Traduzione da Strategic Culture, 11 marzo 2024.
Alon Pinkas, un ex diplomatico sionista di alto livello e con saldi collegamenti a Washington, ci dice che una Casa Bianca esasperata ha finalmente detto di "averne abbastanza". La rottura con Netanyahu è completa: quel Primo Ministro non si comporta come dovrebbe fare "un alleato degli Stati Uniti"; critica aspramente le politiche di Biden per il Medio Oriente e gli Stati Uniti hanno finalmente interiorizzato questo dato di fatto.
Biden non può permettersi che le vicende dello stato sionista compromettano ancora di più la sua campagna elettorale e quindi -come ha chiarito il suo Discorso sullo Stato dell'Unione- raddoppierà la posta sulle sue mal congegnate linee politiche, sia per lo stato sionista che per l'Ucraina.
Cosa intende fare Biden in merito al gesto di sfida con cui Netanyahu ha risposto alle raccomandazioni politiche statunitensi, intoccabili come le cose sacre? Ha invitato a Washington Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra sionista, e lo ha impacchettato in un'agenda "riservata a un primo ministro, o a qualcuno che si ritiene possa o debba diventare premier". A quanto pare i funzionari hanno pensato che organizzando un colloquio al di fuori dei consueti protocolli diplomatici si sarebbe potuto "dare il via a una serie di avvenimenti che avrebbe potuto portare a nuove elezioni nello stato sionista", osserva Pinkas, dalle quali sarebbe potuta emergere una leadership più favorevole alle idee statunitensi.
Chiaramente, l'idea era quella di un primo passo verso un cambio di governo realizzato tramite l'esercizio del cosiddetto soft power.
Il motivo principale della dichiarazione di guerra a Netanyahu? Gaza. A quanto pare Biden non ha apprezzato l'affronto ricevuto durante le primarie del Michigan, in cui il voto di protesta per Gaza ha superato i centomila voti del tipo a favore del partito, ma senza una indicazione di candidato. I sondaggi -soprattutto tra i giovani- lanciano l'allarme per novembre, per lo più proprio a causa di Gaza. I leader democratici iniziano a preoccuparsi.
L'importante commentatore sionista Nahum Barnea scrive che lo stato sionista sta "perdendo l'AmeriKKKa":
Siamo abituati a pensare agli Stati Uniti come a qualcosa di familiare... Riceviamo armi e sostegno internazionale, e gli ebrei danno il loro voto negli Stati chiave e forniscono denaro per le campagne elettorali. Solo che stavolta la situazione è diversa... Dal momento che i voti alle elezioni [presidenziali] vengono conteggiati a livello regionale, solo alcuni Stati... sono davvero decisivi. Come in Florida, [uno] Stato chiave, i voti degli ebrei possono decidere chi andrà alla Casa Bianca, anche i voti dei musulmani in Michigan possono essere decisivi... [Gli attivisti] hanno chiesto agli elettori delle primarie di votare senza indicare un candidato, per protestare contro il sostegno di Biden allo stato sionista... La loro campagna ha avuto un successo superiore alle aspettative: centotrentamila elettori democratici hanno risposto all'appello. Lo schiaffo dato a Biden è riecheggiato in lungo e in largo negli ambienti della politica istituzionale. Non solo ha attestato l'ascesa di una nuova, efficiente e tossica lobby politica, [ma] anche il senso di repulsione che molti statunitensi provano quando vedono le immagini che arrivano da Gaza.
"Biden ama lo stato sionista e teme veramente per la sua sorte", conclude Barnea, "ma non ha intenzione di perdere le elezioni per questo motivo. Questa è una minaccia esistenziale".
Il problema, tuttavia, è il contrario. È la politica degli Stati Uniti ad essere profondamente sbagliata e completamente incongruente con il sentimento della maggioranza dell'opinione pubblica dello stato sionista. Molti cittadini dello stato sionista sono convinti di stare combattendo una lotta per la sopravvivenza e non vogliono devono diventare "carne da macello" (per come la vedono loro) per le strategie elettorali dei democratici statunitensi.
La verità è che è lo stato sionista ad aver rotto con l'amministrazione Biden, non il contrario.
Il piano fondamentale di Biden, che si basa sulla rivitalizzazione dell'apparato di sicurezza palestinese, viene descritto come implausibile persino dallo Washington Post. Gli Stati Uniti hanno tentato di ripristinare il sistema di sicurezza dell'Autorità Nazionale Palestinese con il generale Zinni nel 2002 e poi con Dayton nel 2010. Le iniziative non hanno avuto successo, e per un buon motivo: le forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese sono viste dalla maggior parte dei palestinesi come nient'altro che degli odiati tirapiedi che fanno rispettare l'occupazione sionista. Esse lavorano per l'interesse della sicurezza sionista, non di quella palestinese.
