limiti del 2010
Finora, l’opposizione è stata guidata dai candidati sconfitti alle elezioni presidenziali – Mir Hussein Moussavi e Mahdi Karroubi – nessuno dei quali possiede alcunché di paragonabile al carisma ed al prestigio religioso che aveva Khomeini. Inoltre, l’opposizione soffre dell’assenza di un complesso unico di rivendicazioni. All’epoca del movimento del 1978-79, Khomeini radunò diverse forze ostili allo scià – dai chierici sciiti ai gruppi marxisti-leninisti – attorno a una rivendicazione primaria: detronizzare lo scià.
Khomeini riuscì poi a tenere insieme questa improbabile alleanza difendendo le cause di ciascuna delle classi sociali che componevano la coalizione ostile allo scià. Le classi medie tradizionali composte da commercianti e artigiani videro in lui un sostenitore della proprietà privata e un fautore dei valori islamici. Le classi medie moderne lo considerarono un nazionalista radicale, impegnato a porre fine alla dittatura monarchica e alle influenze straniere in Iran. La classe operaia urbana lo appoggiò a causa del suo ripetuto impegno in favore della giustizia sociale, che, secondo essa, poteva essere raggiunta solo trasferendo il potere e la ricchezza dai ricchi ai bisognosi. I poveri delle campagne lo videro come colui che avrebbe fornito loro terra coltivabile, impianti per l'irrigazione, strade, scuole e corrente elettrica. Khomeini svolse questo compito sovrumano mantenendo uno studiato silenzio su questioni controverse come la democrazia, la condizione della donna ed il ruolo che il clero sciita avrebbe avuto nella futura Repubblica islamica.
Oggi, lo slogan più popolare dei manifestanti è “Morte al dittatore”, riferito alla Guida Suprema Khamenei (in persiano, “Marg-bur Dik-ta-tor” suona bene). Eppure questo non è certamente ciò che vogliono, né Moussavi né Karroubi.
Sul suo sito web, Moussavi ha recentemente chiesto la liberazione di tutti i prigionieri politici e la modifica della legge elettorale, assieme all’applicazione della libertà di espressione, di assemblea, e della libertà di stampa, come indicato nella Costituzione iraniana. In breve, egli vuole riformare il sistema attuale, non sovvertirlo.
Allo stato attuale delle cose esiste un organo costituzionale che consente la rimozione della Guida suprema. L’Assemblea degli Esperti, composta da 86 membri eletti dal popolo, ha il potere di nominare o licenziare la Guida. Questa assemblea è presieduta da Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. E' stato uno stretto collaboratore dell’ayatollah Khomeini, e per questo le sue credenziali rivoluzionarie sono pari a quelle di Ali Khamenei.
Rafsanjani ha appoggiato Moussavi nella sua candidatura presidenziale fornendogli fondi e pianificazione strategica. Ora, se egli lo decidesse, potrebbe convocare l’Assemblea degli Esperti per una sessione di emergenza allo scopo di discutere l’attuale crisi causata dalle divisioni nelle alte sfere. Normalmente quest’Assemblea si riunisce solo due volte all’anno. Ma essendo un politico accorto, Rafsanjani dapprima consulterebbe i più importanti membri dell’Assemblea per sondare il terreno. Sembra che egli finora non sia riuscito ad ottenere un appoggio sufficientemente forte per la convocazione di una sessione speciale.
A livello della base, i numerosi blog e siti web di opposizione raramente trattano il quadro complessivo. Essi concentrano la loro attenzione essenzialmente sulla denuncia della repressione brutale e del fatto che a loro detta il regime di Khamenei si è allontanato drasticamente dalle sue radici islamiche e dalle sue promesse rivoluzionarie di giustizia, libertà e indipendenza.
La loro critica, però, copre solo l'aspetto più appariscente della situazione. Non è sufficiente per dedurne che un cambio di regime sia imminente nel paese. Un secondo aspetto complementare dovrebbe precisare alcuni dettagli su come i manifestanti vorrebbero vedere tradotte in pratica le loro istanze di cambiamento. Perlomeno, l’opposizione dovrebbe discutere la questione, cosa che attualmente non sta facendo; oppure potrebbe emulare Moussavi, che ha lasciato cadere la sua precedente richiesta di nuove elezioni presidenziali non più controllate dal ministero degli interni ma da un organismo non-governativo. Questo gesto potrebbe, prima o poi, aprire la strada a un compromesso con il presidente Mahmoud Ahmadinejad, il quale a sua volta potrebbe portare ad un governo di unità nazionale composto dai seguaci dell’attuale presidente e dai leader dell’opposizione.
