Traduzione da Strategic Culture, 16 settembre 2024.
Lo stato sionista sta entrando nella fase successiva della sua guerra contro la Palestina con il completamento del controllo sulla Striscia di Gaza dal confine settentrionale fino al corridoio di Netzarim. È probabile che l'intenzione sia quella di rendere quest'area gradualmente disponibile per l'insediamento ebraico e l'annessione allo stato sionista.
In un articolo intitolato "Annessione, espulsione e insediamenti sionisti: Netanyahu si prepara alla prossima fase della guerra di Gaza" il direttore di Haaretz Aluf Benn scrive che se l'annessione dovesse procedere, "i residenti palestinesi che rimangono nel nord di Gaza saranno espulsi, come suggerito dal Maggiore Generale della riserva Giora Eiland, sotto la minaccia di morire di fame e con la scusa che è 'per il loro bene'". Netanyahu e i suoi sostenitori, sostiene Benn, considereranno questa iniziativa come il raggiungimento dello scopo della loro vita: espandere ancora una volta il territorio dello stato sionista, dopo cinquant'anni di ritiri. Sarà questa la "risposta sionista" della destra al 7 ottobre.
Questo straordinario cambiamento è stato reso possibile non solo dalle operazioni militari, ma da un tratto di penna: la nomina del Colonnello Elad Goren a capo del settore umanitario-civile a Gaza, cosa che di fatto lo rende "Governatore di Gaza" per i prossimi anni.
I media mainstream occidentali posto meno enfasi su una dura realtà. Nel corso dei venti mesi in cui l'attuale governo sionista è stato al potere, Ben Gvir ha armato un movimento di vigilantes formato da diecimila coloni che ha terrorizzato i palestinesi in Cisgiordania. La polizia nei territori occupati risponde già all'autorità di Ben Gvir.
Questa valutazione trascura un altro dato di fatto. Mentre Ben Gvir ha messo insieme questo "nuovo esercito dello Stato di Giudea", il Ministro delle Finanze Smotrich che dirige l'Amministrazione dei Territori ha rivoluzionato la situazione dei coloni ebrei e dei palestinesi in Cisgiordania. L'autorità in Cisgiordania è stata affidata a un movimento messianico chiuso e di destra, che risponde solo a Smotrich stesso. Smotrich è diventato il governatore della Cisgiordania in tutto e per tutto.
In quella che Nahum Barnea descrive come una manovra a tenaglia messa furtivamente in atto da Smotrich, un braccio del potere è costituito dalla sua autorità di ministro delle Finanze; il secondo consiste nel potere che gli è stato delegato in qualità di secondo al comando al Ministero della Difesa. L'obiettivo di Smotrich e del governo sionista era stato esposto dallo stesso Smotrich nel Decisive Plan del 2017 e non è cambiato: indurre il collasso dell'Autorità palestinese, impedire la creazione di uno Stato palestinese e dare ai sette milioni di palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo la possibilità di scegliere tra morire combattendo, emigrare altrove o vivere in condizioni di perenne subalternità in un grande Stato sionista.
Senza dubbio, il Decisive Plan contro i palestinesi è ben avviato: si terrorizzano gli abitanti della Cisgiordania affinché abbandonino la loro terra, si distruggono le infrastrutture sociali in Cisgiordania come a Gaza e, come a Gaza, si applica una dura pressione finanziaria sulla società palestinese.
I termini indefiniti di Netanyahu sul probabile futuro di Gaza non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni. I palestinesi del nord di Gaza subiranno il destino degli armeni del Nagorno Karabakh: Un anno fa l'Azerbaigian li ha sbrigativamente espulsi dalla regione da un giorno all'altro. Il mondo se n'è accorto e ha semplicemente "voltato pagina" come previsto nella concezione della storia prevalente nello stato sionista. Netanyahu ha preferito mantenersi ai livelli di una "piccola bugia" sul futuro di Gaza, piuttosto che dire chiara e forte una grande verità.
Con la dichiarazione rilasciata alla Fox News statunitense per cui "nessun accordo per il rilascio degli ostaggi da Gaza è in via di definizione, né è prossimo ad essere siglato" e la relativa aggiunta che qualsiasi sensazione ottimista (per lo più proveniente da Washington) altro non era che una narrativa fallace, Netanyahu ha effettivamente lanciato la prossima fase della guerra dello stato sionista: l'azione militare nel nord, volta a creare le condizioni per il ritorno dei residenti sfollati. Questi tre elementi -nord di Gaza, Cisgiordania e Libano- sono collegati tra loro. Anzi, sono interconnessi.