L'altro pilastro della politica statunitense è un ancor più improbabile, de-radicalizzata e anemica "soluzione dei due Stati", affogata dentro una sinfonia regionale di stati arabi di orientamento conservatore chiamata ad agire come supervisore della sicurezza. Questo approccio politico è un riflesso del fatto che la Casa Bianca non è in sintonia con la visione escatologica che ha oggi lo stato sionista. La Casa Bianca non riesce a superare una prospettiva politica che è retaggio di decenni ormai passati e che si era rivelata fallimentare già all'epoca. La Casa Bianca ha fatto quindi ricorso a un vecchio trucco: quello di proiettare tutti i propri fallimenti politici su un leader straniero colpevole di non aver fatto funzionare qualche cosa che funzionare non poteva, e cercare di sostituire quel leader con qualcuno più accondiscendente. Scrive Pinkas:
Una volta che gli Stati Uniti hanno appurato che Netanyahu non sarebbe stato collaborativo e non si sarebbe comportato da alleato sollecito ma anzi si sarebbe mostrato grossolanamente ingrato... e concentrato solo sulla sua sopravvivenza politica dopo la débacle del 7 ottobre, i tempi sono diventati maturi per tentare un nuovo corso politico.
Solo che la politica di Netanyahu -nel bene e nel male- è il riflesso di quello che pensa la maggioranza dei cittadini dello stato sionista. Netanyahu ha i suoi ben noti difetti di personalità ed è molto impopolare nello stato sionista, tuttavia questo non significa che un gran numero di persone non sia d'accordo con il suo programma e con quello del suo governo.
Insomma, ecco che arriva Gantz, sguinzagliato dall'amministrazione Biden come potenziale premier in pectore negli ambienti diplomatici di Washington e Londra.
Solo che la manovra non ha funzionato come previsto. Come scrive Ariel Kahana (in ebraico, su Israel Hayom del 6 marzo):
Gantz ha incontrato tutti i più alti funzionari governativi ad eccezione del presidente Biden, e ha presentato posizioni identiche a quelle che Netanyahu ha presentato durante i colloqui che ha avuto con le stesse personalità nel corso delle ultime settimane"."Non distruggere Hamas a Rafah significa inviare un camion dei pompieri per spegnere l'80% dell'incendio", ha detto Gantz a Sullivan. Harris e altri funzionari hanno fatto notare che sarebbe impossibile evacuare un milione e duecentomila abitanti di Gaza dall'area di Rafah, un'evacuazione che essi considerano una precondizione essenziale per qualsiasi operazione militare nella zona meridionale della Striscia di Gaza. "Gantz non si è mostrato affatto d'accordo".Discutendo la questione degli aiuti umanitari sono emerse divergenze anche più gravi. Mentre molti cittadini dello stato sionista hanno accolto furibondi la decisione di permettere la consegna di rifornimenti al nemico perché [lo considerano] un gesto che ha aiutato Hamas, ha prolungato la guerra e ha ritardato il raggiungimento di un accordo sugli ostaggi, gli statunitensi ritengono che lo stato sionista non stia facendo abbastanza. Gli assistenti di Biden hanno persino accusato i funzionari sionisti di mentire sulla quantità di aiuti consegnati e sulla cadenza delle consegne.Ovviamente la questione degli aiuti è diventata (come è giusto) il tema fondamentale per le prospettive elettorali del Partito Democratico, ma Gantz non intende prenderne atto. Come nota Kahana: "Purtroppo, i più alti funzionari dell'amministrazione statunitense sono fuori dalla realtà anche quando si tratta di altri aspetti della guerra. Credono ancora che l'Autorità Palestinese palestinese debba governare a Gaza, che la pace possa essere raggiunta in futuro attraverso la 'soluzione dei due Stati' e che un accordo per normalizzare i rapporti con l'Arabia Saudita sia a portata di mano. Gantz è stato costretto a smentire questa lettura errata della situazione".
I funzionari dell'amministrazione statunitense hanno quindi ascoltato dalle labbra di Gantz la stessa agenda politica che gli aveva ripetuto Netanyahu negli ultimi mesi. Gantz ha anche avvertito che cercare di metterlo contro Netanyahu era inutile: potrebbe anche avere voglia di sostituire Netanyahu come primo ministro, ma le sue politiche non sarebbero sostanzialmente diverse da quelle dell'attuale governo, ha spiegato.
