Traduzione da Conflicts Forum.
Che il calo del prezzo del greggio rappresenti una brutta batosta per l'economia dell'Arabia Saudita è scontato. Solo che il petrolio non rappresenta un cespite come un altro: nel sistema finanziario mondiale il petrolio è qualcosa di unico nel suo genere e questo significa che un crollo del suo prezzo ha oggi ed avrà un domani conseguenze molto più ampie di un mero taglio alle entrate dei sauditi. Detto altrimenti, le minori entrate dovute al calo del prezzo sono solo un aspetto della questione, e forse un aspetto che non è quello che più impatta sulle sorti del regno. Esistono fattori globali, legati al ruolo strutturale che il petrolio ha nel sistema globale, che sono altrettanto importanti delle entrate pure e semplici, e che possono diventarlo anche di più.
Uno di questi fattori globali è rappresentato dal fatto che il crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime in genere sta rendendo sempre più insostenibili i tassi di cambio ancorato di vari paesi, Emirati Arabi ed Arabia compresi. Questo indebolimento sta causando una fuga di capitali, al crollo del mercato azionario e al conseguente depauperamento delle riserve valutarie, messo in atto per proteggere il valore della moneta. La mera diminuzione delle entrate dovuta al ribasso del greggio ne esce amplificata ed inasprita.
Il crollo del prezzo del petrolio ha anche innescato un circolo vizioso negativo: la caduta del mercato azionario, così come quella del greggio e delle materie prime hanno contribuito di per sé a indebolire la fiducia in altri settori, dalla solidità delle imprese a quella dei titoli di stato. L'ultimo crollo azionario alla borsa di Shanghai ha vaporizzato qualcosa come cinquemila miliardi di dollari, che sono il doppio di tutti gli scambi delle borse brasiliana, indiana, russa e sudafricana. Anche le borse mediorientali hanno sofferto di questa perdita di fiducia. Secondo Citi Bank il PIL dell'Arabia Saudita crollerà quest'anno del 22%, cosa che imporrà quasi di sicuro una politica di privatizzazioni e di taglio delle spese. L'aspetto globale del problema, in questo caso, è che quando crolla il prezzo di un cespite importante come il greggio si ricorre alla vendita di qualcos'altro per colmare l'ammanco o per contrastare la fuga dei capitali. Questo, in un momento in cui il sistema finanziario presenta bolle enfiate e pronte ad esplodere può causare un crollo della fiducia caratterizzato da un effetto domino. L'Arabia Saudita ed altri paesi mediorientali come l'Egitto saranno particolarmente epsosti a qualunque crollo di fiducia di dimensioni appena più ampie che si verifichi nel sistema finanziario globale. Questo ha implicazioni geopolitiche profonde: paesi che devono la loro sopravvivenza ad un generoso apparato di assistenza sociale e ad un altrettanto pervasiva repressione potrebbero non sopravvivere alle conseguenze.
Gli ultimi trent'anni hanno visto il ricorso ad una politica di stimolo monetario su una scala senza precedenti, che ha avuto lo scopo essenziale di mantenere alto il valore dei titoli. Il problema è che il valore di certi settori fondamentali del pantheon dei titoli è crollato, ed in qualche caso continua a crollare a tutt'oggi. Per qualsiasi economia che goda di una fiducia praticamente per intero basata sull'alto valore dei titoli -il che comprende tutte le economie basate su politiche monetarie poco rigide- scossoni di questo genere che riguardino il prezzo di pur pochi cespiti di alto valore finiscono per trasformarsi in interrogativi sul valore di qualunque altro cespite che può essere necessario liquidare per coprire le perdite nei settori strategici: il prezzo del petrolio e delle materie prime è precipitato. Non tutti riescono a comprendere il valore strutturale che il greggio ha all'interno del sistema finanziario; al contrario, domina una corrente di pensiero che è arrivata alla conclusione che il petrolio che crolla vuol dire più soldi in tasca ai consumatori dal momento che la benzina costa meno, e questo ne fa un qualche cosa di positivo. Stesso discorso per le materie prime. La massiccia immissione borsistica saudita, fatta per colmare le perdite, ha invece eroso ancor di più la fiducia nell'economia saudita nel suo complesso.
