Traduzione da Conflicts Forum.
Ginevra II. Molte cose dipenderanno da come finirà la guerra in Siria. L'esito del conflitto influirà sugli equilibri geostrategici della regione, e se non darà ad esso ulteriore slancio, aiutandone la diffusione in Medio Oriente, in Asia Centrale e in Nord Africa, metterà un qualche limite all'ascesa dello jihadismo takfiri. Le sorti del conflitto saranno determinanti anche nel plasmare l'ordine mondiale; la Siria potrebbe o meno rivelarsi la nemesi dell'Arabia Saudita. Sul fatto che Ginevra avrà una qualche influenza su tutto questo, comunque vadano le cose, non è possibile esprimersi con altrettanta certezza. Le prospettive della conferenza sono incerte e persino l'andamento della conferenza intesa come processo decisionale non segue un percorso definito, dal momento che manca un vero programma. Semplicemente, è troppo presto per trarre conclusioni sulla sua importanza, sempre che un'importanza ce l'abbia.
Di cosa si tratta, a Ginevra II? A Ginevra I era chiaro che gli ameriKKKani e i loro alleati volevano imporre un "governo di transizione" su cui vi fosse accordo "ai massimi livelli" -vale a dire su cui fossero d'accordo ameriKKKani ed alleati, e magari anche i russi- che semplicemente usurpasse il Presidente Assad del governo e dei poteri militari riducendolo ad una specie di pallone sgonfio capace soltanto di collaborare alla propria messa da parte. All'epoca si dava per scontato, da parte degli USA e da parte di alcuni dei loro alleati europei, che il presidente della Repubblica Araba di Siria non avrebbe potuto fare alto che chinare la testa davanti alla potenza delle forze scatenate contro di lui. Questi propositi iniziali, in pratica, erano una riproposizione del modello yemenita: le potenze straniere che si mettono d'accordo tra loro in anticipo sull'assetto da dare al paese, e che poi ammanniscono in una conferenza convocata apposta la ricetta già pronta agli yemeniti, che devono soltanto accettare e mettere in pratica.
Ginevra I è fallita innanzitutto perché all'epoca gli USA non avevano alcuna intenzione di arrivare a decisioni condivise con i russi, cosa che si è rivelata possibile soltanto con l'accordo sulle armi chimiche siriane, o perché i "massimi livelli" non erano d'accordo sul da farsi. In secondo luogo, perché gli editti emessi da questi protagonisti di primo piano non avevano nulla a che vedere con le forze in campo, in modo particolare con le forze jihadiste di vario genere, che non accettano la democrazia, non accettano lo stato-nazione, non accettano il laicismo. In altre parole, quanto deciso ai piani alti è servito a poco o nulla perché i combattenti hanno semplicemente ignorato tutto quanto, perché sapevano che c'erano potenze straniere che avrebbero continuato a sostenerli nello scontro militare.
Oggi come oggi, la situazione è molto diversa nonostante Kerry e tutto il coro dei think tank occidentali insistano con la trita retorica sul "necessario" abbandono da parte di Assad, istanza che eloquentemente non trova alcun riscontro tra i servizi di sicurezza e di spionaggio occidentali. I timori sull'ascesa dello jihadismo e sul suo diffondersi in tutto il Medio Oriente ed oltre, nel tempp che è trascorso sono diventati la cosa più importante. Cacciare Assad non è più una priorità. Anzi, il fatto che egli continui a rivestire la propria carica è diventato indispensabile per la sicurezza, sia perché c'è da portare a termine quanto previsto dall'accordo sulle armi chimiche, sia perché c'è da sovrintendere alla vitale guerra contro gli jihadisti.
