Dicembre 2008. Una nota d'agenzia riporta che Barack Hussein Obama Ikkinchi intende giurare come “Barack Hussein” al momento di insediarsi come presidente.
Il nome di Hussein, o di Husayn secondo la trascrizione qui adoperata, è stato utilizzato dai denigratori di Barack Hussein Obama Ikkinchi per additarlo come “criptomusulmano”, in una campagna elettorale della quale ci siamo completamente disinteressati ma che deve aver prodotto autentiche meraviglie di incultura, in una AmeriKKKa i cui obesi abitanti spesso non sanno neppure dove siano i paesi che il loro governo manda ad aggredire.
Riportiamo qui la sintesi di Riccardo Cristiano di uno scritto di ‘Ali Shari’ati sull’Imam Husayn, intitolato “Il martirio: alzarsi e farsi testimoni”. Nonostante le asserzioni di Shari’ati prestino il fianco a critiche di ogni tipo, il brano è utile per intuire qualcosa sul ruolo fondamentale che la figura di Husayn ha nell’Islam sciita. In una società in cui l’uso di imporre nomi tratti da degenerati serial televisivi o da personaggi mediatici dalla condotta irriferibile non incontra alcun serio moto di disgusto, permette anche di trarre qualche conclusione su quali siano davvero i nomi su cui un individuo che volesse condurre una vita pubblica farebbe sicuramente bene a sorvolare.
L’importanza di Husayn sta nell’essere l’erede della fedeltà ai valori islamici nel momento nel quale la sconfitta è totale, gli Omayyadi hanno vinto su tutta la linea, Maometto è scomparso da circa sessant’anni e già si forma la seconda generazione musulmana, quella che non ha sentito l’Islam predicato dal Profeta o dai suoi compagni, quella che non e stata testimone del loro fervore e di cosa si intendesse quindi per Islam. Ecco che agli occhi di questa nuova generazione l’Islam è divenuto quello plasmato dai dotti della legge, dal cancro dell’autorità religiosa. Questa autorità insegna semplicemente a “lasciare ogni cosa a Dio”, facendosi quindi strumento della diffusione di un’attitudine fatalista ma soprattutto di legittimazione di qualsiasi abuso di governo. Sono passati appena sessanta anni, ma l’eredità rivoluzionaria è già stata dissipata e divorata. Cosa può fare, Husayn, il nipote di Maometto, il figlio di ‘Ali e di Fatima? Può chiudersi nell’ascetismo? O forse considerare che il suo albero genealogico gli assicura il paradiso e mettersi quindi l’anima in pace? No, deve semplicemente incarnare il significato profondo della rivoluzione umanista che è alla base dell’islam e del monoteismo: alzarsi e farsi testimone. Questo è il suo compito, questo è quanto sceglie di fare...
