Hassan Rohani, presidente della Repubblica Islamica dell'Iran.

Traduzione da Conflicts Forum.

La prossima e dfficile fase nella repressione dei Fratelli Musulmani in Egitto sta venendo alla luce in questi giorni. Nel caso qualcuno avesse qualche dubbio, il generale Sisi ha detto chiaro e tondo chi è che comanda in Egitto, almeno secondo lui: "Chiedo che venerdi tutti gli egiziani onesti ed affidabili sentano il dovere di uscire (per dimostrare nelle piazze)". "Per quale motivo?" "Devono manifestare per affidarmi il mandato e il preciso impegno di affrontare la violenza e il potenziale terrorismo". Sisi non fa menzione di alcuna carica governativa: chiede soltanto che gli vengano dati, e vengano dati a lui in persona, i poteri per reprimere i Fratelli. Secondo fonti dello stato sionista quando l'amministrazione statunitense ha obiettato ammonendo severamente del rischio di una guerra civile, il generale Sisi è rimasto sulle sue posizioni e ha detto agli statunitensi che ora come ora il non fare niente rappresenta il comportamento più pericoloso.
Anche i Fratelli manifestano in piazza venerdi. Devono capire che questo espone i Fratelli, se non sarà oggi sarà domani, alla vecchia tattica usata da Mubarak di infilare provocatori violenti tra manifestanti altrimenti pacifici, così da fornire al generale Sisi il miglior pretesto di cui ha bisogno per inasprire la repressione. Il fatto che i Fratelli abbiano deciso di fare contromanifestazioni nella stessa giornata, comunque, fa pensare che tra di essi serpeggi la fatalistica convinzione che il prossimo confronto sia comunque inevitabile, in un modo o nell'altro.
Siamo a conoscenza di qualche elemento in più sulla "verità" dei Fratelli circa gli avvenimenti che hanno portato al colpo di stato. A fornirla è Esam al Amin che si è sempre rivelato un narratore affidabile. La sua storia torna indietro fino ai disordini del 2011: l'11 aprile Mohammad bin Zayed (principe ereditario negli Emirati Arabi Uniti) assieme ai capi dei suoi servizi ammonì con decisionen il re saudita che a meno che l'insurrezione popolare non fosse stata prevista e messa in condizioni di non nuocere, nessuna delle monarchie del Golfo sarebbe riuscita a sopravvivere. Lo stesso perentorio messaggio è stato ripetuto tre settimane dopo, al convegno della Comunità degli Stati del Golfo convocato in tutta fretta proprio per diffondere le apocalittiche ammonizioni di bin Zayed. Dall'incontro uscì la decisione di assegnare a bin Zayed e al principe Bandar il compito di mettere in pratica le mosse necessarie. Qualche tempo dopo anche la Giordania si è allineata a questo consesso, mentre ne è stato escluso il Qatar a causa dei presunti legami che lo univano ai Fratelli. Ahmad Shafiq, esponente favorevole a Mubarak e candidato sconfitto alle presidenziali egiziane successivamente trasferitosi negli Emirati Arabi, assunse il compito di stratega e coordinatore; il suo primo compito fu quello di mettere insieme un gruppo di esponenti dello "stato profondo" e di unificare l'opposizione sotto un ombrello laico e liberale. Il finanziatore dell'opposizione è stato il miliardario Sawiri, e con lui gli Emirati Arabi e il Kuwait. A novembre 2012 il piano per rovesciare Morsi destabilizzando il paese e fomentando le proteste popolari era in fase di avanzata messa a punto. Qualche tempo dopo, Bandar avvertì la CIA, che non offrì alcun sostegno ma neppure espresse obiezioni. Secondo altri gli Stati Uniti si sono trovati indecisi tra due istanze inconciliabili, quella di mantenere la stabilità e i loro rapporti con l'esercito e quella di sostenere la democrazia, rimanendo così di fatto inattivi. Fin da subito un elemento chiave nel progetto di Bandar e di bin Zayed era la necessità di neutralizzare qualsiasi obiezione statunitense ed europea al colpo di stato: a sbrigare la faccenda sono stati El Baradei, che ha avuto successo con l'Unione Europea, e Tony Blair, che ne ha avuto un po' meno coi mass media. Ingredienti della manovra destabilizzatrice erano la costruzione di una narrativa in cui i Fratelli Musulmani erano incompetenti ed arroganti -e qui c'era qualcosa da costruire- l'esaurimento coordinato della disponibilità di carburante, i black out, i sondaggi che mostravano il calo di popolarità di Morsi e petizioni populiste nello stile di Avaaz.
Nella visione dei Fratelli Musulmani, perché mai Morsi non avrebbe dovuto reagire? Secondo il ben informato al Amin, Morsi credeva alle rassicurazioni di Sisi e dell'ambasciatore statunitense, e ha pensato che in qualche modo sarebbe riuscito a imbrigliare le forze scatenate contro di lui.
In altre parole, si è comportato da ingenuo.
Non è importante che la narrativa dei Fratelli Musulmani sia più o meno esatta in ogni dettaglio: si tratta della loro verità, è una verità abbastanza plausibile e soprattutto fa pensare esattamente al perché i Fratelli dovrebbero sentirsi sicuri del fatto che gli eventi siano destinati a muoversi verso una repressione sanguinosa. I capi dei Fratelli Musulmani che non sono ancora in stato di detensione stanno con insistenza parlando di restaurazione della legittimità, non tanto per Morsi ma per la legittimità in se stessa (si legga qui). Quello che europei e statunitensi stanno servendo loro è a tutti gli effetti il ritorno allo status quo precedente l'uscita di scena di Mubarak: la legalità per il loro partito, lo status di organizzazione non governativa per il loro movimento... nonché l'accettazione del colpo di stato e più probabilmente alla consuetudine delle elezioni pilotate in stile Mubarak.
Qualunque cosa succeda oggi o nelle prossime settimane, il percorso della situazione politica in Egitto appare ormai fissato. Lo stesso si potrebbe dire della crisi economica: secondo Hassan Heikal, un uomo d'affari egiziano, l'Egitto sta perdendo oggi un miliardo di sterline egiziane al giorno, due miliardi di dollari al mese. Negli ultimi due anni l'Efitto ha perso quaranta miliardi dalle proprie riserve e il suo debito è arrivato a cinquanta miliardi mentre il tasso di povertà -le famiglie che guadagnano meno di due dollari al giorno- resta superiore al 40%. Secondo le stime di Heikal l'Egitto avrebbe bisogno di altri cinquanta miliardi di dollari, oltre alla cifra già coperta dai paesi del Golfo, cui si dovrebbero aggiungere aiuti internazionali per venticinque milardi, e tutto questo solo per sottrarsi alla stagnazione economica. Resta da v edere se gli stati del Golfo saranno dell'idea di addossarsi un impegno tanto gravoso.

