Domenico Bonvegna è una prolificissima penna probabilmente del Persicetano (qualunque cosa sia e
dovunque si trovi il Persicetano) spesso citato dal
sito cui si fa il verso in questa sede.
Il coraggioso Domenico usa spesso la scarsissima e ormai frusta panoplia islamofobica per l'analisi storica e sociale, ed ha creduto bene di dire la sua anche in occasione dell'uscita di un negletto filmino di Mel Gibson finito nel dimenticatoio alla velocità del lampo (sorte comune, in tempi di internet, alla stragrande maggioranza delle produzioni mediatiche) insieme con la ciurma "teoconservatrice" i cui sanguinari intenti trovano da anni e anni sponda acritica nei media mainstream della penisola italiana.
Pare che Gibson abbia confezionato il film -che ci siamo ben guardati dal visionare, il poco tempo che dedichiamo ai filmetti yankee non ce l'ha permesso- mettendo estrema cura nell'esporre i lati più sanguinari della civiltà maya ed autorizzando di fatto tutta una serie di paragoni, ovviamente a senso unico, al cui centro c'è la questione dei sacrifici umani, praticati con abbondanza da molte civiltà precolombiane del Messico.
A sentir Bonvegna, questo film da solo sarebbe sufficiente a sfatare una "leggenda aurea creata attorno ai Maya, ma anche agli Aztechi, considerati "selvaggi buoni" eliminati dai cattivi europei". Peccato che di una simile leggenda nessuno abbia mai sentito parlare e che l'abbondanza di lavori scientifici a disposizione sia orientata esattamente al contrario. Quello che Domenico Bonvegna non evidenzia -ché l'intento "anticomunista" del suo costrutto ne risentirebbe abbastanza- è che paragonare in questi termini "una cultura fondata sui sacrifici umani, rispetto per esempio ad una cultura cristiana fondata sul perdono e la compassione" è un'operazione di rara assurdità. Per farlo si deve postulare la consueta malvagità metafisica dell'"altro", un "altro" che per gli estimatori di Oriana Fallaci è di solito quello che essi definiscono "un islamico" ma che all'occorrenza può essere rappresentato da qualunque gruppo sociale denigrabile. In questo caso si deve postulare che generazioni di Maya e di Aztechi, non avendo evidentemente di meglio da fare ed essendo assolutamente malvagi per natura, si alzavano ogni mattina aspettando il sacrificio umano delle cinque e un quarto, disponibili posti in platea, ingresso ridotto per studenti e militari in divisa. Un modo di fare perfettamente in linea con l'entusiasmante incompetenza "occidentalista" ma che chiunque abbia un minimo di rispetto per se stesso si guarda bene dall'utilizzare.
Con ben altra serietà Marvin Harris, un antopologo statunitense recentemente scomparso, ha sottolineato come la pratica del sacrificio umano presso le popolazioni messicane rappresenti un caso per adesso unico al mondo. Intanto, non di "sacrifici umani" si dovrebbe parlare, quanto di "cannibalismo guerresco" perché le vittime erano di solito prigionieri di guerra o individui consegnati come tributo dalle popolazioni dominate. Secondo Harris questo tipo di cannibalismo aveva il fine preciso di fornire di proteine animali la dieta di una popolazione che non disponeva di risorse efficienti allo stesso fine. In particolare spicca, nel Messico precolombiano, l'assenza di grandi erbivori addomesticabili o addomesticati e la complessiva inefficienza o aleatoria disponibilità di tutte le altre fonti di proteine. Nutrirsi di carne umana presenta problemi di vario ordine, ivi compresa la scarsa efficienza della caccia (una battuta di caccia all'uomo può benissimo veder soccombere più cacciatori che prede) e la necessità di consumare individui giovani e in piena salute proprio perche il bilancio tra risorse impiegate e benefici conseguiti resti in attivo; solo la supremazia marziale poteva garantire con continuità risorse d questo genere. Il radicale cambiamento sociale imposto dall'arrivo dei colonizzatori, e con loro dei grandi erbivori, fece rapidamente regredire una pratica comunque meno efficiente rispetto ad ogni genere di allevamento.
Anche il fenomeno del cannibalismo è dunque spiegabile in termini assolutamente immanenti, senza necessità di scomodare "inculturazioni miracolose" o "civiltà superiori" di qualunque genere. E soprattutto senza dover pendere dalle labbra di un "teoconservatore" yankee o sentirsi in dovere di demolire "miti" che nessuno ha costruito.