Alcuni sostengono che Husayn partì per Kufa con l’intenzione di promuovere una ribellione. Io non credo che le cose siano andate così. Husayn lasciò Medina e raggiunse La Mecca. Prima di partire fu raggiunto da un messaggio dei rivali degli Omayyadi. Nella città di Kufa [Iraq] sono rimasti preponderanti e organizzati i devoti di ‘Ali: questi lo invitano a raggiungerli, a unirsi a loro. Da Kufa potrebbero muovere alla volta della penisola arabica, trovare nuove alleanze, capovolgere la situazione, sconfiggere gli Omayyadi. Husayn prima di partire si limita a dire: “vado a la Mecca per invitare la gente a fare il bene e proibire il male”. Così parte per La Mecca e va a pregare alla Kab’a. Qui davanti a tutti annuncia di essere stato invitato a Kufa dai fedeli a suo padre ‘Ali e che l’indomani partirà per raggiungerli. Ma non dice “parto per raggiungere i miei fedeli”, o “parto per avviare la mia azione”. Dice: “domani ho deciso di andare incontro alla morte. La morte per i figli di Adamo è fascinosa come una collana intorno al collo di una ragazza giovane e bella”. Un uomo che pensa di combattere non annuncia di andare incontro alla morte. E se vuole combattere non si muove in pieno giorno, senza armi, con una carovana fatti di soli parenti, di figli, di donne. Non dice quello che ha detto in modo che tutti sappiano. Un leader che decide di avviare la rivoluzione contro i governanti non percorre 600 chilometri per arrivare da Medina a la Mecca, dove si trovano tutti gli uomini del potere costituito, con una carovana priva di qualsiasi protezione. E una volta giunto a La Mecca non dice in pubblico “Vado a Kufa, verso la morte. Comincio a muovermi”. Un leader che vuole pilotare la rivolta non si alza davanti ai governanti chiedendo loro di rilasciargli il passaporto per raggiungere i suoi e guidare la rivoluzione. E infatti quando parte lo fa in modo che tutti lo vedano, che tutti sappiano. Husayn non parte di notte, non sceglie strade secondarie, non cerca rifugi. Parte in pieno giorno, esce dalla città seguendo la strada principale. L’imam Husayn non si è arreso né ha posto da parte la politica e la ribellione in nome dell’intelletto, della scienza, della teologia e della moralità. Dunque cosa ha deciso di fare? Ha compreso che i pionieri dell’Islam sono stati uccisi, o messi a tacere, o costretti a vendersi. Le penne sono state rotte. Le lingue tagliate. Le labbra cucite. I pilastri della verità abbattuti e crollati sulle teste dei fedeli. Ha capito che se rimanesse in silenzio l’Islam verrebbe trasformato nella religione dei governanti, in una forza economico-militare e nient’altro: un regime come tanti altri regimi. Un regime basato sulla forza che quando perderà la forza militare sulla quale si basa scomparirà, come altri regimi. Eccolo preso nella morsa. Non può tacere perché il tempo sta passando e il messaggio dell’Islam sta crollando, abolito dalle coscienze e dagli animi della gente. Contemporaneamente non può combattere perché è circondato da regimi oppressivi. E’ solo. E’ un uomo solo, responsabile del futuro di una scuola di pensiero. L’uomo solo è responsabile di opporsi al potere determinante del destino perché la responsabilità deriva dalla consapevolezza e dalla ferie, non dal potere e dalla possibilità. Chi è più consapevole è più responsabile. E qual è la sua responsabilità? Quella di combattere l’eliminazione della verità, dei diritti dei popoli, dell’annichilimento dei valori. Vogliono di nuovo mettere l’uomo in catene, venerare il piacere, la discriminazione, l’accumulo di ricchezze. La responsabilità di resistere a questo tradimento della rivoluzione c’è, ma sta tutte sulle spalle di un uomo solo! Non può tacere né strillare. Non può tacere perché la responsabilità attende l’azione di un uomo solo, non può strillare perché la sua voce verrà soffocata dalle guerre selvagge dei Califfi condotte nel nome del Corano e dell’Islam. Cosa può fare? il fatalista dice “nulla”. Il leader religioso dice che “i Califfi sono compagni del profeta, Dio è il giudice finale, noi non siamo abilitati a porre questioni”. Il fondamentalista dice che “bisogna andare avanti con lo stretto rispetto di tutti i rituali religiosi, di tutti i precetti,” delle complicatissime regole della