Difficile prevedere il corso degli eventi nelle aree popolate dai curdi; tuttavia è importante provarci perché la questone potrebbe fornire alla Turchia il pretesto per intervenire direttamente in Siria contro il Partito dell'Unione Democratica. Se si dovesse arrivare a questo, è probabile che le conseguenze sarebbero di vasta portata. Due ordini di eventi hanno fatto negli ultimi tempi salire alle stelle la tensione. Uno è la sconfitta militare che il Partito dell'Unione Democratica, che è la filiazione siriana del PKK, ha inflitto al Fronte di al Nusra nel nord della siria: al Nusra non controlla più i principali passaggi di frontiera che dividono le aree curde siriane da quelle turche. L'altro è l'annuncio del Partito di alcune, prudenti mosse verso la costituzione di aree curde autonome nel nord della Siria. I politici turchi, primo tra tutti Erdogan, considerano potenzialmente disastrosi entrambi gli eventi. La sconfitta di quella al Nusra che i turchi speravano controllasse il nord est della Siria al posto dei curdi significa che adesso le aree curde della Siria sono contigue a quelle turche e che l'aspirazione all'autonomia dei curdi siriani può diffondersi alla loro controparte turca, causando a Erdogan un grattacapo formidabile in materia di politica interna. Inoltre il Partito dell'Unione Democratica ha strappato il controllo del principale valico di frontiera con l'Iraq al maggiormente filoturco Barsani, aprendo al PKK un passaggio verso l'Iraq. Il Partito dell'Unione Democratica è ai ferri corti con il partito curdo di Barsani e a partire da maggio ne ha arrestato in Siria svariati iscritti. Di particolare rilevanza per Erdogan sono le ripercussioni di tutto questo sul dialogo con Abdallah Ocalan, il leader curdo detenuto. Erdogan non dispone in parlamento dei voti sufficienti a trasformarsi, alla scadenza del mandato da primo ministro che non permette la sua rielezione, a presidente con poteri da repubblica presidenziale, tramite alcune modifiche alla costituzione. Sia i curdi che i turchi pensano che l'unico modo che Erdogan ha per raggiungere lo scopo di emendare la costituzione in senso presidenziale sia quello di far passare la cosa in parlamento, in mezzo ad un pacchetto che comprenda anche le modifiche volute dai curdi in materia di lingua e di educazione come minimo e che nascerebbe da un "processo di pace" con Ocalan che fosse coronato da successo. L'affermarsi di dinamiche separatiste in Siria ed in Iraq potrebbe minare le speranze di Erdogan di rimanere in politica come presidente, una volta esauriti i mandati come primo ministro.
Erdogan si trova davanti ad una serie di sfide: la sua politica in Siria si è in larga parte rivelata frutto di errori di calcolo; il ruolo di caso da emulare e di modello per i Fratelli Musulmani se lo era autoattribuito, e ha subito un rovescio umiliante con i fatti del Cairo; infine, le manifestazioni di piazza in Turchia e l'arrogante risposta che ha fornito ad esse hanno nel minore dei casi fatto sì che cadesse il velo dal suo vero volto, sia in Occidente che in Medio Oriente.