Per decine e decine di anni i produttori di energia hanno reinvestito i loro un tempo consistenti surplus in valori quotati in dollari. Questo creava liquidità nei mercati occidentali e rafforzava il valore dei titoli denominati in quella valuta. La cosa aiutava soprattutto a tenere alto il valore del dollaro rispetto alle altre valute; tutte cose cose positive secondo Washington, perché permettevano al dollaro di mantenere la propria condizione di valuta egemonica e di valuta di riserva.Dal punto di vista di chi si mette nella prospettiva dei mercati borsistici occidentali il prezzo del petrolio e delle materie prime, crescendo e rimanendo alto, aveva creato un circolo virtuoso di crescente liquidità e di crescente domanda di dollari e di valori mobiliari in dollari.
Certo, finché sale è un circolo virtuoso. Quando scende, invece, vale a dire quando interi gruppi di quotazioni vanno in caduta libera. Il crollo del prezzo di un cespite strategico si ripercuote sugli altri, che cadono come tessere del domino. In Arabia Saudita, come scrive il noto commentatore su Twitter Mutjtahid, il crollo è già in corso:
La ragione [del vistoso crollo della borsa saudita] è che il fondo pensioni [statale] e quello degli investimenti pubblici hanno ceduto alcuni dei loro pacchetti più corposi su ordine di Mohammed bin Salman. C'era da fare cassa. I due fondi sono i maggiori investitori presenti sul mercato saudita e Mohammed bin Salman, il figlio del re, ha ordinato le vendite in quanto presidente del consiglio per l'economia e lo sviluppo. Il governo si è assicurato del denaro liquido in questo modo invece che con l'emissione di buoni del tesoro, che si pensava potessero nuocere alla solidità finanziaria dello stato. Il prossimo passo prevede la vendita delle quote che lo stato possiede nella SABIC, la principale industria chimica saudita, nell'elettricità e nelle telecomunicazioni, perché non esistono più riserve di liquido (Mujtahid, 22 agosto 2015).
I sauditi possono anche evitare di vendere beni quotati in dollari perché a suo tempo ci si è intesi col governo statunitense sul fatto che vendite del genere non sarebbero state intraprese senza il suo assenso. Tuttavia questo non riguarda né i produttori di energia né quelli di materie prime. La Cina è un grande consumatore di energia più che un grande produttore, ma la caduta nel prezzo del petrolio l'ha indirettamente costretta a mettere sul mercato, in due settimane, l'equivalente di centosei miliardi di dollari per sostenere il valore dello yuan.
Un effetto secondario ma sostanziale del crollo del prezzo del petrolio è stato anche l'indebolimento nei confronti del dollaro di tutte le valute dei mercati emergenti. Storicamente, il dollaro e il prezzo del greggio sono in relazione inversa. Questo aveva laciato lo yuan, il cui valore non era cambiato, in una condizione di sopravvalutazione rispetto al dollaro che secondo certe valutazioni arrivava al 20% mentre le altre valute si indebolivano. Certo, per decenni e praticamente fino ad oggi lo yuan è rimasto ancorato al dollaro che saliva; la Cina ha finalmente deciso di svalutarlo e la cosa non sorprende, ma questa operazione l'ha costretta ad intervenire nei mercati esteri con massicce vendite di buoni del tesoro statunitensi, effettuate per acquistare yuan e contrastare così una volatilità che stava mettendo in discussione la possibilità di stabilizzare la moneta. Tutto questo ha un'importanza geopolitica sostanziale perché le vendite massicce di buoni del tesoro statunitense renderanno difficile a Stati Uniti ed Europa continuare con le politiche monetarie fin qui adottate. E' anche probabile che in futuro la Cina si appoggerà di più alla Russia per approvvigionarsi di greggio piuttosto che all'Arabia Saudita, se la Russia accetterà pagamenti in yuan invece che in dollari.
In questo la Cina non è sola. Il Kazakhstan ha sganciato la propria moneta dal dollaro e l'ha svalutata, ed anche l'aggancio al dollaro dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi scricchiola, perché il tasso contrattato per i prossimi dodici mesi per entrambe le monete tiene conto del fatto che i mercati si attendono che anch'esse si sgancino e si svalutino. Circostanze del genere, vale a dire la possibile uscita dal cambio fisso col dollaro, si presentano quasi sempre assieme a fuga di capitali e a rapido esaurimento delle riserve in valuta estera. Non saranno solo la Cina e il Kazakhstan a vendere le loro riserve di titoli in dollari per puntellare le loro monete dopo lo sganciamento, ma anche altri paesi produttori, inclusa forse in un futuro non troppo lontano la stessa Arabia Saudita.
Pressioni sul rial saudita, contratti a dodici mesi: si veda Zero Hedge blog.