preghiera. Le personalità religiose asservite al regime osservano che “il sistema islamico di ‘Ali era irrealistico. Aveva preteso di annullare la differenziazione salariale, dando tre dinari al grande ufficiale Othman ibn Hanif come allo schiavo! Non vogliamo dire che ha fallito perché aveva torto, ma che ha fallito perché seguiva un’idea irrealistica”. Ecco che in questi tempi oscuri l’aristocrazia ignorante viene rivitalizzata. Dai minareti si chiama alla profanità. Cesare calza il turbante del Profeta di Dio. Il boia prende la spada del jihad. Il jihad diviene un mezzo per compiere massacri; la preghiera un mezzo per imbrogliare. Le tradizioni del Profeta sono divenute i pilastri del comando. Il Corano è divenuto uno strumento di ignoranza, i detti del Profeta inventati! L’islam si è trasformato nella catena che obbliga alla resa… La religione e il mondo stanno correndo verso la profanità e l’oppressione. Le gole vengono tagliate! La nuova ignoranza è più selvaggia della precedente. Le nazioni sono ridotte in schiavitù come prima. La libertà è incatenata. Il pensiero imprigionato, Le volpi stanno al caldo, i lupi vengono ben nutriti, le lingue o si vendono o vengono zittite con la forza o tagliate con la lama. Husayn, l’erede di Adamo che aveva insegnato come vivere, ci insegna come morire. E’ disarmato, senza potere, solo. Essere Husayn lo obbliga al jihad contro tutto ciò che è corrotto e crudele, lui che non ha armi e non ha strumenti: è venuto con tutta la sua esistenza e la sua famiglia a portare testimonianza del suo essere responsabile della verità quando questa è senza armi e senza difesa. Abilità o inabilità, forza o debolezza, solitudine o folla, tutto ciò determina soltanto il modo con cui ci si accosta alla propria responsabilità. Lui deve combattere. Ma non ha armi. Ciò nonostante è suo dovere combattere. Husayn risponde al comando e lui è il solo a dire “Sì”. Esce dalla casa di Fatima: il successore di Adamo, di Abramo, di Maometto, è un uomo solo. Ma no! C’è una donna con lui, gli cammina affianco. Porta metà del mandato di suo fratello sulle spalle. Il grande maestro del martirio si è alzato per insegnare la verità a coloro che ritengono che jihad sia solo capacità di vincere e conquistare...
Il martirio è una scelta, è il proprio sacrificio sulla soglia della libertà e dell’amore, ed è vittorioso. Il martirio è una scelta consapevole. Se non si può vincere il nemico si può infondere nuova linfa vitale nelle vene di chi ha accettato di vivere in silenzio. Lui è un uomo solo, senza poteri e senza armi. Ma è pur sempre responsabile per il jihad. Pian piano ci svela il suo piano: parte, tiene con sé un gruppo selezionato di compagni e la sua famiglia. È tutto ciò che possiede in questo mondo e li conduce all’altare del martirio. Il destino della fede, il destino della libertà dell’uomo che è finito in condizioni peggiori di quelle dell’ “Era dell’ignoranza” attende questa azione. Avrete sentito dire che in occasione della battaglia di Ashura, nel decimo giorno del mese di Moharram, l’Imam Husayn prende il sangue che zampilla dalla gola di suo figlio, Alsghar, lo prende nelle sue mani e lo lancia verso il cielo dicendo, “Guarda! Accetta questo sacrificio da me. Sii mio testimone, mio Dio!” E’ in questo momento che morire per un essere umano vuoi dire garantire vita ad una nazione. Il suo martirio è uno strumento attraverso il quale la fede rimane. È la testimonianza che la tirannia, l’oppressione e il crimine hanno preso il potere, i valori sono distrutti e dimenticati. Il martirio è rendersi testimoni davanti a chi vuole rimanere nascosto nei meandri della storia. “Essere umani” vuol dire restare in piedi sulla soglia del declino e davanti al pericolo di perire per sempre. Husayn ha scelto il martirio perché attraverso il sacrificio della vita rimanga vivo l’Islam. In tutte le epoche e in tutti i secoli, quando i seguaci di una fede e di un’idea hanno potere loro garantiscono il loro onore e la loro vita con il jihad. Ma quando sono deboli e non hanno strumenti per combattere, allora garantiscono la loro vita, fede, il loro onore, il futuro e la storia con il martirio. Il martirio è un invito a tutte le generazioni di tutti i tempi; quando non possono uccidere, muoiano.