Si potrebbe dire che Ginevra II sia cambiata fino a diventare un ponticello piuttosto instabile per il passaggio dalla vecchia politica (occidentale) che prevedeva la cacciata di Assad ad una nuova politica finalizzata ad assicurare la stabilità del Medio Oriente con la sconfitta dello jihadismo in quella Siria che ne rappresenta il fronte. Negli Stati Uniti questo cambiamento non è gradito a tutti, e il Segretario di Stato ha qualche problema a fare ammissioni esplicite a coloro cui deve rispondere sul fronte interno. La strategia degli interventisti, negli Stati Uniti e nei loro alleati nel Golfo Persico, che è una reazione al non interventismo del governo statunitense, è quella di alzare le necessità umanitarie della popolazione siriana fino a farle diventare il cavallo di Troia che porterebbe, nascoste nel suo ventre di legno ed ovviamente con i più nobili pretesti, i militari di potenze estere interventiste a tutela dei corridoi umanitari, "per stabilire posti di frontiera non controllati da Damasco che permettano alle Nazioni Unite l'ingresso in Siria, per recare a centinaia di migliaia di persone gli aiuti di cui hanno disperato bisogno" o per definire delle "aree sicure" per i profughi.
Nel caso si arrivasse a questo, le aree sicure all'interno del territorio siriano servirebbero come teste di ponte, come già successo a Bengasi, per far crescere il coinvolgimento straniero entro i confini di uno stato sovrano. Russia e Siria hanno intuito quello che si preparava, e la Siria ha deciso di prevenire il colpo mettendo in anticipo sul tavolo la propria proposta per un raffreddamento del conflitto e per il soccorso umanitario, secondo le proprie condizioni. Condizioni che non prevedono alcuna concessione in materia di sovranità. A Ginevra, tolte le altre questioni essenziali, il problema umanitario è probabile che si gonfi fino a diventare oggetto principale delle schermaglie, dietro il quale si nascondono le vere motivazioni degli interventisti e di tutti coloro, come la Siria, la Russia e l'Iran, che non intendono ammettere alcuna forma di intervento occidentale. La lezione della Libia è stata preziosa.
Per il governo statunitense, ora come ora, il principale obiettivo sembra sia solo quello di mostrare il governo siriano e un settore molto ristretto delle "opposizioni" intenti a dialogare tra loro: di qui l'affermazione del Dipartimento di Stato perché ci si prepari ad un processo di durata indefinita. L'Occidente sta cercando sostanzialmente di mettere dei limiti agli scontri e di evitare di farli divampare fino al punto di minacciare i paesi vicini. Non è probabile che a Washington si attendano molto da questa conferenza: sanno che la delegazione dell'opposizione non ha praticamente alcuna legittimazione sul terreno, che è divisa da conflitti interni e che Assad, sul terreno, è forte. Nondimeno Stati Uniti e Russia sperano che a partire da questo confusionario inizio la palla passi di nuovo nel campo della politica, dopo molto tempo. Anche il governo siriano riconosce il bisogno di un dialogo a livello nazionale per definire il futuro assetto del paese e già da tempo, senza tanto apparire, promuove ampie consultazioni a livello nazionale. Arrivare ad un dialogo concreto, tuttavia, sarà difficile: ne fanno fede le tante occasioni in cui -dicono- l'ambasciatore Ford ha dovuto rampognare e minacciare l'opposizione perché si recasse a Montreux.
Cambiare posizione il più impercettibilmente possibile per arrivare a dare per assodato che Assad rimarrà al suo posto -e c'è poco, in verità, che a questo punto gli Stati Uniti possano fare per cacciarlo- dando al tempo stesso l'idea di mantenere la parola data al Congresso nazaionale Siriano e all'opinione pubblica statunitense, abituata da moltissimo tempo a considerare il Presidente Assad come una specie di mostro, non sarà per il Segretario di Stato John Kerry un'impresa facile. Gli ameriKKKani se ne renderanno conto. A complicare ulteriormente le cose c'è il fatto che la questione Siria sta diventando inscindibile dal negoziato con l'Iran. In realtà lo è sempre stata, ma un nuovo garbuglio in questo nodo ha fatto sì che l'Iran si vedesse ritirato l'invito per la conferenza proprio nel momento in cui gli ameriKKani più che mai avevano bisogno che l'Iran esercitasse la propria influenza, che potrebbe facilitare il passaggio morbido di Kerry ad una nuova linea politica per sconfiggere lo jihadismo nuovamente in ascesa. La caduta di Falluja nelle mani di Al Qaeda negli Stati Uniti ha avuto una potente rilevanza simbolica.
