I vocaboli "pacifisti" e "no global" vengono usati, nel gergo gazzettiero della destra, per indicare qualunque cosa e qualunque individuo abbia sufficiente dignità e bastante realismo da osare porre critiche al manovratore di turno.
Nell'operazione di denigrazione continua del nemico interno si possono usare armi di ogni genere, compresa un'intervista ad Alain Finkielkraut, filosofo e letterato francese figlio di un deportato ad Auschwitz. In questa intervista, tratta da tratta Appunti su globalizzazione e dintorni di Rodolfo Casadei, A.F. sostiene che "quando l'Europa ha esercitato un influsso determinante sulle decisioni dell'Onu, i risultati sono stati pessimi a causa del rifiuto degli europei di cogliere l'elemento di conflittualità delle situazioni". A sostegno dell'affermazione viene riportato il caso della città bosniaca di Srebrenica, dove l'11 luglio del 1995 le truppe serbo bosniache uccisero tra le ottomila e le diecimila persone in quella che è stata la peggiore strage in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale. Finkielkraut afferma che la colpa del massacro fu praticamente dei soldati olandesi, che "consegnarono la città al generale Mladic". Un rapido giro su Wikipedia (un organo non certo specialistico, e neppure noto per la precisione indiscutibile) mostra in realtà un quadro ben più articolato e sicuramente tale da non giustificare un'asserzione tanto categorica; soldati olandesi hanno poi partecipato otto anni dopo all'aggressione all'Iraq senza che nessuno, tantomeno A.F., avesse a criticarne il comportamento. Proprio ai tempi della pianificatissima ed ampiamente pubblicizzata aggressione all'Iraq, in occasione della quale gli americani hanno usato le Nazioni Unite praticamente per pulirsi le scarpe, un ulteriore "influsso determinante sulle decisioni dell'Onu" avrebbe portato forse a risultati un po' meno devastanti di quelli che abbiamo sotto gli occhi. Potremmo infierire ricordando che i caduti di Srebrenica erano praticamente tutti bosniaci musulmani, ossia "islamici" che i media "occidentali", da qualche anno a questa parte, propendono a classificare tra le "perdite collaterali". Questo, per ricordare la ferrea coerenza e l'alto senso di umanità degli editorialisti e dei politicanti ai quali vengono concessi microfoni e visibilità.
Per qualche anno, fin quando è durata la speranza che in Iraq le cose andassero per il verso giusto, è andato di gran moda disprezzare l'operato delle Nazioni Unite; Finkielkraut non si sottrae al trend generale, e lamenta quello che a sentir lui è stato il "sequestro" della conferenza antirazzista di Durban operato da "paesi arabi e musulmani", sostanzialmente "colpevoli", una volta tanto, di aver utilizzato proficuamente e con buona competenza una situazione di grande impatto mediatico.
Non ci trova d'accordo neppure l'attribuzione causale operata dall'intervistato, che identificherebbe nella "adolescenzialità" la causa prima di chi manifesta o si esprime in nome dell'antimperialismo. Assumere atteggiamenti simili in un contesto dominato da mass media monocordemente ostili e capacissimi di distorsioni del reale ai limiti del folle richiede ben altra preparazione e ben altro spirito critico che non quello delle "indignazioni stridule" a suo dire tipico dell'adolescenza. Con buona pace del signor Finkielkraut chiunque si sia peritato di spengere la televisione e di farsi quattro chiacchiere con qualche attivista politico ha avuto modo di accorgersi che i manifestanti che si oppongono all'amministrazione Bush, almeno in partenza, sono tutt'altro che "antiamericani" tout court perché la cultura americana ha imbevuto le ultime generazioni, contribuendo a creare il mito di un'America che non esiste e che forse non è mai neppure esistita fuori dai telefilm e dai fumetti. Si tratta dunque di persone capacissime di contare "ben oltre il due" e nient'affatto manichee, che hanno loro malgrado dovuto fare i conti con l'abisso pericoloso di incoscienza, di incultura e di idiozia che si stanno avviando a costituire il fondamento comportamentale non soltanto dei politici e dei militari, ma anche e soprattutto dei cittadini della prima potenza mondiale, che non perdono occasione di farne sfoggio nei media del loro paese e nelle strade e nelle piazze dei paesi che visitano da turisti. In base a quali elementi si debba poi ravvisare in questo atteggiamento "un desiderio appassionato di fuoriuscire dalla politica" è una domanda destinata a rimanere senza risposta. Noi saremmo portati, se mai, a identificarvi "un desiderio appassionato di impedire agli incoscienti di fare troppi danni".
L'assoluta incomprensione di Finkielkraut per le istanze espresse dall'attivismo politico degli ultimi anni traspare dalla considerazione secondo la quale "la legalità internazionale" richiesta a gran voce "protegge il tiranno e gli permette di non rendere conto dei suoi crimini". Più che "proteggere il tiranno" la "legalità internazionale" avrebbe impedito agli yankee di mettere in piedi un inutile e mostruoso macello; quanto al "tiranno", finiti i tempi in cui riceveva con tutti gli onori un certo Donald Rumsfeld, lo si è processato in gran fretta per un solo capo di imputazione e si è pensato bene di chiudergli la bocca per sempre, togliendo di mezzo un testimone imbarazzante..
Pacifisti e No Global? Realisti ad oltranza. Confutazione di Alain Finkielkraut
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