Il Primo Ministro del Kazakhstan Karim Massimov ha detto a Bloomberg a metà agosto che il mondo è entrato "in una nuova epoca" e che presto tutte le petrovalute ancorate al dollaro andranno in terra una dopo l'altra come tessere del domino. "Alla fine la maggior parte dei paesi produttori di petrolio adotterà la libera fluttuazione della moneta, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti compresi", ha detto Karim Massimov. "Non penso che per i prossimi tre, cinque, forse sette anni il prezzo delle materie prime tornerà ai livelli del 2014".
Esiste un altro aspetto della questione, che riguarda in modo particolare i paesi del Golfo. Il meccanismo di riciclo dei petrodollari è entrato in una fase negativa. David Spegel, capo del settore ricerche su imprese e debito sovrano nei mercati emergenti della BNP ha scritto che "quando ha raggiunto il suo massimo [nel 2006, quando alla Goldman Sachs sostenevano che il petrolio sarebbe arrivato a duecento dollari al barile] ogni anno [i paesi produttori di petrolio] reimmettevano circa cinquecento miliardi di dollari nei mercati finanziari. Quest'anno [il 2014] per la prima volta dopo molto tempo i paesi esportatori di energia ritireranno capitali, anziché metterne". Spegel riconosceva che questi ritiri erano stati poca cosa [sette miliardi e seicento milioni] ma aggiungeva anche che "la cosa interessante è il fatto che si stanno ritirando capitali, e non il fatto che se ne stanno aggiungendo, a muovere la liquidità a livello globale. Se nei prossimi anni il prezzo del greggio continuerà a calare i paesi produttori avranno bisogno di altri capitali solo per pagare gli interessi sui buoni del tesoro che hanno emesso". Bloomberg ha calcolato che "l'industria petrolifera ha bisogno di cinquecento miliardi di dollari per reggere alla caduta dei prezzi... ci sono settantadue miliardi di debiti collegati al petrolio che giungono a scadenza quest'anno, ottantacinque nel 2016, centoventinove nel 2017 ed un totale di cinquecentocinquanta miliardi in buoni del tesoro e prestiti di qui al 2020."
Questo "richiamo in patria" dei petrodollari indica più che altro che a differenza di quello che è successo con la crisi del 1998, stavolta i produttori mediorientali ci sono dentro fino al collo, almeno per la spesa pubblica. Si sono dovuti creare molti posti nei lavori socialmente utili, e ancora di più ne serviranno; c'è più edilizia pubblica, ci sono più sussidi perché è aumentato l'utilizzo di carburanti e di elettricità, l'istruzione cosa più cara eccetera. Anche gli standard di vita che i cittadini del golfo si attendono sono molto più alti di quanto non lo fossero nel 1998.
Tutte condizioni mutate, che possono spiegare perché l'Arabia Saudita potrebbe non cavarsela a buon mercato come nel 1998: all'epoca il prezzo del greggio toccò il minimo mai raggiunto in oltre dieci anni, le riserve in valuta vennero falcidiate, i mercati emergenti finirono nel caos ed in Arabia Saudita cominciò a serpeggiare il panico. "Passammo davvero un brutto quarto d'ora" afferma Khalid Alsweilem, ex capo del settore investimenti alla Saudi Arabian Monetary Agency, la banca centrale del paese. "Per fortuna il prezzo del greggio ricominciò a salire: ma non perché la cosa fosse studiata, si trattò di pura e semplice fortuna".
Le previsioni di Citibank per l'Arabia Saudita sono poco rosee. "Il Brent nel 2015 si manterrà sui cinquantaquattro dollari al barile. Se i prezzi rimangono questi, possiamo aspettarci che gli introiti del governo saudita crollino quest'anno del 41% e crediamo che con ogni probabilità i sauditi taglieranno drasticamente la spesa pubblica il prossimo anno. Secondo i nostri calcoli, se l'Arabia Saudita mantenesse i livelli di spesa dell'anno in corso e dell'anno passato il deficit di bilancio arriverebbe a centotrenta miliardi di dollari, il 22% del PIL. Per quanto ne sappiamo noi sarebbe insostenibile perché le riserve fiscali riescono a coprire solo tre anni di un regime del genere. Il totale sarebbe anche tre volte più alto del livello di deficit messo in programma dal governo. Pensiamo che probabilmente ci sarà una stretta del 20% sulla spesa pubblica, cosicché il deficit complessivo arriverebbe al 13% del PIL".
