Traduzione da Conflicts Forum.
Dopo la sigla degli accordi di Ginevra tra i "cinque più uno" e la Repubblica Islamica dell'Iran gli eventi sono stati caratterizzati da tre dinamiche precise. La prima, per adesso, è data dalla recrudescenza della guerra per interposizione tra Iran ed Arabia Saudita. L'Arabia Saudita non ha colto il ramo d'ulivo offertole dall'Iran e ha continuato l'escalation in Libano (che sta diventando pericolosamente frammentato) in Iraq, la cui conflittualità interna sta arrivando al punto peggiore dopo quelli della guerra del 2003, e in Siria, dove secondo Sayyed Hassan Nasrallah ci si devono attendere a breve "confronti aspri" su vari fronti, intanto che si avvicinano i negoziati stabiliti per il 22 gennaio.
Ciascuna delle due parti in conflitto ha caratterizzato a suo modo il passaggio dal ramoscello d'ulivo allo scontro aperto. In una lunga intervista televisiva il segretario generale di Hezbollah, che difficilmente chiama per nome l'Arabia Saudita e che di regola evita di accusare in modo diretto gli stati arabi, ha detto che il movimento libanese fiancheggiatore di AlQaeda che ha ["in modo credibile"] rivendicato l'attentato all'ambasciata iraniana a Beirut è direttamente finanziato e sostenuto dai servizi sauditi. Nasrallah ha detto che dietro il quotidiano inasprirsi delle violenze in Iraq ci sono sempre i servizi sauditi e che in Siria sono i sauditi a mettere continuamente bastoni tra le ruote ai negoziati perché preferiscono favorire un'affermazione sul terreno dell'insurrezione armata che è un pio desiderio. "L'Arabia Saudita è decisa a combattere fino all'ultimo proiettile e fino all'ultima goccia di sangue siriano", ha affermato il segretario generale.
Allo stesso modo re Abdallah, in uno scostante incontro col presidente libanese già a lungo rimandato e tenutosi all'inizio del mese, non ha dato altro che scarse, laconiche, evasive e monosillabiche risposte a Suleiman: a Suleiman che gli chiedeva se gli sarebbe stato fornito il sostegno necessario a mantenere la carica, il re ha fornito solo l'inconsistente risposta di "insh'Allah" ed ha posto un "no" deciso alla formazione di un governo in Libano, insistendo piuttosto sul fatto che Suleiman avrebbe dovuto rivolgere l'esercito libanese contro Hezbollah. L'esercito nazionale libanese dovrebbe aggredire una componente maggioritaria del popolo del Libano a causa del suo intervento a sostegno del gverno siriano. E' quest'ultima richiesta a costituire l'essenza del messaggio che Abdallah ha dato al presidente.
Nulla fa pensare che ci sia in vista un miglioramento dei rapporti, e tanto meno una riconciliazione tra Arabia Saudita e Repubblica Islamica dell'Iran. In compenso alcune voci riferiscono di dissensi all'interno della famiglia reale saudita: parecchi tra i principi più eminenti hanno scritto al capo di gabinetto del re lamentando l'incompetenza dimostrata dal Principe Bandar nella tutela degli interessi sauditi. Questa lamentela riguarda la seconda delle tre dinamiche in esame, che è rappresentata dal crescente isolamento dell'Arabia Saudita. Alcuni tra i più importanti fra gli esponenti della Casa dei Saud sono preoccupati per la situazione del paese.
La diplomazia iraniana invece si è mossa attivamente, con una campagna documentata e convincente in tutta la regione che ha contribuito ad isolare diplomaticamente l'Arabia Saudita, persino all'interno del Consiglio degli Stati del Golfo. Il Qatar ha stretto rapporti con Hezbollah, la bestia nera dei sauditi; gli Emirati Arabi Uniti stanno prendendo direttamente contatto con Damasco; il Bahrain ha invitato l'Iran alla conferenza di Manama, e sia gli Emirati che altri stati del Golfo hanno ben accolto gli accordi di Ginevra. In questo periodo i diplomatici iraniani non hanno fatto altro che fare la spola in tutto il Medio Oriente spiegando ai leader del Golfo che non hanno nulla da temere da un Iran in ascesa e che al contrario hanno molto da aspettarsi da un "riassestamento" dei poteri nel Golfo. Gli stati del Consiglio sono da molto tempo seccati dall'arroganza dimostrata dai sauditi e stanno accogliendo le profferte di distensione iraniane -cosa che i sauditi non possono al momento fare- riconoscendo di fatto il fallimento della politica sin qui adottata nei confronti della Siria.
