Traduzione da Strategic Culture, 13 maggio 2024.
Le condizioni fondamentali di Hamas per il rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza erano due: la completa cessazione delle ostilità e il ritiro completo di tutte le forze sioniste.
La posizione di Netanyahu era che, a prescindere dalla sorte degli ostaggi, le forze sioniste sarebbero tornate a Gaza e che la guerra sarebbe potuta continuare per dieci anni.
Le parole di Netanyahu sono state le più delicate nella politica sionista, che si è polarizzata intorno ad esse. La permanenza in carica o la caduta del governo sionista potrebbero dipendere da quelle parole: la destra aveva detto che avrebbe lasciato il governo se non fosse stata autorizzata l'invasione di Rafah; la posizione di Biden tuttavia è stata comunicata a Netanyahu per telefono non come un "andateci piano a Rafah", ma proprio come "a Rafah no assolutamente".
Poi queste espressioni esplosive -cessazione delle operazioni militari e ritiro completo dello stato sionista- hanno fatto capolino nel testo finale concordato dai mediatori al Cairo e successivamente a Doha lunedì 6 maggio, cogliendo lo stato sionista di sorpresa. Il capo della CIA Bill Burns aveva rappresentato gli Stati Uniti in entrambe le sessioni, mentre lo stato sionista aveva scelto di non inviare una squadra di negoziatori.
Varie fonti sioniste confermano che gli statunitensi non hanno fornito alcuna anticipazione su ciò che stava per accadere: Hamas ha annunciato l'accordo bomba, Gaza è esplosa in festeggiamenti per la vittoria mentre grandi manifestazioni di massa hanno preso d'assedio il governo di Gerusalemme, chiedendo l'accettazione delle condizioni di Hamas. C'era tensione. Le manifestazioni di massa facevano quasi pensare che incombesse una guerra civile.
Il governo sionista sostiene di essere stato fregato dagli statunitensi, cioè da Bill Burns. E le cose sono davvero andate così. Ma a quale scopo? Biden era stato categorico sul fatto che un'incursione a Rafah non avrebbe dovuto esserci. È stato questo il punto di appoggio di cui Burns si è servito per raggiungere tale obiettivo? Ha forse fatto ricorso a un qualche stratagemma nelle trattative inserendo nel testo le espressioni che costituivano il limite non negoziabile senza informarne Tel Aviv, per ottenere il sì di Hamas? O forse era sua intenzione provocare una crisi di governo nello stato sionista? Sulla questione di Gaza ha seguito una linea che ha imposto una pesantissima ipoteca elettorale al Partito Democratico.
In ogni caso -dopo l'annuncio bomba di Hamas- le forze armate sioniste ci sono davvero andate leggere a Rafah, occupando il corridoio disabitato di Philadelphia (in violazione degli accordi di Camp David), subendo poche perdite ma mantenendo intatto il governo di Netanyahu.
Forse il piccolo inganno per strappare l'assenso di Hamas è stato considerato come uno stratagemma intelligente a Washington, ma le sue conseguenze sono incerte: Netanyahu e la destra nutriranno entrambi oscuri sospetti sul ruolo degli Stati Uniti. Washington si è comportata, a loro avviso, come un avversario. Forse questo episodio renderà la destra più determinata e meno pronta al compromesso?
In questo contesto diventa importante la spaccatura fondamentale che esiste nella politica sionista di oggi. Poco più della metà dei cittadini sionisti (il 54%) ritiene legittimi i paragoni tra l'olocausto e gli eventi del 7 ottobre. E possiamo constatare che la confusione tra Hamas e il partito nazista è sempre più comune tra i leader dello stato sionista come tra quelli statunitensi: Netanyahu che descrive Hamas come "i nuovi nazisti".
Che si sia d'accordo o meno, quello che emerge da una simile categorizzazione è che la maggioranza dei cittadini dello stato sionista è preoccupato per la propria esistenza e teme che la tempesta che si sta addensando intorno a loro sia l'inizio di un "nuovo olocausto". Il che a sua volta implica che un di per sé amorfo "Mai più" si precisi nell'imperativo binario di uccidere o di essere uccisi. Imperativo che può rifarsi ai testi biblici, a pro di una convalida talmudica. Comprendere questo significa capire perché quelle poche parole inserite nella proposta negoziale hanno avuto un esito tanto dirompente. Esse implicavano -secondo la metà dei cittadini sionisti- che non avrebbero avuto altra scelta che "vivere" o "morire" sotto la minaccia di un nuovo olocausto, con Hamas predominante a Gaza e Hezbollah nel nord.
La restante parte della pubblica opinione è meno apocalittica: crede che un ritorno all'occupazione e allo status quo ante potrebbe essere possibile, soprattutto se gli Stati Uniti e lo stato sionista riuscissero a persuadere i paesi arabi a eliminare Hamas da Gaza e ad accettare di fare da polizia in una Striscia demilitarizzata e deradicalizzata.