Queste considerazioni della Citibank possono anche sembrare ragionevoli anche perché già circolano relazioni in cui si legge che i sauditi starebbero pensando di ridurre il loro budget totale di centodue miliardi. Ora, il bilancio costituisce o no un ritratto fedele della spesa pubblica del paese? Il già citato Mujtahid ci mostra con una certa regolarità esempi di casi in cui grandi entrate statali vengono semplicemente rimosse dal bilancio, sia per finanziare iniziative politiche all'estero, sia per finire in tasca a questo o a quello. Ecco il motivo per cui le entrate non sono più sufficienti a far fronte alle spese previste.
In questo momento l'Arabia Saudita è coinvolta in quattro guerre (Yemen, Siria, Iraq e Libia) e sta anche cercando di fare in modo che il governo del Presidente Sissi, in Egitto, non imploda. Tutte spese previste? Della guerra nello Yemen magari magari è stata anche prevista una copertura almeno parziale, anche se è più probabile che non sia stato fatto. In Siria i sauditi stanno cercando di rovesciare il Presidente Assad, ed in questo le spese sono aumentate a dismisura: tutta roba prevista nel bilancio? Le spese per i servizi segreti sono comprese, o si tratta di spese di cui è omessa l'indicazione, come in molti altri paesi? Non è possibile saperlo. Sappiamo soltanto che a tutt'oggi Mohammed bin Salman non ha mostrato alcun segno di voler tagliare le spese indispensabili alle sue operazioni di prestigio, anzi.
Si tratta di operazioni militari che non presentano soltanto rischi di tipo economico, ma anche rischi di tipo politico non ben quantificabili. L'Arabia Saudita non si sta soltanto esponendo molto dal punto di vista economico, ma ha puntato tutta la propria credibilità politica sull'esito delle guerre che ha intrapreso per "ricacciare l'influenza iraniana".
In termini politici, cosa significa tutto questo per il Medio Oriente? Significa che probabilmente Mohammed bin Salman non avrà altra scelta che quella di cambiare registro per i motivi di forza maggiore avanzati dalla situazione economica, se non vorrà trovarsi a dover affrontare una crescente instabilità interna. Lo sganciamento dello yuan dal dollaro per la Cina indica e simboleggia una cosa che i paesi del Golfo non possono in nessun caso ignorare, ovvero il fatto che la Cina non sarà certo la barca che resterà a galla sulla bonaccia dell'economia mondiale. Anzi, essa è il segnale che l'intera domanda mondiale si sta contraendo. I prezzi delle materie prime in calo al pari delle tariffe degli spedizionieri, dei trasporti via nave e di tutti gli altri parametri che servono a misurare le attività commerciali conferiscono ulteriore concretezza a tutto questo.
Secondo il World Trade Monitor La prima metà del 2015 ha assistito al peggior declino nel commercio mondiale dopo la crisi del 2009. Nel primo trimestre del 2015 il volume del commercio mondiale è calato dell'1,5%, nel secondo dello 0,5% portando a un -2% complessivo. I primi sei mesi del 2015 sono stati i peggiori dopo il crollo del 2009. Sono circostanze che fanno pensare che qualsiasi tentativo dei paesi produttori di far risalire il prezzo del greggio sia destinato al fallimento, almeno fino a quando la domanda resterà così debole, a meno che non succeda che qualche importante paese produttore cada nel caos sul piano interno uscendo così dal mercato. Al contrario, come da noi ipotizzato è più probabile che i produttori si rassegnino a colmare i vuoti nei loro bilanci nazionali e producano quindi al massimo.
Il raffreddamento dell'economia colpirà tutti i paesi del Medio Oriente, Iran compreso. Se l'accordo cui sono arrivati i "Cinque più uno" supererà le secche del congresso -e al momento tutto fa pensare che ce la farà- sarà difficile che l'Iran passi quel periodo dorato che qualcuno aveva previsto per il prossimo anno. Certamente la fine delle sanzioni aiuterà l'economia, anche se ptobabilmente in misura minore rispetto a quello che speravano le autorità e su cui il Presidente Rohani faceva conto. Il paradossale risultato delle sanzioni e di quanto appreso in queste circostanze è che l'Iran si trova comunque in una posizione più favorevole rispetto agli altri paesi dell'area: si è esposto meno di altri per quanto c'è di virtuale nell'economia finanziaria globale ed ha trascorso gli anni delle sanzioni cercando di ravvivare e di modellare la propria economia reale. Per l'Iran le cose non andranno così bene come qualcuno aveva previsto, ma nemmeno si ritroverà in crisi al punto in cui potrebbero venirsi a trovare altri paesi.