Traduzione da Indian Punchline.
L'attacco terroristico della scorsa settimana contro un posto di frontiera situato al confine con la provincia irachena di Al Anbar è stato il primo attacco dello Stato Islamico contro il Regno dell'Arabia Saudita. Potrebbe trattarsi della proverbiale goccia che fa traboccare il vaso e che costringe Riyadh a mettere radicalmente in discussione le strategie politiche seguite a livello regionale, tutte improntate alla rivalità con l'Iran.
Tehran ha efficacemente contrastato le mene saudite in Siria ed in Iraq ed in questo momento sembra avere il coltello dalla parte del manico. Il tentativo estremo dei sauditi di andare a colpire l'economia iraniana forzando un drastico calo dei prezzi del greggio non soltanto non sta avendo l'effetto sperato, ma, come ha detto esplicitamente a metà gennaio il Presidente Hassan Rohani, è possibile che Riyadh e il suo compagno Kuwait finiscano col danneggiarsi da soli.
Nell'attacco al posto di frontiera condotto dallo Stato Islamico sono morte due guardie di confine ed il loro comandante. Si tratta di un momento che segna una svolta: il fatto che lo Stato Islamico abbia ucciso tre soldati di nazionalità saudita deve suonare come un brusco risveglio: è arrivato il momento di tirare le somme. I sauditi sperano di erigere un muro di confine, e di isolare il paese da quelli dello Stato Islamico, i barbari della porta accanto. Ma si tratta di plateali fanfaronate.
Le condizioni della provincia di al Anbar, che è controllata dallo Stato Islamico, stanno precipitando. Le dispute tribali e i limiti dell'esecito iracheno hanno fatto sì che lo Stato Islamico avesse la meglio, che ha instaurato un esteso regno del terrore per eliminare sistematicamente la resistenza. Per creare una resistenza tribale organizzata contro lo Stato Islamico serve moltissimo lavoro sul terreno, sulla falsa riga di quello condotto nel decennio passato nelle regioni sunnite sotto controllo statunitense che portò alla creazione dei "Consigli del Risveglio". Questo può in parte spiegare la decisione dell'Arabia Saudita di riaptrire la propria ambasciata a Baghdad, dopo venticinque anni di chiusura.
In ultima analisi, solo unendo i propri sforzi a quelli della Repubblica Islamica dell'Iran l'Arabia Saudita potrà allontanare la minaccia che lo Stato Islamico rappresenta per la sua sicurezza nazionale. Riyadh e Tehran per adesso comunicano tra loro con ammiccamenti, come estranei nell'oscurità che non fanno che scambiarsi sguardi. In uno dei suoi deditoriali lo Iran Daily, vicino a posizioni governative, ha scritto che "tra Iran ed Arabia Saudita non ci sono contrasti tanto gravi da non poter trovare soluzione" ed ha ammonito del fatto che "lo Stato Islamico può mettere a rischio l'intero sistema governativo saudita" perché "le sue parole d'ordine possono fornire motivazione" al popolo perché si sollevi contro il governo. L'editoriale prende nota del fatto che la cooperazione tra Iran ed Arabia Saudita "portererbbe sicurezza e stabilità a tutto il Medio Oriente".
Certo, nei termini dell'accordo si dovrà considerare anche la questione del prezzo del petrolio. L'Iran Daily ha ammesso il fatto che la decisione dei sauditi di aumentare la produzione di greggio, che ha portato alla caduta dei prezzi, si inquadra nel contesto che vuole "l'utilizzo del petrolio come strumento per mettere in difficoltà il proprio rivale, in questo caso l'Iran" e che questo "ha creato a Tehran qualche problema economico". Ammesso questo, lo scritto ricorda però che oggi comem oggi l'Arabia Saudita non si trova certo nella posizione adatta a dettare condizioni. "Si dice che le condizioni di salute di Re Abdullah stiano peggiorando di giorno in giorno, e si riferisce anche di una lotta per il potere in corso tra i principi sauditi. Prendere in considerazione un'altra forma di governo, per i sauditi potrebbe essere una via d'uscita".
Nello scenario che si prepara, diventa inevitabile per l'Arabia Saudita riconsiderare le strategie politiche fin qui seguite a livello regionale. Il 16 gennaio lo Asharq al Awsat, quotidiano saudita interno allo establishment, scrive in un editoriale che il principe Turki, ex capo dei servizi, si è espresso in modo molto ruvido nei confronti dello Stato Islamico, arrivando a ribattezzare il Da'ish Fahish, vale a dire "osceno", e paragonandolo ai kharigiti del diciassettesimo secolo, conosciuti nella storia muslmana ed araba per la loro efferatezza. Una così aspra condanna nei confronti della propria antica progenie fa capire soltanto che i sauditi possono aver capito che l'idea di giocare la carta del settarismo contro l'Iran per ottenere la supremazia nella regione si è rivelata una mosa costosa, controproducente e foriera di conseguenze negative per i loro stessi interessi vitali. La miglior cosa da fare, per l'Arabia Saudita, è evitare di rovesciare il tavolo, e riconsiderare la propria politica nei confronti dell'Iran. L'accordo sul nucleare tra Iran e Stati Uniti non farà altro che spostare ancora di più la bilancia degli equilibri regionali in favore di Tehran.