Ora che i colloqui sono finiti e che Gantz ha detto ciò che ha detto, la Casa Bianca sta facendo i conti con una nuova esperienza: quella dei limiti al potere degli Stati Uniti e all'automatico adeguarsi alla volontà statunitense da parte di altri paesi, fossero pure gli alleati più stretti.
Gli Stati Uniti non possono imporre la loro volontà allo stato sionista, né costringere un "Gruppo di contatto arabo" a formarsi, né obbligare questo presunto gruppo di contatto a sostenere e finanziare le "soluzioni" per lo meno fantasiose che Biden ha per Gaza. È un momento rivelatore per il potere degli Stati Uniti.
Netanyahu è una vecchia volpe, per certe cose a Washington. Si vanta della sua capacità di interpretare bene la politica statunitense. Senza dubbio ha messo in conto il fatto che Biden può anche alzare di un tono o due il registro della retorica, ma si trova comunque legato mani e piedi perché è lui che può determinare la distanza che separa Biden dai generosi finanziatori ebrei in un anno di elezioni.
Lo stesso Netanyahu d'altra parte sembra aver concluso che può tranquillamente ignorare Washington, almeno per i prossimi dieci mesi.
Biden sta cercando disperatamente di arrivare a un cessate il fuoco; ma anche in questo caso -per lo schieramento politico statunitense gli ostaggi sono un tema su cui la va o la spacca- gli Stati Uniti non sono in grado di fare nulla. Si chiede all'ultimo minuto a Hamas di dire quanti ostaggi sono ancora vivi.
Una richiesta del genere può anche sembrare ragionevole a chi non è addentro alla questione, ma gli Stati Uniti sono tenuti a sapere che né Hezbollah né Hamas forniscono senza contropartite la prova che ci sono ostaggi ancora vivi: esiste un prezzo da pagare, in termini di rapporto di scambio tra cadaveri e ostaggi vivi. Esiste una lunga casistica in cui i sionisti hanno chiesto prove analoghe, con richieste finite nel nulla.
Secondo i notiziari lo stato sionista si rifiuta di concordare il ritiro da Gaza; si rifiuta di consentire ai palestinesi del nord di Gaza di tornare alle loro case e si rifiuta di accordarsi per un cessate il fuoco totale.
Sono tutte richieste che vengono direttamente da Hamas, non sono certo una novità. Perché Biden dovrebbe mostrarsi sorpreso o offeso perché vengono ripetute ancora una volta: Sinwar non sta certo giocando al rialzo, come invece sostengono i media occidentali e quelli sionisti. Sorpresa e irritazione nascono piuttosto dal fatto che Washington ha fatto propria una strategia negoziale non realistica.
Secondo il quotidiano Al-Quds, Hamas ha presentato al Cairo "un documento finale non negoziabile". Questo include, tra l'altro, la richiesta di fermare i combattimenti a Gaza per un'intera settimana prima di procedere a un accordo per la liberazione degli ostaggi, e quella di un esplicito impegno da parte dello stato sionista a un ritiro completo dalla Striscia, con tanto di garanzie internazionali.
Hamas chiede inoltre che tutti gli abitanti di Gaza abbiano il diritto incondizionato di tornare alle loro case, nonché l'ingresso dei rifornimenti in tutta la Striscia di Gaza senza alcuna ripartizione di sicurezza fin dal primo giorno di entrata in vigore dell'accordo. Secondo il documento di Hamas, il rilascio degli ostaggi inizierebbe una settimana dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco. Hamas respinge la richiesta dello stato sionista di esiliare e mandare all'estero un qualsiasi suo appartenente o un qualsiasi suo capo. Qualcosa di simile si verificò in occasione del rilascio degli ostaggi dell'assedio alla Chiesa della Natività, dove un certo numero di palestinesi è stato esiliato in paesi dell'Unione Europea; un atto che all'epoca fu molto criticato.
In una clausola separata, Hamas ha dichiarato che né da parte sua né da quella di altre organizzazioni palestinesi saranno forniti elenchi di ostaggi fino a quarantotto ore prima dell'entrata in vigore dell'accordo. L'elenco dei prigionieri di cui Hamas reclama la liberazione è lungo, e comprende i nomi di cinquantastte persone che erano state rilasciate nell'ambito dell'accordo su Gilad Shalit del 2011 e che successivamente erano state arrestate nuovamente. Comprende poi tutti i detenuti in regime di sicurezza[*] di sesso femminile e minori; tutti i detenuti in regime di sicurezza malati e tutti i detenuti ultrasessantenni.