In assenza di un accordo diplomatico che preveda che Hezbollah si allontani dalla regione di confine e non vi rientri più, lo stato sionista per forza di logica ha solo due opzioni: un cessate il fuoco a Gaza che potrebbe pacificare il confine settentrionale, o un'escalation deliberata nel nord, con tutte le sue potenziali conseguenze.
L'idea di poter convincere Hezbollah ad allontanarsi dai confini libanesi è sempre stata un'utopia. Le prospettive di un accordo su Gaza, dicono ora i mediatori, sono "prossime allo zero". Ecco che l'attenzione dello stato sionista si è rivolta a nord.
Il generale Gantz, presidente del partito di opposizione National Unity, ha presenziato a Washington al summit Middle East America Dialogue (MEAD). Da critico nei confronti del governo di Netanyahu, è sembrato comunque rassegnato all'inevitabile: "Hamas è roba vecchia", ha detto. "Il vero problema sono l'Iran, i suoi agenti di prossimità in tutto il Medio Oriente e quello che stanno cercando di fare... I militari dovrebbero spostare la loro attenzione da Gaza al Libano". "Su questo siamo in ritardo", ha aggiunto. "È arrivato il momento di passare all'azione a nord".
Il generale Kurilla, comandante delle forze statunitensi nella regione, è arrivato a metà settembre nello stato sionista per la sua seconda visita in una settimana, allo scopo di completare "il coordinamento con le forze armate dello stato sionista in previsione di qualsiasi possibile attacco di rappresaglia iraniano e di Hezbollah".
Washington, sebbene impegnata a sostenere lo stato sionista in qualsiasi conflitto con l'Iran o con Hezbollah, è comunque preoccupata. Nei giorni scorsi alti funzionari statunitensi hanno espresso il timore che una guerra su larga scala contro Hezbollah possa causare ingenti danni al fronte interno dello stato sionista, soprattutto se l'Iran e altri membri dell'Asse della Resistenza dovessero intervenire.
L'acquisizione da parte dell'Iran di armamenti russi di tipo avanzato ha complicato notevolmente il quadro per gli Stati Uniti: potrebbe rivelarsi una svolta, se si considera anche la scorta di missili progrediti di cui il paese dispone. C'è stata una rivoluzione, nella guerra contemporanea. Il dominio aereo occidentale è stato messo sotto scacco. Gli Stati Uniti si sono -incautamente- impegnati in qualsiasi conflitto che si estenda al Libano e all'Iran. Questo, di per sé, potrebbe minacciare le prospettive elettorali di Kamala Harris mentre monta la rabbia tra gli elettori musulmani nei principali Stati degli USA.
A Washington la sensazione che Netanyahu vorrebbe danneggiare Biden-Harris e far vincere le elezioni a Trump è qualcosa di più di un sospetto.
Il piano di Grande Vittoria di Netanyahu per liberare la Grande Israele dai palestinesi sta diventando realtà, ma schiacciare Hezbollah resta un obiettivo fuori portata. Tutte queste "vittorie" sono un qualcosa di realizzabile, anche alla lontana? No. Rischiano piuttosto di far collassare lo stato sionista, come hanno chiarito autorevoli commentatori come il Maggiore Generale Brick. È tuttavia possibile che Netanyahu cerchi di arrivarci. Lo spirito kahanista continua a vivere ed è oggi quello prevalente nello stato sionista.
Questa prospettiva getta la cupa ombra di un enorme uccello del malaugurio, volteggiante nei cieli mediorientali per i mesi che mancano alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
Anche la guerra in Ucraina è foriera di sgradevoli e inattese sorprese in attesa di rivelarsi.
Questa settimana il Presidente Putin, in occasione del Forum Economico Orientale di Vladivostok, ha suggerito che anche la guerra in Ucraina si trovi ad un punto di svolta proprio come quella in Medio Oriente. La Russia ha cambiato le carte in tavola con gli Stati Uniti grazie alla sua reazione contro l'incursione di Kursk.