Di questa campagna che punta ad isolare l'Arabia fa parte anche la aperta sfida lanciata dal ministro iraniano del petrolio agli interessi vitali dei sauditi, in vista dell'incontro all'OPEC di mercoledi. Il ministro ha detto che l'Iran intende produrre più petrolio possibile se e quando le sanzioni verranno a cadere, senza curarsi dell'effetto che questo avrà sui prezzi. Zaganeh ha detto che il suo paese è deciso a riprendere il suo posto "in tutte le circostanze". "Noi produrremo quattro milioni di barili anche se il prezzo dovesse scendere a venti dollari". In pratica non è possibile che si verifichi un simile crollo nei prezzi perché in fin dei conti saranno la crescita della domanda asiatica e l'equilibrio nelle forniture mondiali a determinarli, ma la minaccian iraniana, sui sauditi, può comunque avere un certo effetto.
Il Presidente Rohani ha intrapreso una significativa campagna di riforme sperando di portare la produzione di petrolio ai livelli di prima delle sanzioni, quattro milioni e duecentomila barili al giorno, entro sei mesi; l'intenzione è di arrivare a sei milioni di barili al giorno entro diciotto mesi, i livelli di prima della rivoluzione. E' chiaro che non si tratta di livelli raggiungibili nei limiti previsti, ma questo non significa che non siano possibili sensibili miglioramenti. Ci si può aspettare che l'Iran riesca a riattivare metà della produzione attualmente inattiva entro un anno o un anno e mezzo; si tratta di cinquecentomila o settecentocinquantamila barili al giorno. Per tornare ai livelli precedenti le sanzioni è probabile che ci vorranno anni, e ad un ritmo più lento.
L'Iraq, che opera in stretto coordinamento con l'Iran, ha affermato di voler arrivare con la produzione ai livelli di prima della guerra entro un anno; esistono comunque dei limiti logistici che rendono verosimile un fallimento, almeno nel breve termine. La Libia, con minore plausibilità, ha lasciato intendere che pensa di tornare a due milioni di barili al giorno se e quando le rivolte si calmeranno. Nessuno pensa che l'Iran desideri davvero che il prezzo del petrolio crolli, ma il punto è chiaro: qualsiasi significativa diminuzione del prezzo finirà per colpire l'Arabia Saudita, che ha bisogno che i prezzi restino attorno ai cento dollari al barile. L'Iran sta mostrando che l'Arabia Saudita sta bluffando al tavolo dell'OPEC. L'Arabia sta perdendo infulenza sul Consiglio degli Stati del Golfo perché la sua linea politica è fallita, e ha meno potere di prima nell'usare l'OPEC come se fosse cosa sua. La crescita potenziale di Iran ed Iraq, semplicemente, può diventare troppo grande perché l'Arabia riesca a farvi fronte, anche perché la sua domanda interna è in aumento; questo fa sì che l'Arabia si trovi nella posizione di chi deve reagire agli eventi piuttosto che in quella di chi può determinare l'andamento dei mercati.
La conferenza dell'OPEC ha mostrato che gran parte del polverone levato da alcune personalità saudite su come il regno potrebbe rispondere al "tradimento" di Obama è fatto di minacce vane. La concretezza e la probabilità di certe affermazioni su una nuova alleanza strategica con lo stato sionista che vada al di là della cooperazione, che è di lunga data ma priva di riconoscimento ufficiale, sono state oggetto di scetticismo. I commentatori sauditi hanno liquidato come "impensabile" l'idea che l'Arabia Saudita si doti di una "bomba" (si veda qui).