Secondo l'articolo solo dopo il completamento della prima fase inizieranno i negoziati per la fase successiva dell'accordo.
Queste richieste non dovrebbero sorprendere nessuno. Una convinzione fin troppo diffusa tra persone poco esperte vuole che quando ci sono di mezzo degli ostaggi si possa arrivare ad un accordo in modo relativamente facile e veloce con i toni retorici, i mass media e le pressioni diplomatiche. La realtà è diversa. In media occorre più di un anno di tempo per concordare la liberazione di ostaggi.
L'esecutivo di Biden deve cambiare urgentemente il proprio approggio alla questione, e interiorizzare innanzitutto il fatto che è lo stato sionista che si sta staccando dalla stantìa e mal fondata condiscendenza degli Stati Uniti. La maggior parte dei cittadini dello stato sionista è d'accordo con Netanyahu, che il 9 marzo ha ribadito che "questa è una guerra in cui è in gioco l'esistenza, e dobbiamo vincerla".
Come mai lo stato sionista può pensare di fare a meno degli Stati Uniti? Forse perché Netanyahu sa che la conformazione del potere che negli USA (come in Europa) controlla gran parte, se non la maggior parte, del denaro che plasma la politica statunitense e che in particolare contribuisce all'orientamento del Congresso, dipende fortemente dall'esistenza di una causa sionista e dal fatto che essa continui a esistere. Non è quindi lo stato sionista a dipendere in tutto e per tutto dalla conformazione del potere degli Stati Uniti e dalla loro "buona volontà" come Biden presuppone.
La "causa dello stato sionista" conferisce alle strutture della politica interna statunitensi la loro significatività politico, il loro programma e la loro legittimità. Un "no allo stato sionista" toglierebbe loro la terra da sotto i piedi e lascerebbe gli ebrei statunitensi a vivere nell'insicurezza. Netanyahu lo sa, e sa anche che l'esistenza di lo stato sionista, di per sé, consente a Tel Aviv di influire in una certa misura sulla politica statunitense.
A giudicare dal discorso sullo Stato dell'Unione del 9 marzo, l'amministrazione statunitense non è in grado di barcamenarsi nell'attuale impasse con lo stato sionista, e si sta invece incaponendo sui propri logori e banali punti fermi. Servirsi del discorso sullo stato dell'Unione come di un pulpito per imporre il vecchio modo di pensare non rappresenta una strategia. Anche l'idea di costruire un molo a Gaza è una storia vecchia. Non risolve nulla e serve solo a consolidare ulteriormente il controllo sionista sui confini di Gaza e su ogni possibile prospettiva per il dopo occupazione. Cipro prenderà il posto di Rafah, per i controlli di sicurezza dello stato sionista. Un tempo a Gaza c'erano sia un porto che un aeroporto internazionale; ovviamente sono stati entrambi ridotti in macerie da tempo dai bombardamenti sionisti.
La poca o nulla attenzione per il principio di realtà non può essere considerata come un fastidioso accidente cui porre rimedio imponendo a chi si occupa della campagna elettorale di gestire meglio le pubbliche relazioni. I funzionari sionisti e statunitensi vanno dicendo da tempo che la tensione potrebbe salire all'improvviso in concomitanza con l'inizio del Ramadan il 10 marzo. La rete Channel 12 dello stato sionista (in ebraico) riferisce che il capo del servizio di informazioni militare Aman ha avvertito il governo sionista, con un documento riservato, che esiste la possibilità che durante il mese di Ramadan scoppi una guerra a carattere religioso con una prima escalation nei territori palestinesi e poi l'estensione a fronti differenti fino alla sua trasformazione in una guerra regionale.
Questo avvertimento -sostiene Channel 12- è stato il motivo principale alla base della decisione di Netanyahu di non imporre Netanyahu di non imporre restrizioni più dure del solito ai palestinesi che entrano ad Al-Aqsa per le preghiere del Ramadan.
Sì, le cose potrebbero andare peggio, molto peggio, per lo stato sionista.
[*] Secondo Adalah un security prisoner è qualcuno che viene "incarcerato e condannato per aver commesso o perché sospettato di un reato che per la sua natura o per le circostanze in cui è avvenuto viene considerato contrario alla sicurezza, o per motivazioni nazionaliste". In pratica sono classificati in questo modo tutti i prigionieri accusati di atti ostili contro l'occupazione sionista (N.d.T.).