Da un punto di vista cinico, forse la pratica di "falciare il prato" (così vengono eufemisticamente chiamate le periodiche incursioni delle forze armate sioniste per uccidere i militanti) agli occhi dei cittadini sionisti potrebbe essere meno spaventosa della prospettiva di dover combattere una guerra per la propria esistenza. In questo contesto, il 7 ottobre verrebbe visto come un lavoro di falciatura fuori dall'ordinario, ma non come qualcosa che impone mutamenti più radicali al proprio stile di vita.
Il fatto che i rappresentanti di questa corrente nel governo di guerra non si siano dimessi quando hanno appreso del successivo rifiuto di Netanyahu alla proposta di Hamas potrebbe essere collegato al fatto che la normalizzazione dei rapporti fra Arabia Saudita e stato sionista non è ora in prospettiva. E questa normalizzazione sarebbe il punto di partenza per un ritorno allo status quo ante.
Tutto questo mette in discussione le motivazioni dei membri del governo che chiedono l'accettazione delle condizioni di Hamas. L'empatia per le famiglie degli ostaggi è certamente comprensibile, ma essa non affronta le crisi di fondo, al di là del un pio desiderio di unire il mondo arabo in un fronte contro l'Iran e di togliere lo stato sionista dalle incertezze dell'occupazione.
Questo potrebbe consolare una Casa Bianca alle prese con i problemi elettorali, ma non è certo una strategia sostenibile.
La notizia bomba dell'accordo con Hamas ha probabilmente alimentato altri due fattori che stanno determinando il clima dell'opinione pubblica nello stato sionista. Netanyahu è noto per le previsioni politiche; ha sentito il vento e si rende conto, dice, che l'elettorato sionista sta scivolando verso destra. È sempre più sicuro di poter vincere le prossime elezioni politiche.
Il primo fattore è rappresentato dalle proteste studentesche che si stanno svolgendo in tutto l'Occidente. Il secondo è il pericolo che la Corte penale internazionale possa emettere mandati di arresto contro il premier e altri leader di spicco.
David Horovitz, direttore del Times of Israel, scrive che
l'obiettivo di fondo degli accampamenti e dei cortei alla Columbia, a Yale, all'Università di New York e negli altri campus è quello di rendere lo stato sionista indifendibile -in entrambi i sensi della parola- e quindi di privare lo stato sionista dei mezzi diplomatici e militari necessari a sopravvivere agli sforzi che l'Iran, i suoi alleati e i suoi combattenti di prossimità stanno facendo per distruggerlo. Alla base di questa strategia c'è, naturalmente, un odio dei più antichi.
In altre parole, Horovitz considera la maggioranza degli studenti che hanno protestato non tanto animati da umano senso di empatia per le condizioni degli abitanti di Gaza, ma come gli autori di una forma morbida di olocausto. Horovitz conclude che "se i paesi nemici, gli eserciti terroristi e i loro fiancheggiatori avranno ragione dello stato sionista, andranno a caccia di ebrei ovunque".
L'ultimo elemento riguarda il presunto mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale. Netanyahu ha un ego enorme, forse più della maggior parte dei politici; eppure non c'è dubbio che, nonostante la rabbia nei suoi confronti per gli errori del 7 ottobre, egli sia indiscutibilmente il portabandiera di quella parte dell'elettorato che crede, come Horovitz, che lo stato sionista stia vedendosela con uno sforzo concertato e diretto alla sua distruzione.
Il mandato d'arresto, quindi, viene percepito non solo come un attacco a un singolo individuo, ma piuttosto come parte di quello che Horovitz considera un più ampio sforzo di delegittimare lo stato sionista e di privarlo degli strumenti diplomatici che gli sono necessari per difendersi.
Inutile aggiungere che l'opinione del resto del mondo non è questa. Tutto questo serve a sottolineare quanto l'opinione pubblica nello stato sionista si stia ripiegando su se stessa e stia diventando preda del proprio isolamento e dei propri timori. Sono segnali di allarme, questi. Le persone disperate commettono gesti disperati.
La realtà è che lo stato sionista ha tentato di fondare un'impresa coloniale fuori tempo massimo su terre dove si trovava una popolazione indigena. La prima fase della rivolta contro il colonialismo è scoppiata nel secondo dopoguerra. Ora stiamo vivendo la seconda fase, quella del sentimento anticoloniale radicale globale, di cui i BRICS sono la manifestazione strategica, e che oggi prende di mira il colonialismo finanziarizzato che si presenta come "Ordine basato sulla supremazia statunitense".
I cittadini dello stato sionista appendono abitualmente due bandiere in occasioni speciali: La bandiera dello stato sionista e, accanto ad essa, la bandiera statunitense. "Anche noi siamo statunitensi: siamo il 51° Stato", direbbero. "No", dicono le giovani generazioni statunitensi di oggi: "Noi non abbiamo nulla da spartire con chi si rende sospetto di genocidio contro un popolo nativo".
Non c'è da stupirsi se alcune élite al potere cercano disperatamente di mettere al bando le narrazioni critiche. Se oggi il bersaglio è lo stato sionista, domani le narrative critiche potrebbero colpire l'avallo di Washington al suo massacro coloniale. Forse la squadra di Biden ha pensato di togliere la terra da sotto i piedi a Netanyahu, per preservare lo status quo nello stato sionista ancora per un po', almeno fino a dopo le elezioni negli USA?