Una delle principali differenze tra il 1979 e il 2010 è che Internet offre una grande opportunità per un tipo di dibattito che era impensabile fino a un decennio fa. Un aspetto che invece il movimento del 1979 e quello attuale hanno in comune è l’idea di fare un uso politico delle festività religiose sciite, del costume islamico di commemorare una persona deceduta nel 40° giorno della sua scomparsa, nonché dell'idea di martirio così radicata tra gli sciiti. L’ayatollah Khomeini fu un pioniere nell'utilizzo di queste tattiche. Egli usò coerentemente il 40 ° giorno di lutto per i martiri del regime dello scià allo scopo di attirare folle sempre più numerose e sempre più entusiaste per le strade, e usò il mese sacro del Ramadan per caricare la nazione di fervore rivoluzionario.
I tentativi degli attuali leader dell’opposizione di emulare l’esempio di Khomeini non sono riusciti, soprattutto perché dalla loro parte manca un leader religioso della statura di Khomeini.
Khomeini inflisse al regime dello scià un colpo quasi mortale con una sua fatwa, in cui sentenziò che sparare ad un manifestante disarmato era come fare fuoco contro una copia del Corano. La maggior parte dei soldati dello scià, essendo sciiti e militari di leva spesso giovani di leva, accettarono l’interpretazione di Khomeini. Molti di essi avevano già perso la fiducia nei loro comandanti dopo che alcuni impiegati di banca avevano rivelato, nel settembre del 1978, che gli alti ufficiali dell’esercito stavano trasferendo ingenti somme all’estero. Non c’è da meravigliarsi che, quando lo scià lasciò l’Iran nel gennaio 1979, la forza dell’esercito fosse da trecentomila a poco più di centomila uomini, essenzialmente a causa delle diserzioni.
Al contrario di quanto successe allora non ci sono prove, fino a questo momento, del fatto che le forze di sicurezza dell’attuale regime –il pesantemente indottrinato Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, la milizia Basij, o la polizia armata– mostrino segni di cedimento quando viene ordinato loro di disperdere le manifestazioni con la forza. Da parte sua, il regime, consapevole del pericolo di creare martiri e dei precedenti storici che esistono in questo senso, ha avuto cura di fare un uso minimo delle armi da fuoco nel disperdere le folle dei manifestanti.
Nei 12 mesi del movimento rivoluzionario che si protrasse dal 1978 al 1979, l’uso indiscriminato delle armi da fuoco da parte del regime dello scià provocò tra le diecimila vittime –secondo le statistiche governative– e le quarantamila –secondo i dati dell’opposizione. Nei sei mesi della protesta di strada attuale, il totale delle vittime è, secondo l’opposizione, di centosei persone.
Il fattore del nazionalismo
Se questa interpretazione della situazione attuale in Iran si è concentrata esclusivamente sulle dinamiche politiche interne, ciò non significa che le forze esterne siano prive d'importanza. Considerata la rilevanza geo-strategica dell’Iran nella regione e nel mondo, ogni eventuale mossa da parte di governi occidentali meno che amichevoli nei confronti di Teheran è destinata a modificare la situazione interna in modo drammatico.
Se, ad esempio, le potenze occidentali dovessero riuscire ad inasprire le sanzioni economiche contro Teheran attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’opposizione probabilmente porrebbe fine alle proteste e collaborerebbe con il governo di Ahmadinejad per affrontare una comune minaccia nazionale sotto la bandiera del patriottismo. Con una storia orgogliosamente documentata che risale per più di sei millenni indietro nel passato, gli iraniani si sono trasformati in fedeli nazionalisti nell'epoca moderna. Si tratta di un fatto molto semplice, seppure di portata generale, che i leader dell’Occidente non possono permettersi di ignorare.
Dilip Hiro è autore di molti libri sul Medio Oriente, fra cui “The Iranian Labyrinth”; il suo ultimo libro, “After Empire: The Birth of a Multipolar World” (Nation Books) è stato appena pubblicato.