A mettere il sigillo sull'isolamento dei sauditi è una dichiarazione rilasciata dal ministro iraniano: si spera che Exxon Mobil Corp., Royal Dutch Shell Plc, BP Plc, Eni SpA e Statoil ASA investiranno in Iran; funzionari iraniani si incontreranno a marzo, a Londra, con esponenti di queste compagnie. L'Arabia Saudita ha sempre cercato di impedire alle compagnie petrolifere di interessarsi all'Iran. Zanganeh ha detto che l'Iran non ha fino ad oggi cercato di contattare alcuna compagnia petrolifera statunitense nonostante vi siano stati colloqui con alcune imprese statunitensi con base in Europa; spera che sarà possibile contattarle a marzo. "Non sono sicuro che farebbe loro piacere che le nominassi", ha detto in un'intervista pubblicata su Shana, il notiziario on line del ministero degli idrocarburi.
Non ci sono soltanto le compagnie petrolifere a fare la fila per trattare con l'Iran.
Nei consolati iraniani di tutto il mondo si affollano gli uomini d'affari. E questo, in certe stanze, suscita allarme. Un lavoro a quattro mani sullo Wall Street Journal a firma dei due ex Segretari di Stato Henry Kissinger e George Shultz spiega chiaramente (nel contesto delle preoccupazioni causate dall'accordo provvisorio) che "per certe persone, per certe imprese e per certi paesi -alcuni dei quali sono alleati degli Stati Uniti- la perdita economica derivante dalle sanzioni è stata tutt'altro che trascurabile. La maggior parte di costorno si curerà meno del rafforzamento o del rispetto delle sanzioni che sono alla base dei negoziati, che essi pensano siano sul punto di condurre ad una "via d'uscita". Questo rischio è destinato a crescere se si rafforzerà l'impressione che gli Stati Uniti abbiano già deciso di rimodellare la propria politica in Medio Oriente sulla base di un riavvicinamento con l'Iran [il corsivo è di Conflicts Forum]. Avranno la tentazione di muoversi per primi per evitare di arrivare per ultimi nel riallacciare i rapporti commerciali, politici e nel campo degli investimenti. Per questo l'idea di una serie di accordi provvisori che controbilancino restrizioni sul nucleare in cambio di un allentamento di sanzioni in questo o quel settore è quasi certamente impraticabile. Un'ulteriore tornata di allentamento delle sanzioni metterà la parola fine a tutto il regime sanzionatorio.
E' probabile che l'avvertimento degli ex segretari giunga troppo tardi. La maggior parte del resto del mondo sa che gli Stati Uniti hanno bisogno di ridimensionare il proprio impegno in Medio Oriente per avere le risorse necessarie a rischierare in Asia energie diplomatiche e militari; la crescita dell'estremismo sunnita rappresenta una minaccia sia agli interessi occidentali che alla stabilità della regione, e la tendenza dell'elettorato statunitense a schierarsi contro altre guerre in Medio Oriente (secondo un sondaggio i favorevoli ad un accordo con l'Iran sono i due terzi degli interpellati) stanno spingendo l'AmeriKKKa verso il raggiungimento di un accordo con la Repubblica Islamica dell'Iran. In altre parole, le élites sunnite e i movimenti islamici sunniti radicali, che stanno agendo per conseguire un obiettivo in comune, hanno perso la guerra che avevano intrapreso per costringere gli Stati Uniti e l'Europa a "contenere" e ad assediare l'Iran fino al punto di far implodere il paese.
E qui entra in gioco la terza dinamica. I contrari all'accordo provvisorio stanno cominciando a raccogliere le forze. Ne sono prova gli scritti di John Hannah e il citato articolo di Kissinger e Shultz. Questo secondo articolo riconosce implicitamente che in gioco c'è l'equilibrio dei poteri in Medio Oriente e mette in guardia contro un Iran che, finalmente libero dall'oneroso regime sanzionatorio, emerga come "una potenza nucleare de facto alla guida del mondo islamico, mentre gli alleati tradizionali perdono fiducia nella crediblità dell'impegno ameriKKKano e si mettono a seguire il modello iraniano...".