Le forze russe hanno capito quanto fosse folle da parte degli ucraini schierare le loro brigate e i loro preziosi mezzi corazzati occidentali in un cul-de-sac boscoso e poco popolato e si sono accontentate di dedicarsi a un rilassante tiro al tacchino.
Mosca non ha abboccato all'amo e non ha ridotto le riserve russe sul fronte del Donbass per schierarle a Kursk. Putin ha chiarito con tranquilla sicurezza a Vladivostok che Zelensky "non ha ottenuto nulla dall'offensiva di Kursk. Le forze russe hanno stabilizzato la situazione a Kursk e hanno iniziato a respingere il nemico dai territori di confine, mentre l'offensiva nel Donbass ha ottenuto impressionanti guadagni territoriali".
Per l'esattezza Putin ha dichiarato che il nemico sta subendo perdite molto pesanti, sia in termini di uomini che di materiali. Questa situazione, ha sottolineato, potrebbe portare al collasso del fronte nelle aree più critiche e alla totale perdita della capacità operativa di tutte le sue forze armate.
Putin può anche continuare a dire, come sempre, che è aperto al dialogo; ma le ultime parole della frase sono state inequivocabili. Il crollo è "ciò a cui miravamo"; l'obiettivo era la completa perdita delle capacità offensive delle forze armate ucraine. Queste sono le parole fondamentali.
Se ne può dedurre che dal completo collasso delle capacità operative si produrrebbe quasi sicuramente lo sfascio di un edificio politico che si regge esclusivamente sulle predette capacità militari, e non su una qualche legittimità politica.
Ciò che Mosca non può prevedere è come, o in quale forma, tale sfascio possa verificarsi.
Le strutture politiche di Kiev continueranno probabilmente a trascinarsi come zombie, anche se private della loro ragion d'essere, finché l'amministrazione Biden riuscirà a gestirne l'esistenza pur di salvare la faccia fino alle elezioni.
Il Presidente Putin può anche parlare di mediazioni, ma Mosca sa bene che l'apparato del potere a Kiev è stato messo in piedi dal bacino degli antislavi razzisti, proprio per bloccare qualsiasi accordo con Mosca. Qualsiasi mediazione è destinata a fallire; questo era fin dall'inizio lo scopo di Washington, quando ha dato potere al blocco ispirato da Stepan Bandera.
Se le strutture politiche di Kiev venissero meno, verrebbe probabilmente meno anche la necessità di un qualsiasi potenziale mediatore.
In parole povere una nuova amministrazione debitamente ripulita a Kiev concluderebbe con ogni probabilità che sul fronte militare non ha altra scelta che la capitolazione, in cui offrire una neutralità formale e dei limiti alla futura ricostruzione delle proprie forze armate. E Mosca è in grado di discuterne con gli ucraini senza ricorrere a mediatori esterni.
Naturalmente si leverà un intero coro a ricordare che gli Stati Uniti non potranno permettere il completo collasso delle capacità militari dell'Ucraina. In considerazione delle elezioni di novembre, detto retoricamente, è abbastanza vero. Ecco perché Putin non abbandona la narrativa sulla mediazione.
C'è il vertice dei BRICS in Russia a fine ottobre da gestire. L'Occidente insisterà fino all'ultimo sulla mediazione, per tenere in vita il più a lungo possibile l'attuale regime russofobico di Kiev e per far sì che alcuni partecipanti ai BRICS considerino innanzitutto l'idea di un congelamento del conflitto. Solo che la proposta di congelare il conflitto è una trappola che servirebbe a gettare le basi di una futura piattaforma per esercitare pressioni sulla Russia.
I capi dei servizi segreti statunitensi e britannici possono anche baloccarsi con l'idea di colpire in profondità la Russia con gli ATACMS, ma il ricorso a misure esplicitamente tese a terrorizzare la popolazione civile russa e a minare la popolarità di Putin serve più che altro a sottolineare il fallimento strategico occidentale. Ancora una volta l'Occidente non è riuscito a mettere in piedi una forza militare credibile al punto di colpire con efficacia il suo obiettivo, anche se lo ritraeva a tinte demoniache.
La guerra è persa, e l'impegno profuso per fare finta che non sia così mostra segni di logoramento lasciando intendere a tutti come stanno davvero le cose.