Il nome di Hussein, o di Husayn secondo la trascrizione qui adoperata, è stato utilizzato dai denigratori di Barack Hussein Obama Ikkinchi per additarlo come “criptomusulmano”, in una campagna elettorale della quale ci siamo completamente disinteressati ma che deve aver prodotto autentiche meraviglie di incultura, in una AmeriKKKa i cui obesi abitanti spesso non sanno neppure dove siano i paesi che il loro governo manda ad aggredire.
Riportiamo qui la sintesi di Riccardo Cristiano di uno scritto di ‘Ali Shari’ati sull’Imam Husayn, intitolato “Il martirio: alzarsi e farsi testimoni”. Nonostante le asserzioni di Shari’ati prestino il fianco a critiche di ogni tipo, il brano è utile per intuire qualcosa sul ruolo fondamentale che la figura di Husayn ha nell’Islam sciita. In una società in cui l’uso di imporre nomi tratti da degenerati serial televisivi o da personaggi mediatici dalla condotta irriferibile non incontra alcun serio moto di disgusto, permette anche di trarre qualche conclusione su quali siano davvero i nomi su cui un individuo che volesse condurre una vita pubblica farebbe sicuramente bene a sorvolare.
L’importanza di Husayn sta nell’essere l’erede della fedeltà ai valori islamici nel momento nel quale la sconfitta è totale, gli Omayyadi hanno vinto su tutta la linea, Maometto è scomparso da circa sessant’anni e già si forma la seconda generazione musulmana, quella che non ha sentito l’Islam predicato dal Profeta o dai suoi compagni, quella che non e stata testimone del loro fervore e di cosa si intendesse quindi per Islam. Ecco che agli occhi di questa nuova generazione l’Islam è divenuto quello plasmato dai dotti della legge, dal cancro dell’autorità religiosa. Questa autorità insegna semplicemente a “lasciare ogni cosa a Dio”, facendosi quindi strumento della diffusione di un’attitudine fatalista ma soprattutto di legittimazione di qualsiasi abuso di governo. Sono passati appena sessanta anni, ma l’eredità rivoluzionaria è già stata dissipata e divorata. Cosa può fare, Husayn, il nipote di Maometto, il figlio di ‘Ali e di Fatima? Può chiudersi nell’ascetismo? O forse considerare che il suo albero genealogico gli assicura il paradiso e mettersi quindi l’anima in pace? No, deve semplicemente incarnare il significato profondo della rivoluzione umanista che è alla base dell’islam e del monoteismo: alzarsi e farsi testimone. Questo è il suo compito, questo è quanto sceglie di fare...
Alcuni sostengono che Husayn partì per Kufa con l’intenzione di promuovere una ribellione. Io non credo che le cose siano andate così. Husayn lasciò Medina e raggiunse La Mecca. Prima di partire fu raggiunto da un messaggio dei rivali degli Omayyadi. Nella città di Kufa [Iraq] sono rimasti preponderanti e organizzati i devoti di ‘Ali: questi lo invitano a raggiungerli, a unirsi a loro. Da Kufa potrebbero muovere alla volta della penisola arabica, trovare nuove alleanze, capovolgere la situazione, sconfiggere gli Omayyadi. Husayn prima di partire si limita a dire: “vado a la Mecca per invitare la gente a fare il bene e proibire il male”. Così parte per La Mecca e va a pregare alla Kab’a. Qui davanti a tutti annuncia di essere stato invitato a Kufa dai fedeli a suo padre ‘Ali e che l’indomani partirà per raggiungerli. Ma non dice “parto per raggiungere i miei fedeli”, o “parto per avviare la mia azione”. Dice: “domani ho deciso di andare incontro alla morte. La morte per i figli di Adamo è fascinosa come una collana intorno al collo di una ragazza giovane e bella”. Un uomo che pensa di combattere non annuncia di andare incontro alla morte. E se vuole combattere non si muove in pieno giorno, senza