L'altro problema è il fatto che Russia ed Iran pare siano sul punto di siglare un importante accordo in materia di idrocarburi; un accordo che nell'ottica statunitense costituisce una minaccia alla dottrina degli Stati Uniti secondo cui soltanto la pressione delle sanzioni contro l'Iran può portare ad una "soluzione" della questione nucleare. L'esportazione di mezzo milione di barili al giorno alla volta della Russia, che non importerebbe il petrolio per sé ma per inviarlo ai propri clienti in Asia, viene considerata da Washington come il potenziale inizio della perdita di efficacia per le sanzioni. Il Congresso statunitense ha sviluppato un'ossessione per le sanzioni, spalleggiato in questo dallo stato sionista; la Russia no. Alcuni mezzibusti statunitensi hanno cominciato a mugugnare di sanzioni contro la Russia, ma sono solo chiacchiere. La Russia non si è mai aggregata alle sanzioni unilateralmente decise dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea: le considera una mossa illegale perché priva dell'avallo del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Fino ad oggi i russi si sono limitati a riferire ai funzionari americani che questo potenziale scambio -l'Iran otterrebbe valuta e beni di consumo- non è affare che riguardi gli Stati Uniti. La cosa farà crescere di centoottantadue milioni di barili la produzione annuale dell'Iran, cosa che avrà la sua importanza per le pressioni che l'OPEC e l'Arabia Saudita esercitano affinché si tagli la produzione da qualche altra parte se si intende mantenere a cento dollari al barile il prezzo del greggio.
Il problema qui è che Obama ha difficoltà ad impedire al Congresso di decidere per ulteriori sanzioni contro l'Iran: un atto che influirebbe molto negativamente sui negoziati con la Repubblica Islamica. Obama è abbastanza vulnerabile ma fino ad ora è riuscito a muoversi in sintonia con il Congresso. L'accordo russo-iraniano potrebbe causare dei problemi, in considerazione del fallace assunto degli Stati Uniti secondo cui soltanto il mantenimento delle sanzioni causerebbe la resa dell'Iran come pensano quelli del Congresso. E' possibile che alla Casa Bianca ci si sia resi conto che l'accordo tra russi ed iraniani e la contemporanea presenza dell'Iran alla conferenza di Ginevra rappresentavano per il Congresso un boccone troppo duro da mandare giù. Di qualcosa si doveva fare a meno: l'Iran si è visto ritirare l'invito per azzittire il coro della politica interna, che ritraeva Obama come troppo tenero nei confronti degli iraniani. C'è da pensare che la Casa Bianca faccia più conto sui negoziati con l'Iran di quanto consideri produttivi i risultati della conferenza di Ginevra.
Cosa permette di concludere tutto questo sul conto di Ginevra II? Intanto, che non ci sono ancora le condizioni essenziali per arrivare ad una soluzione politica del conflitto. Certo, ora i "massimi livelli" dispongono di una base per intendersi e -sì- a Montreux è arrivata una malleabile delegazione di oppositori. Sia Stati Uniti che Russia, poi, stanno cercando di raffreddare il conflitto. Ma questo raffreddamento interessa davvero ai paesi mediorientali che stanno spalleggiando le parti in campo? Se le relazioni disponibili sono accurate, l'incontro dell'ambasciatore Ford con l'opposizione siriana farebbe propendere per il sì. Nel mese di marzo le opposizioni si accorgeranno di drastici cambiamenti nella politica dell'Arabia Saudita perché il principe Bandar e Saud al Faisal scompariranno dalla scena. Anche l'Iran ha rassicurato Russia ed AmeriKKKa che sta cercando di calmare la situazione. Hanno una base, le previsioni di Ford? Da marzo in poi si avrà una conferma, in un senso o nell'altro. Oggi come oggi non c'è alcun segno che i paesi del Golfo intendano disimpegnarsi sul terreno, ad eccezione del Libano, come da noi già illustrato.