La settimana scorsa abbiamo sostenuto che l'impianto dei colloqui -centrati su questione tecniche inerenti il nucleare mentre al centro della questione c'è l'ascesa dell'Iran come potenza regionale, questione che non è stata esplicitamente affrontata- presentava a quanti non gradivano le implicazioni politiche degli accordi un'occasione d'oro per sabotarli rimanendo sul piano delle loro implicazioni tecniche. I tre paesi dell'Unione Europea hanno di fatto posto le basi per inficiare tutto quanto, quando hanno "copiato ed incollato" di fatto la struttura minatoria dei negoziati con l'Iraq ai negoziati iraniani del 2004. I due ex segretari di Stato affermano, con un po' più di chiarezza, che non si preoccupano dell'ascesa di un Iran che persegue politiche ed orientamenti a loro non graditi (e questa è la sostanza della prima parte dell'articolo, in cui si depreca l'etica non occidentale dell'Iran); la questione vera, a loro dire, sta nella possiblità che l'Iran arrivi rapidamente a sviluppare armamenti nucleari. In maniera tanto perentoria quanto poco convincente sostengono che "si dovrebbe essere aperti alla possibilità di fissare un'agenda per la collaborazione nel lungo periodo", ma questa "apertura" dovrebbe avere una caratteristica precisa: essere subordinata la fatto che "l'Iran smantelli o renda inutilizzabile una parte strategicamente singnificativa delle proprie infrastrutture nucleari". [corsivo di Conflicts Forum]
Sanno benissimo che l'Iran su questo non cederà mai. Si tratterebbe di una rottura degli accordi; loro e i loro consociati tirerebbero un sospiro di sollievo e farebbero tornare l'AmeriKKKa al suo oneroso regime sanzionatorio. La capacità di arrivare a realizzare armamenti atomici è un costrutto teorico seondo cui se si è in grado di arricchire combustibile nucleare si è anche in grado di realizzare un'arma. Da un punto di vista semplicistico è una verità evidente, ma da questo punto di vista tutti gli stati che usano l'energia nucleare hanno questa stessa possibilità. Da questo tuttavia non consegue che non sia possibile distinguere tra arricchimento per uso pacifico e arricchimento per uso militare. Il presidente Obama, in un'intervista con Jeff Goldberg sullo Atlantic ha detto esattamente questo quando ha affermato che gli Stati Uniti sanno che l'Iran non ha in programma la costruzione di armamenti nucleari, che non ha stabilito di averne e che se avesse preso questa decisione gli Stati Uniti ne sarebbero stati informati con almeno un anno di anticipo. Si tratta di affermazioni chiare, fatte prima che venissero dispiegate ulteriori misure di sorveglianza e di verifica e che costituiranno di sicuro il nucleo centrale dei futuri negoziati. Obama afferma che arricchimento a scopo civile e arricchimento a scopo bellico possono essere distinti l'uno dall'altro, se gli Stati Uniti sono tanto convinti di poter avere con tanto anticipo notizia di qualunque mutamento nella condotta iraniana.
Nondimeno, articoli come questo sono percepiti con fastidio dagli iraniani proprio come le minacce che arrivano da senatori e membri del Congresso, democratici o repubblicani che siano, affinché si vada avanti sull'inasprimento delle sanzioni senza curarsi del fatto che qualunque sanzione venisse fatta entrare in vigore annullerebbe seduta stante gli accordi già raggiunti. In Iran esiste molto scetticismo sul fatto che il sistema statunitense, inteso come qualche cosa che si oppone ad Obama in quanto tale, si rivelerà alla fine dei conti capace di arrivare ad un accordo con l'Iran. Di qui una specie di competizione psicologica in cui c'è da un lato la consapevolezza del fatto che è inevitabile che in Medio Oriente si dispieghi un nuovo equilibrio di potere con l'ascesa di un Iran ormai "emerso" e dall'altra coloro che cercano di trasmettere il concetto che siano irrinunciabili sanzioni a lungo termine, il cui scopo è quello di imporre all'Iran di fare l'impossibile: provare di propria iniziativa, e una volta per tutte, di non avere certe intenzioni.