armi, con una carovana fatti di soli parenti, di figli, di donne. Non dice quello che ha detto in modo che tutti sappiano. Un leader che decide di avviare la rivoluzione contro i governanti non percorre 600 chilometri per arrivare da Medina a la Mecca, dove si trovano tutti gli uomini del potere costituito, con una carovana priva di qualsiasi protezione. E una volta giunto a La Mecca non dice in pubblico “Vado a Kufa, verso la morte. Comincio a muovermi”. Un leader che vuole pilotare la rivolta non si alza davanti ai governanti chiedendo loro di rilasciargli il passaporto per raggiungere i suoi e guidare la rivoluzione. E infatti quando parte lo fa in modo che tutti lo vedano, che tutti sappiano. Husayn non parte di notte, non sceglie strade secondarie, non cerca rifugi. Parte in pieno giorno, esce dalla città seguendo la strada principale. L’imam Husayn non si è arreso né ha posto da parte la politica e la ribellione in nome dell’intelletto, della scienza, della teologia e della moralità. Dunque cosa ha deciso di fare? Ha compreso che i pionieri dell’Islam sono stati uccisi, o messi a tacere, o costretti a vendersi. Le penne sono state rotte. Le lingue tagliate. Le labbra cucite. I pilastri della verità abbattuti e crollati sulle teste dei fedeli. Ha capito che se rimanesse in silenzio l’Islam verrebbe trasformato nella religione dei governanti, in una forza economico-militare e nient’altro: un regime come tanti altri regimi. Un regime basato sulla forza che quando perderà la forza militare sulla quale si basa scomparirà, come altri regimi. Eccolo preso nella morsa. Non può tacere perché il tempo sta passando e il messaggio dell’Islam sta crollando, abolito dalle coscienze e dagli animi della gente. Contemporaneamente non può combattere perché è circondato da regimi oppressivi. E’ solo. E’ un uomo solo, responsabile del futuro di una scuola di pensiero. L’uomo solo è responsabile di opporsi al potere determinante del destino perché la responsabilità deriva dalla consapevolezza e dalla ferie, non dal potere e dalla possibilità. Chi è più consapevole è più responsabile. E qual è la sua responsabilità? Quella di combattere l’eliminazione della verità, dei diritti dei popoli, dell’annichilimento dei valori. Vogliono di nuovo mettere l’uomo in catene, venerare il piacere, la discriminazione, l’accumulo di ricchezze. La responsabilità di resistere a questo tradimento della rivoluzione c’è, ma sta tutte sulle spalle di un uomo solo! Non può tacere né strillare. Non può tacere perché la responsabilità attende l’azione di un uomo solo, non può strillare perché la sua voce verrà soffocata dalle guerre selvagge dei Califfi condotte nel nome del Corano e dell’Islam. Cosa può fare? il fatalista dice “nulla”. Il leader religioso dice che “i Califfi sono compagni del profeta, Dio è il giudice finale, noi non siamo abilitati a porre questioni”. Il fondamentalista dice che “bisogna andare avanti con lo stretto rispetto di tutti i rituali religiosi, di tutti i precetti,” delle complicatissime regole della preghiera. Le personalità religiose asservite al regime osservano che “il sistema islamico di ‘Ali era irrealistico. Aveva preteso di annullare la differenziazione salariale, dando tre dinari al grande ufficiale Othman ibn Hanif come allo schiavo! Non vogliamo dire che ha fallito perché aveva torto, ma che ha fallito perché seguiva un’idea irrealistica”. Ecco che in questi tempi oscuri l’aristocrazia ignorante viene rivitalizzata. Dai minareti si chiama alla profanità. Cesare calza il turbante del Profeta di Dio. Il boia prende la spada del jihad. Il jihad diviene un mezzo per compiere massacri; la preghiera