Il coraggioso Domenico usa spesso la scarsissima e ormai frusta panoplia islamofobica per l'analisi storica e sociale, ed ha creduto bene di dire la sua anche in occasione dell'uscita di un negletto filmino di Mel Gibson finito nel dimenticatoio alla velocità del lampo (sorte comune, in tempi di internet, alla stragrande maggioranza delle produzioni mediatiche) insieme con la ciurma "teoconservatrice" i cui sanguinari intenti trovano da anni e anni sponda acritica nei media mainstream della penisola italiana.
Pare che Gibson abbia confezionato il film -che ci siamo ben guardati dal visionare, il poco tempo che dedichiamo ai filmetti yankee non ce l'ha permesso- mettendo estrema cura nell'esporre i lati più sanguinari della civiltà maya ed autorizzando di fatto tutta una serie di paragoni, ovviamente a senso unico, al cui centro c'è la questione dei sacrifici umani, praticati con abbondanza da molte civiltà precolombiane del Messico.
A sentir Bonvegna, questo film da solo sarebbe sufficiente a sfatare una "leggenda aurea creata attorno ai Maya, ma anche agli Aztechi, considerati "selvaggi buoni" eliminati dai cattivi europei". Peccato che di una simile leggenda nessuno abbia mai sentito parlare e che l'abbondanza di lavori scientifici a disposizione sia orientata esattamente al contrario. Quello che Domenico Bonvegna non evidenzia -ché l'intento "anticomunista" del suo costrutto ne risentirebbe abbastanza- è che paragonare in questi termini "una cultura fondata sui sacrifici umani, rispetto per esempio ad una cultura cristiana fondata sul perdono e la compassione" è un'operazione di rara assurdità. Per farlo si deve postulare la consueta malvagità metafisica dell'"altro", un "altro" che per gli estimatori di Oriana Fallaci è di solito quello che essi definiscono "un islamico" ma che all'occorrenza può essere rappresentato da qualunque gruppo sociale denigrabile. In questo caso si deve postulare che generazioni di Maya e di Aztechi, non avendo evidentemente di meglio da fare ed essendo assolutamente malvagi per natura, si alzavano ogni mattina aspettando il sacrificio umano delle cinque e un quarto, disponibili posti in platea, ingresso ridotto per studenti e militari in divisa. Un modo di fare perfettamente in linea con l'entusiasmante incompetenza "occidentalista" ma che chiunque abbia un minimo di rispetto per se stesso si guarda bene dall'utilizzare.
Con ben altra serietà Marvin Harris, un antopologo statunitense recentemente scomparso, ha sottolineato come la pratica del sacrificio umano presso le popolazioni messicane rappresenti un caso per adesso unico al mondo. Intanto, non di "sacrifici umani" si dovrebbe parlare, quanto di "cannibalismo guerresco" perché le vittime erano di solito prigionieri di guerra o individui consegnati come tributo dalle popolazioni dominate. Secondo Harris questo tipo di cannibalismo aveva il fine preciso di fornire di proteine animali la dieta di una popolazione che non disponeva di risorse efficienti allo stesso fine. In particolare spicca, nel Messico precolombiano, l'assenza di grandi erbivori addomesticabili o addomesticati e la complessiva inefficienza o aleatoria disponibilità di tutte le altre fonti di proteine. Nutrirsi di carne umana presenta problemi di vario ordine, ivi compresa la scarsa efficienza della caccia (una battuta di caccia all'uomo può benissimo veder soccombere più cacciatori che prede) e la necessità di consumare individui giovani e in piena salute proprio perche il bilancio tra risorse impiegate e benefici conseguiti resti in attivo; solo la supremazia marziale poteva garantire con continuità risorse d questo genere. Il radicale cambiamento sociale imposto dall'arrivo dei colonizzatori, e con loro dei grandi erbivori, fece rapidamente regredire una pratica comunque meno efficiente rispetto ad ogni genere di allevamento.
Anche il fenomeno del cannibalismo è dunque spiegabile in termini assolutamente immanenti, senza necessità di scomodare "inculturazioni miracolose" o "civiltà superiori" di qualunque genere. E soprattutto senza dover pendere dalle labbra di un "teoconservatore" yankee o sentirsi in dovere di demolire "miti" che nessuno ha costruito.