Gli Stati Uniti, lo stato sionista e un Abu Mazen piuttosto isolato tornano al processo di pace. Si tratta di un ritorno al "processo di pace in Medio Oriente", sia pure sotto altre spoglie: è rivelatore che gli Stati Uniti tornino all'approccio dei tardi anni Novanta, con l'AmeriKKKa che cerca di tenere insieme le fila dei negoziati. Se si deve credere a quello che si dice in giro e per quanto incredibile possa sembrare, le persone che stanno mandando avanti questo "nuovo" processo sono le stesse che sono state responsabili di quell'approccio unilaterale alla questione che già condusse al fallimento il processo di pace. Abed Rabbo che fa il negoziatore per Abu Mazen e gli ex appartenenti allo AIPAC Martin Indyk (!) e Rob Malley a braccetto con un generale dei marines in pensione, che come tutte le volte deve assicurarsi che i palestinesi sottostiano alle condizioni in materia di sicurezza. Circola anche in questo caso il solito discorso sionista-statunitense ad asserire che stavolta è tutto differente, che questa volta Netanyahu è "davvero entusiasta" e seriamente intenzionato. Non c'è dubbio che la leadership palestinese non è mai stata più debole o disorganizzata da qualunque punto di vista: Netanyahu sa anche che la maggior parte degli abitanti dello stato sionista non vedranno la necessità di offrire alcuna concessione a palestinesi tanto indeboliti. Perché mai dovrebbero? Lo stato sionista -nell'ottica generalmente diffusa tra i suoi abitanti- sta a guardare intanto che il Medio Oriente si fa a brandelli da solo; i palestinesi sono qualcosa di cui devono occuparsi gli arabi e grazie a Obama lo stato sionista non è mai stato così forte dal punto di vista militare; perché offrire loro qualcosa, a meno che essi non siano puramente e semplicemente pronti ad alzare bandiera bianca?
Tutto questo sa di già visto e gli Stati Uniti ci mettono del loro cercando un'altra volta di rimettere insieme un'alleanza sunnita moderata che protegga lo stato sionista. Non c'è dubbio che è stata questa chimera a pesare molto sul bilancio, quando gli Stati Uniti hanno deciso di "darsi una mossa" dopo il colpo di stato al Cairo e di "affrontare la realtà".

Intanto che l'Unione Europea si prepara ad umiliare la cerimonia per l'insediamento del nuovo presidente della Repubblica Islamica dell'Iran tenendo la propria rappresentativa entro i limiti del minimo possibile (i diplomatici già presenti in Iran) il Presidente Putin si recherà in visita ufficiale nel paese il dodici agosto, per incontrare il Presidente Rohani. Dopo la perentoria presa di posizione di Putin sul conflitto in Siria, non ci sarebbe da sorprendersi se adesso si esprimesse in modo deciso anche sul nucleare iraniano. La sua visita giunge in un momento in cui il Daily Telegraph (gazzetta conservatrice del Regno Unito) riferisce che gli insorti siriani stanno iniziando a cedere le armi e ad accettare l'offerta governativa di amnistia, e che i profughi stanno iniziando a rientrare nelle loro case nelle aree controllate dal governo. La sensazione che la guerra per cacciare Assad sia fallita e stia per giungere alla conclusione è forte, a Damasco. Se la sensazione si rivelerà esatta, avrà risvolti strategici importanti e altrettanto importanti ne avrà ogni iniziativa seria dedicata a risolvere la questione nucleare iraniana. Se le due questioni arriveranno al culmine contemporaneamente, il Medio Oriente ne sarà scosso. Si prevede che Iran, Iraq e Siria inizieranno il mese prossimo la preparazione tecnica per il gasdotto da dieci miliardi di dollari che deve unire il giacimento di South Pars al mar Mediterraneo: un progetto che se arrivasse allo stato operativo lascerebbe a bocca asciutta Qatar e Turchia. Non è probabile che Putin vorrà tenere questa prospettiva fuori dalla stategia russa in materia di gas e di petrolio, e per la Russia le opportunità commerciali della ricostruzione in siria e gli investimenti nell'asse Iran-Iraq-Siria offrirebbero ottime occasioni, specialmente adesso che l'Europa si è di fatto chiamat afuori dalla partecipazione a questo ricco asse del petrolio e del gas.