un mezzo per imbrogliare. Le tradizioni del Profeta sono divenute i pilastri del comando. Il Corano è divenuto uno strumento di ignoranza, i detti del Profeta inventati! L’islam si è trasformato nella catena che obbliga alla resa… La religione e il mondo stanno correndo verso la profanità e l’oppressione. Le gole vengono tagliate! La nuova ignoranza è più selvaggia della precedente. Le nazioni sono ridotte in schiavitù come prima. La libertà è incatenata. Il pensiero imprigionato, Le volpi stanno al caldo, i lupi vengono ben nutriti, le lingue o si vendono o vengono zittite con la forza o tagliate con la lama. Husayn, l’erede di Adamo che aveva insegnato come vivere, ci insegna come morire. E’ disarmato, senza potere, solo. Essere Husayn lo obbliga al jihad contro tutto ciò che è corrotto e crudele, lui che non ha armi e non ha strumenti: è venuto con tutta la sua esistenza e la sua famiglia a portare testimonianza del suo essere responsabile della verità quando questa è senza armi e senza difesa. Abilità o inabilità, forza o debolezza, solitudine o folla, tutto ciò determina soltanto il modo con cui ci si accosta alla propria responsabilità. Lui deve combattere. Ma non ha armi. Ciò nonostante è suo dovere combattere. Husayn risponde al comando e lui è il solo a dire “Sì”. Esce dalla casa di Fatima: il successore di Adamo, di Abramo, di Maometto, è un uomo solo. Ma no! C’è una donna con lui, gli cammina affianco. Porta metà del mandato di suo fratello sulle spalle. Il grande maestro del martirio si è alzato per insegnare la verità a coloro che ritengono che jihad sia solo capacità di vincere e conquistare...
Il martirio è una scelta, è il proprio sacrificio sulla soglia della libertà e dell’amore, ed è vittorioso. Il martirio è una scelta consapevole. Se non si può vincere il nemico si può infondere nuova linfa vitale nelle vene di chi ha accettato di vivere in silenzio. Lui è un uomo solo, senza poteri e senza armi. Ma è pur sempre responsabile per il jihad. Pian piano ci svela il suo piano: parte, tiene con sé un gruppo selezionato di compagni e la sua famiglia. È tutto ciò che possiede in questo mondo e li conduce all’altare del martirio. Il destino della fede, il destino della libertà dell’uomo che è finito in condizioni peggiori di quelle dell’ “Era dell’ignoranza” attende questa azione. Avrete sentito dire che in occasione della battaglia di Ashura, nel decimo giorno del mese di Moharram, l’Imam Husayn prende il sangue che zampilla dalla gola di suo figlio, Alsghar, lo prende nelle sue mani e lo lancia verso il cielo dicendo, “Guarda! Accetta questo sacrificio da me. Sii mio testimone, mio Dio!” E’ in questo momento che morire per un essere umano vuoi dire garantire vita ad una nazione. Il suo martirio è uno strumento attraverso il quale la fede rimane. È la testimonianza che la tirannia, l’oppressione e il crimine hanno preso il potere, i valori sono distrutti e dimenticati. Il martirio è rendersi testimoni davanti a chi vuole rimanere nascosto nei meandri della storia. “Essere umani” vuol dire restare in piedi sulla soglia del declino e davanti al pericolo di perire per sempre. Husayn ha scelto il martirio perché attraverso il sacrificio della vita rimanga vivo l’Islam. In tutte le epoche e in tutti i secoli, quando i seguaci di una fede e di un’idea hanno potere loro garantiscono il loro onore e la loro vita con il jihad. Ma quando sono deboli e non hanno strumenti per combattere, allora garantiscono la loro vita, fede, il loro onore, il futuro e la storia con il martirio. Il martirio è un invito a tutte le generazioni di tutti i tempi; quando non possono uccidere, muoiano.